Il vittimista e il suo imporre il senso di colpa

Tutti, talvolta, viviamo un po’ in modalità «mai una gioia», con l’impressione che nella nostra vita le cose vadano sempre per il verso sbagliato, tuttavia si tratta di stati passeggeri. Il più delle volte riusciamo a stare bene con noi stessi, assumerci le nostre responsabilità e a trarre il meglio dalle circostanze della vita. Non va affatto così per le persone che riversano costantemente le proprie responsabilità sugli altri. «La sola persona che non può essere aiutata è la persona che getta la colpa sugli altri» – Carl Rogers. Diciamocelo francamente, per alcune persone incolpare gli altri o il fato, è una modalità pervasiva utilizzata in più occasioni quotidiane per allontanare da sé le responsabilità e ottenere attenzioni.

Quali sono le caratteristiche di queste persone?
In psicologia si parla di deresponsabilizzazione, sindrome del deresponsabilizzato o vittimismo patologico. In questo articolo, metterò da parte la teoria per vedere, in termini pratici, quali sono le dinamiche più comuni e le frasi che fanno emergere questa triste tendenza. Alla base della deresponsabilizzazione c’è un forte senso di impotenza e un’indomabile attitudine a colpevolizzare l’altro per scaricare frustrazione e rabbia. Quali sono le caratteristiche del vittimista?

Crede fermamente che tutto ciò che accada sia colpa degli altri.
Tendono a interpretare qualsiasi evento (o tua azione) in termini negativi, senza mai tentare di assumere un’altra prospettiva.
Si appigliano a ogni dettaglio per accusare e condannare l’altro.
Si lamentano senza però tentare qualsiasi strategia risolutiva, senza provare a cambiare la situazione.
Sono indulgenti con se stessi e severi con gli altri. Per esempio, un proprio errore è frutto di circostanze sfavorevoli, un errore commesso da altri è frutto di incapacità o malafede.
Si sentono incompresi, nonostante la tua empatia.
I suoi problemi sono sempre più grandi di quelli degli altri (compresi i tuoi).
Analogamente, i suoi bisogni sono sempre più importanti di quelli degli altri (compresi i tuoi).
Hanno bisogno di molte attenzioni perché riferiscono livelli di sofferenza elevati.
Usano una comunicazione drammatica, affliggente.
Hanno sempre troppe cose da fare, sono costantemente sopraffatti.
Il vittimista miete molte vere vittime. Il motivo? Deve trovare il suo capro espiatorio, il soggetto che dovrà assumersi la responsabilità di tutte le sue insoddisfazioni. Solitamente capro designato è una persona affettivamente vicina come il partner o un amico malcapitato. Ci sono poi anche vittime collaterali, più occasionali. Qualsiasi persona che tenterà di correre in suo aiuto finirà per sentirsi attaccato e incolpato di non essere in grado di capire o aiutare. Questi soccorritori finiscono per sviluppare sentimenti di inadeguatezza e di colpa, possono sentirsi ferite e, a lungo andare, vedere la propria autostima declinarsi inesorabilmente. Qualsiasi cosa facciano per essere di supporto, è sempre e comunque sbagliata.

Frasi tipiche di chi riversa sempre la colpa sugli altri
Chi scarica sempre le proprie responsabilità sull’altro sente l’esigenza di giudicare l’altro per primo, per non essere giudicato. Vede il male negli altri per non dover fare i conti con il proprio, amplifica le mancanze altrui e minimizza le sue. Delegittima sentimenti e azioni altrui, mentre ciò che sente e fa lui/lei è sempre dovuto. Nel delegittimare l’altro, il vittimista si limita a mettere i suoi sentimenti su un piano di superiorità o fare l’offeso quando gli si fa notare una verità indiscutibile.

«Tu non puoi capire, non sai cosa sto passando!»
«Allora credi che io stia mentendo? È questo che pensi di me? Che sono un bugiardo?!»
«Mi aggredisci, calmati un po’» quando in realtà sono loro ad aggredire ed essere alterati.
I vittimisti creano confusione, sono capaci di rimangiarsi la parola mille volte e ritrattare pur di non ammettere un proprio errore. Nelle conversazioni con loro, ci vorrebbe un registratore costantemente sul replay perché nello stesso discorso, se messi alle strette, sono capaci di dire tutto e il contrario di tutto!

«Non era mia intenzione dire questo, mi hai frainteso!»
«Mi vuoi imporre la tua visione ma non è andata così»
«Ciò non contraddice ciò che ho detto, capisci bene!»
«È inutile discutere con te, distorci sempre tutto»
Sono capaci di calcare la mano per ottenere attenzioni e favori. Il loro calcare la mano si traduce nell’impiego di ricatti affettivi e quindi manipolazione psicologica. Frasi come:

«Io non faccio così quando tu…»
«Con tutto quello che faccio per te..»
«Il minimo che tu possa fare…»
«Va bene così, come sempre dovrò arrangiarmi da solo»
Il suo «va bene» non è come un semplice e autentico va bene, è ricco di rabbia, rancore, e sottende una velata minaccia: tu fai pure così, io me lo ricorderò e te la farò scontare. Non sanno chiedere scusa, anche quando sono palesemente in torto, le loro scuse somigliano più a giustificazioni atte a scaricare la colpa del loro comportamento sulle circostanze. Oppure, colpevolizzano te per esserti ferito!

«Questo periodo è molto difficile, sono molto stressato…»
«Per te non ne faccio mai una giusta! Hai sempre da ridire…» (e questo è paradossale!)
«Con tutte le preoccupazioni che ho, ovvio che l’ho dimenticato»
Cosa fare?
Che tu sia un vittimista o una sua vittima, hai bisogno di comprendere una cosa. Per quanto dura possa sembrare, sei tu l’unico artefice della tua felicità. Non puoi affidare agli altri il compiuto di accudirti, rassicurarti e risolverti la vita (facendosi carico dei tuoi conflitti interiori), ciò significa implicitamente che non puoi assumere il gravoso compito di salvare l’altro.

Se credi di essere vittima di un vittimista, hai bisogno di comprendere che si tratta di una persona che assume questo ruolo a prescindere da tuo operato. È importante che tu capisca questo passaggio per non cadere nella trappola dei sensi di colpa e dei ricatti affettivi. L’unica cosa che puoi fare è porre dei limiti invalicabili, lavorare su te stesso per comprendere cosa c’è alla base di questa tua tendenza all’eccessivo accudimento. Chi, da bambino, si è dovuto fare carico delle responsabilità genitoriali (inversione dei ruoli, il figlio che finisce per accudire un genitore fragile, una dura forma di adultizzazione infantile tipica dei bambini che maturano troppo in fretta, bruciando le tappe), può facilmente legare con persone così.

Spesso, nella storia del vittimista possono emergere vissuti di violenza fisica, abusi psicologici o ambienti familiari estremamente trascuranti. Il vittimismo diviene l’espressione di un apprendimento che recita a gran voce: nessuno potrà mai aiutarmi. Queste persone, infatti, non sono mai state aiutate veramente da qualcuno, non hanno mai conosciuto la genuina disponibilità genitoriale. Anche se la loro infanzia ha una facciata di felicità e provano nostalgia, nella realtà dei fatti sono cresciuti in un ambiente ambivalente e pericoloso.

Impara a esprimere i tuoi bisogni
Gli adulti di riferimento erano abusanti, ambigui e inaffidabili. Crescendo in questo ambiente, il vittimista ha sviluppato la convinzione che nessuno possa o voglia davvero aiutarlo e che tutti, in fondo, se ne freghino. Crescendo in un ambiente così, quel bambino non ha mai imparato a esprimere in modo diretto i suoi bisogni e quindi ha imparato a manifestarli in modo indiretto ed esasperato nel disperato tentativo di farsi ascoltare. In un certo senso, è ciò che fai anche oggi: nel tentativo disperato di farti notare e accudire, esasperi e abbracci ogni disavventura. Hai molta rabbia dentro di te, per ciò che ti è stato negato da bambino. Un percorso introspettivo di consentirà di risolvere il tuo passato.

Frasi tipiche di chi vuole riversare le colpe su di te
Fonte: A.De Simone , Psicologia Sociale

L’IDENTIKIT DEL VITTIMISTA PATOLOGICO

Nota anche come Sindrome di Calimero, quella del vittimista patologico è una modalità immatura di vivere la relazione e di affrontare la realtà, che si innesca quando il soggetto percepisce come non paritario il confronto con l’altro e quindi ricorre ad una “stampella” per reggere il confronto. Il vittimista patologico non si presenta mai come tale, bensì come vittima. Ma attenzione, esiste una differenza sostanziale tra una vittima e un vittimista: entrambi possono aver subìto disgrazie o ingiustizie più o meno gravi, ma il modo di reagire alle stesse è diametralmente opposto. La vittima può avere consapevolezza dell’ingiustizia che vive e la gestisce con se stessa, il vittimista non è interessato alla risoluzione del suo problema (laddove questo esista realmente) bensì alla sua strumentalizzazione. Questo gli consente di detenere una posizione di potere sull’altro, che alimenta infondendo sensi di colpa, strumentalizzando cose e/o persone che l’altro ha a cuore e toccando i suoi nervi scoperti e le sue parti deboli. E può tenerlo sotto scacco anche per tutta la vita. Il tutto senza applicare coercizione fisica, ma tessendo una invisibile tela che la vittima non percepisce immediatamente, ma solo quando sente di non potersene più liberare. Questa tipologia di autori di violenza può tranquillamente definirsi manipolatrice ed ha alcuni aspetti in comune col narcisista patologico.

QUAL É L’INTENTO DEL VITTIMISTA PATOLOGICO?

La messa in atto di comportamenti subdoli, finalizzati a non farsi scoprire e quindi a non rendersi attaccabili, ha il preciso intento di tenere in pugno le persone che manipolano (senza dargli la reale percezione che questo stia avvenendo) al fine di piegarle al proprio “progetto”. Diventano così tiranni relazionali perchè, facendo leva sul compatimento o sul senso di colpa dell’interlocutore, gli viene facile ottenere ciò che desiderano. Inoltre, il vittimista patologico vive ed alimenta condizioni di sofferenza fino a farle diventare il proprio habitat naturale, una barriera difensiva patologica senza la quale non sarebbe più in grado di andare avanti: generando senso di colpa e compatimento nell’altro e strumentalizzando problemi reali o fantasmagorici, attira verso di sè tutta l’attenzione. Non è un caso che, quasi sempre, la controparte sia una persona fortemente empatica. E non è un caso nemmeno il fatto che, nel momento in cui la vittima cerca di divincolarsi dai tentacoli di quella piovra, questa – nel terrore di vedere sgretolare quel malsano equilibrio sul quale ha costruito la sua intera esistenza – diventa aggressiva oltremodo e oltre ogni misura. Ed ecco il motivo per cui, in dinamiche di questo tipo, il primo nemico che la vittima deve combattere è se stessa, se non vuole consentire o prolungare la presenza di parassiti che si cibano della sua vita per sopravvivere. Come il parassitismo è una forma di simbiosi in cui il parassita trae vantaggio a danno dell’ospite, allo stesso modo la relazione tossica è una forma di simbiosi in cui l’autore di violenza psicologica trae vantaggio a spese di chi la subisce. Perché il parassita sopravvive là dove l’organismo che lo ospita è disposto a morire

Identikit del vittimista patologico: una bestia silente. Fonte:scirokko.it

Stress lavorativo e malattia professionale

come gestire le risorse umane

Ferdinando Pellegrino (U.O. Salute Mentale ASL Salerno 1, Costa D’Amalfi)

Patrizia Orsucci (Prato)

Da tempo lo stress lavorativo è, a vario titolo, al centro dell’attenzione di molti operatori sanitari. Ci si è accorti che là dove le risorse umane  non sono ben gestite, i danni, sia per gli operatori stessi che per gli utenti, sono talvolta ingenti e onerosi sotto l’aspetto emotivo per l’operatore e da un punto di vista economico per l’azienda di cui fa parte. Gestire al meglio le risorse professionali diventa quindi un impegno importante e necessario soprattutto in quelle attività professionali, quelle attinenti all’aiuto, dove il carico emotivo è considerevole. Lo stress che deriva da un’attività svolta  sotto pressioni varie ha tutt’altro che un effetto stimolante e motivante come si credeva fino a qualche tempo fa al fine di produrre sempre di più, ma ha un effetto dannoso perché lo stress che ne consegue è insidioso, riduce le performance e può paralizzare un’attività creativa per la massiccia quantità di aggressività che smobilita; alla lunga una situazione lavorativa pesante demotiva, esaspera e suscita difese sterili e ciniche degli operatori sia nei confronti degli utenti che dei colleghi.

Che il più forte la vince è ormai un’utopia perché spesso difese rigide sono motivo di involuzione e di crollo.

Accanto ad abilità tecniche, saper fare, sempre più specifiche e specialistiche, non possono mancare abilità psicologiche legate alla persona e al saper essere,  conoscersi e relazionarsi.

Quando lo stress lavorativo irrompe diventa causa di burnout e le sue conseguenze si ripercuotono  a più livelli con segni clinici che l’ormai ben noto test B.M.I. della Maslach consente di quantificare nelle sue componenti precipue di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e derealizzazione personale di coloro che lo vivono. Le persone che si trovano a sperimentare su se stesse gli effetti di un sovraccarico di stress  passano da una sensazione di inaridimento, di  esaurimento, di disaffezione al proprio lavoro caratterizzata da una risposta fredda ed impersonale nei confronti degli altri; sensazioni vissute come forti frustrazioni  che, la dove non sono riconosciute, trovano espressione anche con la comparsa di somatizzazioni e slatentizzazioni con veri e propri  scompensi soprattutto dove vi siano già patologie in atto. Burnout quindi come sintomo o come malattia e cosa fare per trattarlo e soprattutto prevenirlo? Certamente il malessere  sperimentato può essere un sintomo ma quando il suo perdurare nel tempo cronicizza situazioni e vissuti logoranti diventa una vera e propria malattia che compromette seriamente il benessere dell’individuo rendendolo vulnerabile sotto molti aspetti sia fisici che relazionali.

Ad un entusiasmo idealistico che si colloca, in genere, all’inizio della carriera lavorativa (Edelwich e Brodsky, 1980) e che di solito coincide con la tendenza a sottovalutare le difficoltà e a nutrire solo aspettative ottimistiche rispetto agli obiettivi del proprio intervento può far seguito una fase di stagnazione; se il divario fra competenze e richieste è sproporzionato e nell’impatto con la realtà l’operatore si accorge che i suoi bisogni non trovano la soddisfazione attesa ciò diventa motivo di frustrazione che può alimentare e ingenerare una situazione di logoramento sia fisico che psichico.

L’individuo che si viene a trovare imbrigliato in questa fase sperimenta delle modalità d’uscita dal disagio che, se non ben gestite, lo avviluppano sempre di più ad una fase di esaurimento per arginare il quale scivola in modalità svariate di fuga che innescano un pericoloso circolo vizioso che viene a ritorcersi contro. Nel tentativo di uscire dalla dissonanza emotiva percepita e di liberarsi dalla frustrazione, intesa come modalità intrapsichica di difesa, viene sperimentata una forte apatia che induce un condizionamento dell’attività cognitiva e che travolge la persona con percezioni, atteggiamenti e mete  severamente disfunzionali. Non si tratta di un semplice stato di tensione ma di una vera e propria modificazione cognitiva che condiziona l’assetto emotivo affettivo del soggetto verso la propria attività e che, una volta verificatosi, necessita di un intervento terapeutico che consenta l’instaurarsi o il ripristino di un’adeguatezza del pensiero e del comportamento che lo aiutino a “ridefinire” la situazione penosa sperimentata. A tal fine, parafrasando Grazia Attili (1993), bisogna lavorare per reinterpretare i modelli mentali di attaccamento che, operando al di fuori della consapevolezza ed essendo di difficile accesso alla coscienza,  richiedono un forte impegno per essere ristrutturati. 

Ma quanto dipende dall’organizzazione e quanto dalla struttura di personalità? A questo proposito emerge una stretta correlazione fra i fattori predisponenti dell’individuo, innati o appresi, che colludono con il sistema fino ad agire come fattori scatenanti: bassa autostima, passività, mancanza di assertività, scarsa identità professionale, perfezionismo, idealismo, valori personali incongrui con la reale situazione di vita sono punti di vulnerabilità. E’ anche su questi fattori che bisogna focalizzare l’attenzione per gestire in modo ottimale le risorse umane e professionali in un clima organizzativo disposto a favorire e facilitare un sano ambiente lavorativo.

Produrre un bene di consumo è diverso dal produrre un servizio. Un cliente è diverso da un paziente ma mentre in un caso c’è in gioco la fornitura di un prodotto, con la sua qualità di materiali e di manifattura, nel secondo caso c’è in gioco qualcosa di più importante come lo è la salute e, se l’efficacia dell’operatore è compromessa, il danno è di gran lunga superiore. Come un chirurgo non può operare bene con un bisturi non affilato (Balint), così un professionista che non sia in buona forma è esposto al rischio di non fornire un buon intervento terapeutico. Nelle professioni d’aiuto, lo stress si connette con la presenza di maggiori errori medici, sia di diagnosi che di terapia e con difficoltà nella relazione con il paziente, poiché l’empatia e la sensibilità ridotte condizionano il rapporto fino alla comparsa di modalità ciniche di relazione fino anche ad a situazioni limite di colpevolizzazione del paziente se non si hanno i risultati desiderati. Gli operatori  coinvolti in queste dinamiche, là dove perdurano oltre i sei mesi, sperimentano la comparsa di tensione, ansia e depressione e rischiano una cronicizzazione del disagio seguito talvolta da un allargamento della conflittualità anche nell’ambiente familiare con punte di escalation di aggressività che possono individuare uno spazio di espressione anche dentro la soglia di casa. Una ricerca della Makno in Italia, su 300 medici e 300 paramedici ha quantificato quanto sopra in percentuali verificabili.

Parlare e attuare la prevenzione è indispensabile; dovrebbe essere un imperativo morale di ogni organizzazione ma spesso la promozione di benessere non è sufficiente soprattutto dove la gestione delle risorse umane viene identificata e confusa con l’amministrazione del personale che è invece ben altra cosa. Prevenire il burnout significa occuparsi della gestione libidico-emotiva degli operatori, dei fattori personali, di quelli ambientali, familiari e sociali; dove non c’è un clima armonico, uno spazio d’appartenenza  e dove la gestione delle conflittualità è lasciata al caso o rimossa, anziché impiegata nell’ottica di un confronto costruttivo, senza falsi ottimismi, è difficile evitare situazioni dannose.

L’obiettivo prioritario di ogni Azienda, compresa l’Azienda Sanità, ha da tener conto di una gestione del personale che abbia in considerazione l’evitare i danni da mal funzionamento in una prospettiva che valorizzi gli individui nella loro interezza sia per le competenze professionali ma anche per il benessere personale; fra l’Azienda e l’individuo c’è da considerare l’importanza dell’attivazione di una collaborazione congiunta che  abbia un obiettivo dichiarato ed evidente da perseguire e che contempli una partecipazione  in cui lo sparare alle spalle non serva veramente a nessuno. Ciò è da intendersi non come una delega implicita al professionista di potere decisionale ma come una partecipazione attiva con un potere contrattuale che consenta un lavoro di squadra. Spesso le situazioni di burnout sono più frequenti in quei sistemi lavorativi dove c’è una leadership forte, presa e mantenuta, da dirigenti che tengono insieme  con  la forza qualcosa che non è saputo mantenere con altre qualità: in realtà in queste situazioni  il grosso problema è quello di una vera e propria mancanza di leadership.

E se è pur vero che il potere logora chi non ce l’ha, risposta scontata ad atteggiamenti invidiosi, è altrettanto vero che chi lo gestisce male si espone a sua volta a subire il feedback che deriva dal proprio operato e alla lunga non dà risultati edificanti per nessuno.

Nell’ambito di un progetto preventivo dei danni da stress  le modalità di intervento sono quindi da indirizzarsi su due direzioni principali: verso la struttura organizzativa da un lato e verso l’operatore dall’altro. Fra i requisiti fondamentali della struttura ci deve essere il rispetto per l’operatore e per la sua professionalità, il rispetto delle norme contrattuali, un ambiente confortevole, ma soprattutto la capacità e la volontà di chiarire i propri obiettivi, di coinvolgere tutte le figure professionali nel rispetto dei ruoli, salvaguardando la salute psicofisica dei propri dipendenti e indirettamente dei propri utenti. Gli interventi nei confronti degli operatori sono più difficili da gestire; i tempi sono spesso più lunghi perché ci si confronta con diverse strutture di personalità. In questo ambito sono essenziali le strategie di supervisione permanente e gli interventi sulla motivazione e sull’autostima. A questo scopo uno dei metodi collaudati e più efficaci è il lavoro fatto con i Gruppi Balint. Là dove questa metodologia di lavoro  trova spazio d’accoglienza con serietà e costanza, il rapporto medico-paziente e di conseguenza la compliance, ovvero l’adesione dei pazienti alle terapie indicate, risulta più seguita e maggiori sono i risultati terapeutici.

Quando l’Azienda e il professionista riescono a stringere un rapporto di fedeltà basato sulla trasparenza, tale da generare uno scambio di fiducia reciproca finalizzato al raggiungimento degli obiettivi attraverso la collaborazione, si può finalmente dire di avere un obiettivo comune e ciò, come in ogni rapporto che voglia vivere e crescere, è l’elemento costitutivo..

Riferendoci all’iceberg organizzativo che suggerisce il Dr. Anton Obholzer della Tavistoch Clinic di Londra, dobbiamo considerare che anche nel lavoro con le Aziende abbiamo a che fare con le componenti conscia ed una inconscia di un sistema e che ai meccanismi operativi si affiancano e si intersecano gli atteggiamenti e l’ideologia delle persone. 

Spesso, ma molto meno di qualche anno fa, i giochi di triangolazioni che hanno luogo in certi posti di lavoro anziché assumere una valenza confermante ne assumono una disconfermante sia verso i colleghi  professionisti che verso i pazienti.

Dove non è riconosciuta l’importanza di un linguaggio comune né della necessità di comunicare, ma ha la meglio solo il  bisogno di prevalere sull’altro si riattivano, spesso in maniera collusiva con la patologia o con la situazione trattata, relazioni che portano a mancare l’obiettivo salute e ad innescare escalation distruttive che invece dobbiamo imparare a decodificare.

E così sono molti i personaggi in cerca di spazio e di tempo anche nell’Azienda Sanità che potrebbero trarre beneficio da occasioni di incontro e di discussioni chiarificatrici dove poter esprimere, contenere ed elaborare eventuali difficoltà sul piano della relazione e occasione per trovare un  apprendimento emotivo utile per un diverso approccio. Lo scollamento fra pensare ed agire, se non viene elaborato, anziché produrre  benessere alimenta frustrazioni incongrue ed insoddisfazioni  incompatibili con un buon funzionamento. Nella sanità non si tratta di far diventare i medici o i paramedici degli psicologi, né di inserirli o di sottoporli ad analisi di gruppo, ma  si tratta di dare la possibilità per acquisire quelle conoscenze emotive, di cui la formazione universitaria è carente e che per dirla con Balint, possa consentire al medico di essere lui stesso medicina. Accanto alle competenze mediche e specialistiche  riuscire a collocare una capacità di ascolto di tipo empatico verso chi gli si rivolge con fiducia può essere un elemento posologico e diagnostico in più. Troppo spesso il pregiudizio che il medico deve rimanere lontano e distaccato è solo un giudizio a priori di chi temendo di mal gestire una relazione d’aiuto o non si dà o si dà troppo. Nel lavorare per acquisire competenze emotive partendo dalla discussione in gruppo di un caso clinico è possibile acquisire, nel qui ed ora del racconto di una relazione, competenza emotiva che permetta una nuova modalità di porsi nel rapporto con il paziente, non in maniera teorica sulle relazioni o sulla loro idealizzazione di “come dovrebbero essere” ma riconoscendo il vissuto emotivo sottostante. E’ possibile imparare a capire perché una certa persona è vissuta come “pesante” e cosa c’è dietro al malessere che un’altra continua a lamentare facendo sentire un forte senso d’impotenza, di rabbia, di noia fino a sentimenti molto più complessi di rabbia verso qualcuno. Il paziente più difficile spesso non è quello più grave ma quello con cui non si riesce ad instaurare una relazione. Tutto ciò se viene approfondito ed elaborato in un contesto attento e disponibile al confronto, che consenta anche una restituzione, permette di gran lunga la crescita e l’efficacia professionale.

Chi, come, quando, che cosa è opportuno che intervenga nella gestione delle risorse umane? Una leadership e un team  equilibrati sono quanto di più auspicabile per dar luogo ad un coaching ed ad un empowerment efficaci ed efficienti che abbiano garanzie di saper gestire i conflitti e sappiano negoziare in un’ottica che sappia dosare l’egocentrismo esibizionista di molti moderatori che guardano più ad essere accettati per la loro tolleranza che per le reali capacità dialettiche e dialogiche della gestione. Capacità che consentano di esprimere e far esprimere il potere contrattuale del singolo per finalità e obiettivi condivisi, pianificati e predisposti in un ordine di priorità.

Là dove tutto questo manca o è volutamente sottovalutato ha luogo un grande tradimento.

Gli amanti (1928), l’opera di Renè Magritte, artista surrealista che gioca con gli spostamenti del senso, utilizzando sia accostamenti inconsueti sia deformazioni irreali, si presta bene a rendere l’idea di quanto poco senso ci sia in certe relazioni.

La distanza che separa la realtà dalla sua rappresentazione, una costante nella pittura di questo artista belga, fra certe situazioni reali e come queste vengono rappresentate, offre la possibilità di cogliere l’analogia fra alcune realtà di vita e lavorative  con l’immagine dei due protagonisti dal volto coperto. Alcuni professionisti possono suscitare una grande malinconia per la crudeltà imposta da certe situazioni lavorative, proprio come ai due personaggi dal volto coperto nel quadro di Magritte ai quali viene negata la potenzialità del gesto compiuto proprio mentre stanno compiendo un importante gesto affettivo come il baciarsi.

Ed il tradimento, pur essendo una dinamica di sviluppo e di crescita importantissima là dove è attuato con la consapevolezza di lasciar soli per dare l’opportunità di capire da un possibile errore, se mal gestito, travolge e trascina dietro sé situazioni e persone e può divenire, implicitamente, causa di burnout a vari livelli fra cui quello lavorativo.

Si tratta sempre e comunque  di un cambiamento di rotta sia che riguardi i rapporti sentimentali, affettivi, amicali che quelli lavorativi. Un cambiamento di direzione che talvolta è incomprensibile per il cambiamento che comporta alle norme stabilite e ai valori riconosciuti; non comprensibile al di fuori, ma che ha sempre una coerenza interna che se non riconosciuta ed elaborata può fare molti danni. Coerenza che risulta essere composta da ingredienti vari, alcuni di prima qualità, altri volutamente scadenti o avariati fra i quali, da un lato, un giusto desiderio di riuscire e di far bene e dall’altro la paura, la noia, la vulnerabilità ad illudersi, le ambivalenze e il protagonismo. L’importante è, nel tradire, “essere fedeli a se stessi”; spesso una conflittualità interna fra bisogni e desideri consci e quelli inconsci di chi tradisce fa invece seguire un percorso mentale di fedeltà ai propri valori e alle proprie convinzioni, o a quelle di un sistema,  che porta a fare quello che sembra più giusto, nel momento che sembra più giusto, annullando completamente quello spazio e quel tempo mentale per il formarsi di risposte più congrue. E in un contesto anche lavorativo dove a fare da sfondo ci sono impulsi istintuali ecco che l’ambizione, la vendetta, la leggerezza, il bisogno di verificare la propria identità, sia professionale che talvolta sessuale, trovano il proscenio adatto. Quali gli attori? quali i contesti, le istigazioni, gli agiti di chi e di quale sistema? Questi sono elementi che non possono essere lasciati al caso, né mistificati. 

Spesso il bisogno di arrivare di alcuni, quello di prevalere di altri, la presenza in un professionista di una competizione insana e di insicurezze interne legate al sé e nelle proprie capacità, portano all’attivazione di comportamenti e all’esplicarsi di agiti che non rispettano la reciprocità. Avvalendomi delle considerazioni della Arrigoni Scortecci (1987) che si è occupata di reazioni terapeutiche negative, proponendone una revisione del concetto (in Tradimento e paranoia, G.C.Zapparoli ,Bollati Boringhieri,1992), viene piuttosto da rilevare in molti casi la presenza di una dinamica  simile  a quella che si ripresenta nel trattamento dei pazienti paranoici dove “un intervento basato sull’analisi delle resistenze può far emergere una modalità distruttiva volta ad attaccare il buon rapporto stabilito come espressione di distruttività combinata con una forte componente invidiosa”.

Organizzazioni lavorative che presentano sintomi o malattie riconoscibili dalla presenza di questi segni clinici di tipo psicopatologico sono organizzazioni  che non hanno ancora messo a punto l’utilizzo al meglio delle proprie risorse. Spesso si tratta di riconoscere l’importanza per un medico di saper essere anche manager di se stesso, di concepire la disponibilità  di imparare a porre maggiore attenzione al proprio modo di operare soprattutto rispetto alla presenza di proprie difese versus figure del passato. L’importanza di questo riconoscimento, cosa certo né banale né semplice, evita l’insorgere di una sorta di staffetta, con caratteristiche transferali, ad un contesto di gruppo che riproponga vissuti analoghi. Quando si verifica ciò,  tutto il contesto risente della mancanza di risposte adeguate che anziché favorire la crescita e il sano  sviluppo aziendale e professionale, vanno a sabotare gli obiettivi dell’Azienda stessa per effetto della collusione. Tutto quello che viene fatto è impostato  in maniera tale da non cambiare niente,  fino a sacrificare così, sull’altare dell’orgoglio, o meglio dell’hybris, ogni miglioramento.

Concludendo possiamo dire che il burnout, se riconosciuto, è da intendersi come uno stimolo forte e un segnale importante per definire strategie di difesa dallo stress lavorativo. E’ uno spunto per riflettere sia sul sistema Azienda che sugli individui che ne prendono parte, stando attenti a riconoscere i rischi del mestiere per evitarli grazie ad una conoscenza  delle dinamiche che sottendono alle relazioni e per ottimizzare le risorse disponibili. Il Noi formato da individui impegnati nella stessa attività, anche professionale, può implicare la condivisione di competenze, ritualità, obiettivi, segreti professionali; ci possono essere, come nei rapporti di coppia, lealtà particolari e settoriali (Boszormenyi – Nagy) ma questo non implica la condivisione di valori e sentimenti.

Discernere quali valori escludere, quali stili di vita comuni accettare, quali complicità affettive condividere o quali scelte ideologiche rispettare serve per impostare una collaborazione che non consenta identificazioni patologiche con l’insieme con cui ci si trova ad interagire delimitando, in tal modo, il rischio di dover entrare ed uscire da diversi ruoli rispondendo alle aspettative del gruppo piuttosto che ad un obiettivo. E su questi punti il lavoro di Bion, con l’indagine sulle dinamiche di gruppo e con i suoi assunti di base, diventa supporto indispensabile per un lavoro mirato al raggiungimento di una migliore qualità di vita e professionale. In quei contesti lavorativi dove questo avviene ed è integrato con una modalità operativa come quella proposta da Balint le cose funzionano, per dirla con Winnicott, sufficientemente bene.

I primi anni del SISDe

(A.L.)Il clima politico e sociale degli anni Settanta passerà alla storia come il terribile decennio del terrorismo. Esso fu segnato da uno stillicidio di attentati, omicidi, ferimenti, incendi e aggressioni.

Come dimenticare le stragi: da quella di Piazza Fontana a quella di Piazza della Loggia, da quella del treno Italicus a quella di Via Fani, ai processi “infiniti” di Catanzaro, Brescia, Torino?Questo breve accenno solo per inquadrare il periodo storico nel quale fu affrontata in sede parlamentare la riforma dei servizi segreti, sulla base degli studi e delle proposte della “Commissione speciale per l’istituzione e l’ordinamento del Servizio per le informazioni e la sicurezza”, la quale aveva svolto i suoi lavori – a metà degli anni Settanta – tra accese polemiche, difficoltà e contrasti, interni ed esterni. Era opinione diffusa che la soluzione di molti problemi fosse nella scelta di un servizio unico; ma all’atto della decisione fu determinata la duplicità dei servizi (SISMi e SISDe) e la creazione di un organo di coordinamento (CESIS).Per effetto della Legge 801 approvata il 24 ottobre 1977, pubblicata sulla G.U. n° 303 del 7 novembre successivo (denominata “Istituzione e ordinamento dei Servizi per le informazioni e la sicurezza e disciplina del segreto di Stato”), il Governo provvide a nominare, il 13 gennaio 1978, il primo Segretario Generale del CESIS nella persona del dott. Gaetano Napoletano, Prefetto di Roma, e i Direttori dei due Servizi: il Generale Giuseppe Santovito per il SISMi e il Generale Giulio Grassini per il SISDe.Le nomine avvennero in un momento di “escalation” del terrore con attentati e “gambizzazioni” di uomini politici e dirigenti industriali in molte città italiane, che fecero temere una grave caduta sociale senza possibilità di ripresa.Nell’opinione pubblica diffuse furono le speranze che i nuovi organismi e i loro dirigenti potessero dare un notevole contributo al recupero di una situazione che appariva ogni giorno sempre più drammatica. Molti giornali dettero la notizia delle nomine in prima pagina con ampi commenti. Il Prefetto Napoletano nelle interviste affermò che occorreva dare priorità alla lotta contro il terrorismo, che rappresentava, in quel momento storico, il principale nemico da combattere perché “certamente esso si serve di mezzi moderni, notevoli fondi e organizzazioni perfette. È quindi importante sviluppare e migliorare le possibilità di prevenzione dei servizi di sicurezza e la capacità investigativa. La gente ha perso la fiducia negli organi dello Stato, e lo scopo primario dei servizi di sicurezza è quello di restituirgliela, riuscendo a combattere ogni forma di criminalità, politica e comune. Oggi basta camminare per le nostre città dopo le nove di sera per vedere quanto profondamente la paura di brutti incontri ha mutato le abitudini degli italiani. La criminalità, anche quella che compie rapine e sequestri, è un campo nel quale non può agire solo la polizia giudiziaria. Con essa debbono collaborare gli altri organismi che possono farlo. Bisogna restituire all’opinione pubblica la fiducia nella legge e in chi la deve servire”.Napoletano, nato a Napoli nel 1915, era molto stimato sia per le capacità professionali che per la profonda cultura giuridica ed umanistica. Discendeva da una famiglia di giuristi. Procuratore legale e avvocato egli stesso, nel ’40 era entrato nella carriera pubblica; aveva partecipato poi alle operazioni della seconda guerra mondiale come Tenente di Fanteria e dopo l’8 settembre ’43 era rientrato nell’Amministrazione dell’Interno come commissario prefettizio, contribuendo alla ricostruzione di Cassino e di Pontecorvo. Giunto ai vertici era stato Dirigente Generale presso il Ministero e, quindi, Prefetto di Trapani (ove si distinse nella direzione dei soccorsi alle popolazioni dopo il terremoto del Belice), di Latina e di Roma.Il Prefetto Napoletano avrebbe voluto subito ed energicamente interpretare il suo ruolo primario; ma doveva prima organizzarsi, reperire una sede, ottenere i suoi primi collaboratori. In realtà gli mancò “la sedia per sedersi”. Quasi altrettanto accadde al Gen. Grassini che però trovò subito ospitalità al Viminale; mentre il Gen. Santovito potette fruire immediatamente delle strutture, dei mezzi e del personale del vecchio SID.Il Segretario del CESIS, comunque, tentò di avviare l’organizzazione dei Servizi cercando collaborazioni e intese. Le cose, anche per le tensioni del momento, non andarono così. Il Prefetto intendeva assolvere il ruolo di effettivo Capo dell’intera Organizzazione, dipendente – secondo la legge – dal Presidente del Consiglio dei Ministri. I Generali Santovito e Grassini ritenevano, invece, di dover gestire autonomamente i Servizi loro affidati nell’ambito della dipendenza diretta rispettivamente dal Ministro della Difesa e dal Ministro dell’Interno. Napoletano, come riportò la stampa, considerò “troppo limitati i suoi poteri” (L’Unità, 4 maggio 1978).In definitiva l’avvio dei Servizi cosiddetti riformati non fu chiaro, anche nell’attribuzione delle competenze a ciascuno di essi.Dopo vani tentativi di fare chiarezza, il Prefetto Napoletano rassegnò le dimissioni e in data 21 aprile 1978 tornò a svolgere le funzioni di Prefetto della Capitale (morì il 25 gennaio dell’anno seguente). Al suo posto, come Segretario Generale del CESIS, fu nominato il Prefetto Walter Pelosi, proveniente da Venezia, definito da alcuni organi di stampa “ambizioso ma accorto” e ritenuto capace di “far partire la complicata macchina dei Servizi Segreti, finora inceppata da varie difficoltà di ordine tecnico, pratico e anche politico” (La Nazione, 4 maggio 1978). Con i suoi collaboratori diretti andò a occupare un fabbricato in via della Stamperia, da restaurare.Nel frattempo, il Generale Grassini, previo assenso del Ministro dell’Interno Francesco Cossiga, aveva preso contatto con i Vertici della Direzione Generale della P.S., dell’Arma dei Carabinieri e del SISMi per ottenere le prime assegnazioni di personale e mezzi, costituire i primi nuclei organizzativi e reperire una sede per la Direzione.Dal Ministro ottenne la destinazione del Questore Silvano Russomanno, Vice Capo del soppresso Ufficio Affari Riservati (esperto di relazioni internazionali e forbito poliglotta, destinato a ricoprire le funzioni di Vice Direttore del Servizio), nonché di alcuni funzionari, di una decina di sottufficiali e guardie e la disponibilità di alcune stanze al terzo piano, con scrivanie e telefoni, del Palazzo del Viminale.Il Comando Generale dei Carabinieri gli destinò qualche ufficiale e un esiguo numero di militari dipendenti. Dal SISMi ottenne, invece, l’assegnazione di una parte del personale addetto all’ufficio “D”: una decina di elementi di vario grado, tutti dei Carabinieri. Ne facevano parte cinque ufficiali, dei quali tre T. Colonnelli.Non fu semplice, né facile, per il Gen. Grassini ottenere quelle prime adesioni. Occorre ricordare che – ai sensi della legge 801 – ogni elemento, anche se prescelto, deve sottoscrivere una dichiarazione di gradimento. Egli, pertanto, ebbe necessità di contattare il personale nelle diverse sedi, di spiegare i compiti, le prospettive di carriera, il trattamento economico che esso avrebbe avuto nel nuovo Servizio.In quei mesi, tra la fine del 1977 e l’inizio del 1978, erano continuati gli attentati, gli assalti, i ferimenti di politici e dirigenti nonché gli scontri tra opposte fazioni a Milano, Torino, Genova, Roma e in molte altre città. Tra essi le uccisioni di Angelo Pistolesi (28 dic. ‘77 – Roma), Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni (7 gen. ‘78 – Roma), Riccardo Palma, magistrato (14 feb. ‘78 – Roma), Franco Battaglin (21 feb. ‘78 – Venezia) e Rosario Berardi, maresciallo PS (10 mar. ‘78 – Torino).Subito dopo, il 16 marzo 1978, si verificò nella Capitale quell’evento che sconvolse gli italiani e fece scalpore nel mondo intero: il sequestro del Presidente della D.C. Aldo Moro e l’annientamento, a colpi di mitra e di pistola, di cinque uomini di scorta, carabinieri e poliziotti. Un colpo tremendo a tutte le strutture dello Stato, in un momento in cui i Servizi Segreti erano pressoché inesistenti o comunque travagliati dalla riforma e dalla riorganizzazione.Il Generale Grassini chiamò attorno a sé, nella sede del Viminale, quello sparuto gruppo di collaboratori che era riuscito a racimolare e organizzò una prima sala “operativa” che potesse raccogliere e smistare le informazioni, tra i vari organi di polizia e di Governo. Si dovette avvalere ovviamente dei rapporti ufficiali poiché ancora non aveva costituito alcun centro operativo o avviato contatti con fonti “coperte”. A iniziare dallo stesso giorno del rapimento dell’On. Moro egli partecipò alle riunioni fiume di un gruppo ristretto per la gestione della crisi presso il Viminale, del quale facevano parte i Ministri dell’Interno e della Difesa, i Capi dei servizi e dei Corpi di Polizia.La ricerca di strategie operative e politiche, di informazioni, di contatti, di valutazioni dei rischi delle varie iniziative proposte fu affannosa. Comunque, nell’ambito delle collaborazioni tra i vari organi dello Stato fu ben chiaro che il nucleo costitutivo del SISDe dovesse collaborare col SISMi e appoggiarsi ad esso, anche nell’organizzazione periferica. Infatti, successivamente i primi agenti operativi del cosiddetto Servizio civile furono destinati ad operare nell’ambito dei Centri C.S. dell’organismo militare.Al gruppo di gestione di crisi presso il Viminale furono chiamati anche esperti di terrorismo italiani e stranieri e studiosi. Tra questi il Prof. Franco Ferracuti, titolare della cattedra di criminologia dell’Università “La Sapienza” di Roma e alcuni suoi giovani assistenti, che poi sarebbero passati nelle strutture del SISDe.Grassini e i suoi uomini, pure in condizione di disagio, si dettero molto da fare e si fecero apprezzare per l’impegno e la capacità di improvvisare le migliori risposte alle straordinarie richieste del momento.Il nuovo Direttore del SISDe, è bene ricordarlo, era Generale di Brigata dei Carabinieri e proveniva dall’Arma territoriale. Aveva una forte tempra di militare ed esplicava una energica azione di comando, pervasa però da profonda umanità. Discendeva da una famiglia di militari e di gentiluomini. Anche il padre era Generale dei Carabinieri (a quel tempo ormai in pensione), il quale aveva lasciato un ottimo ricordo di sé e grande considerazione tra i militari dell’Arma. Era stato autore di alcune pubblicazioni professionali, tra le quali un apprezzatissimo manuale per i comandanti di Stazione che aveva rappresentato il breviario di tutti i sottufficiali, per varie generazioni.Giulio Grassini, quindi, era “figlio d’arte” e aveva saputo seguire con perseveranza e orgoglio le orme paterne. Distintosi durante l’ultima guerra mondiale, come attestano due Croci di Guerra delle quali era stato insignito, aveva partecipato al movimento di liberazione nel fronte clandestino di resistenza, con incarichi di alta responsabilità. In anni più recenti aveva ricoperto importanti ruoli di comando nell’Arma. Per ultimi quelli di Comandante del Gruppo di Cagliari (1964-66), distinguendosi nella lotta al brigantaggio sardo, della Legione di Bolzano (1966-71) conseguendo, attraverso la direzione di un reparto speciale antiterrorismo, “l’individuazione e l’eliminazione di tutti i gruppi eversivi nella zona altoatesina”( così recita un encomio), e della Brigata di Padova (1976-77) emergendo nell’attività di contrasto alla criminalità eversiva e nella organizzazione delle operazioni di soccorso alle popolazioni colpite dal terremoto del Friuli. Oltre agli encomi dei Superiori gli fu conferito un attestato di benemerenza del Commissario Straordinario del Governo e la cittadinanza onoraria di Tremonti di Sopra e di altri comuni delle provincie di Udine e Pordenone, paesi maggiormente colpiti dal sisma e dove più capillare era stata l’azione di soccorso alle popolazioni.Nell’organizzare il SISDe, quindi, egli cercò di dare alla struttura una forte caratterizzazione militare e di trasfondervi le sue esperienze e quelle degli ufficiali e funzionari che lo seguirono e gli offrirono collaborazione. Il Generale era pienamente consapevole del grave e rischioso compito che gli era stato attribuito dal Governo.Lo dimostra il significativo messaggio da lui diramato il 22 maggio 1978, il giorno in cui, secondo la legge istitutiva, doveva appunto essere avviata l’attività operativa del SISDe. Grassini e i suoi uomini si erano trasferiti, in buona parte, in un appartamento al terzo piano del palazzo della Direzione Generale A.A.I. (Assistenza e Aiuti internazionali, già Azienda autonoma) del Ministero dell’Interno in Via Lanza.Interessante il testo del messaggio:”Alla fine del 1966 venne istituito, in Bolzano, per combattere il fenomeno del terrorismo che in Alto Adige e nel Trentino aveva assunto aspetti d’estrema gravità, un Reparto Speciale, composto da Carabinieri, Alpini, Paracadutisti, Guardie di Pubblica Sicurezza e Guardie di Finanza.Questo Reparto – dipendente per l’impiego dalla Legione Carabinieri di Bolzano e, per il tramite di questa, dal IV Corpo d’Armata Alpino – ricevette uno speciale addestramento, si distinse ben presto per un proprio particolare spirito di corpo, comune a tutti i suoi componenti, nonostante la diversità delle armi e dei reparti di appartenenza, ed ebbe parte determinante nelle operazioni che condussero al ristabilimento dell’ordine nella zona.Esso contò anche, nelle sue file, tre Eroi: il Capitano dei Carabinieri Francesco Gentile, Medaglia d’Oro al V.M. alla Memoria, il S.Ten. dei Paracadutisti Mario Di Lecce, Medaglia d’Argento al V.M. alla Memoria e il Serg. Magg. Olivo Dordi, Medaglia d’Argento al V.M., alla Memoria, caduti a Cima Vallona (BL) il 25 giugno 1967, sui confini e per i confini della Patria.Nel momento in cui inizia la sua attività il Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica – composto da personale proveniente dall’Arma dei Carabinieri, da altre Armi dell’Esercito, dal Corpo delle Guardie di P.S., dal Corpo delle Guardie di Finanza e da varie amministrazioni civili – esprimo l’auspicio che tutti gli appartenenti al Servizio vorranno richiamarsi, nel quotidiano lavoro, allo SPIRITO DI CORPO che animò il Reparto Speciale Alto Adige ed ispirarsi all’esempio dei suoi Eroici Caduti, per perseguire, con fedeltà ed onore, il nobile scopo della difesa delle istituzioni democratiche, affidato al SISDe dal Parlamento della Repubblica.Roma, 22 maggio 1978IL DIRETTOREGen. Giulio GrassiniNel frattempo, proprio mentre avveniva il trasferimento degli uomini del SISDe dal Viminale a Via Lanza, il terrorismo aveva continuato a seminare paura e morti: il 9 maggio, nel portabagagli di una autovettura “R-4” abbandonata in Via Caetani era stato trovato il cadavere di Aldo Moro (il giorno successivo con un gesto che venne da tutti sottolineato per l’alto valore etico, il Senatore Francesco Cossiga si era dimesso dall’incarico di Ministro dell’Interno), e durante lo stesso mese di maggio molti erano stati gli attentati e i ferimenti a colpi di arma da fuoco di manager industriali e appartenenti alle forze di polizia. Infatti vari nuclei terroristi uccisero e ferirono i loro “avversari” in varie città del Nord. Il Governo sollecitò i Capi dei Servizi a completare la loro organizzazione. Il SISDe, sull’organico fissato in millecinquecento persone, aveva raggiunto una forza di circa cinquecento unità. Di questa il 66% proveniva dall’Arma, il 22% dalla Polizia e la rimanente percentuale dalla Guardia di Finanza, da altre Amministrazioni dello Stato e dai primi civili che furono assunti.L’onere del lavoro svolto da questi pionieri del Servizio segreto civile fu veramente improbo e tanti furono i sacrifici e i rischi che essi dovettero affrontare.Non mancarono loro anche le preoccupazioni e le tensioni per le segnalazioni di attentati alla struttura e ai singoli. Molti funzionari e agenti uscivano dall’ufficio o da casa con la pistola in pugno infilata nella tasca, pronti a reagire, nel tentativo o forse nell’illusione di poter precedere eventuali attentatori, nella logica dei terroristi che privilegiavano obiettivi facili, cioè a minor rischio (come alcuni pentiti confessarono). Salvo, poi, ad attuare azioni di guerriglia a dimostrazione del livello di organizzazioni paramilitari e di alta capacità offensiva. La sorpresa ovvero il vile agguato, soprattutto, era la loro arma vincente.I Servizi studiarono anche la mimetizzazione delle armi in borselli, borse e valigette, azionate con un pulsante, l’adozione di giubbetti antiproiettile super leggeri, il camuffamento e il travestimento (barbe finte o barbe incolte, capelli lunghi e occhiali scuri) e ogni altra misura atta alla protezione e alla difesa. In definitiva fantasia e tecnica caratterizzarono quei primi agenti segreti per fare fronte alle straordinarie esigenze del momento.Tra gli obiettivi prescelti dalle Brigate rosse vi fu innanzitutto il Generale Grassini. Il primo allarme fu dato dal Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nominato dal Governo, il 10 agosto 1978, Coordinatore dei servizi di Sicurezza degli Istituti di Prevenzione e Pena. Questi, nell’ottobre dello stesso anno, dette notizia al collega Grassini che elementi eversivi avevano effettuato un sopralluogo a Cetona (Siena), ove il Direttore del SISDe si recava periodicamente per il week-end o per trascorrervi brevi periodi di vacanza, al fine di individuare la casa e i suoi movimenti. Particolare curioso: da tutt’altra fonte, nello stesso mese, il Generale Grassini fu informato che dall’estero un “medium” lo aveva “visto” circondato da molto sangue e da ciò aveva dedotto che la persona era in grave pericolo. Conseguentemente le misure di sicurezza intorno al Generale e alle sedi da lui frequentate aumentarono. Lo stesso interessato decise di far attrezzare una stanzetta accanto al suo ufficio, in Via Lanza, nella quale poter riposare e fare una doccia. Ridusse pertanto le sue uscite dalla sede. La conferma del rischio di attentato, realmente corso dal generale Grassini, si ebbe negli anni successivi, a seguito delle confessioni di alcuni terroristi delle BR. (Il Giornale d’Italia, l’Avanti, Corriere della Sera e altri quotidiani del 25 gennaio 1985).Gli organismi di informazione e le forze di polizia accelerarono il loro processo di riorganizzazione e di pieno recupero dell’efficienza operativa per combattere la minaccia eversiva. I primi risultati si registrarono con la localizzazione e l’arresto in un appartamento di Milano di Corrado Alunni e la scoperta di vari covi. Si aprì una breccia nella struttura delle BR e degli altri movimenti eversivi che avrebbe portato lentamente alla loro disarticolazione, negli anni successivi.La strada da percorrere, comunque, fu lunga, accidentata e disseminata di cadaveri e di attentati alle caserme, di assalti e tentativi di stragi, di incidenti e stratagemmi per azioni cruente.Nel corso di questa lotta, il SISDe incontrò difficoltà a completare gli organici, soprattutto dei Centri operativi che andava istituendo faticosamente nei capoluoghi di regione. “Pochi, all’inizio, volevano lavorarvi; – scrisse su Panorama dell’8 maggio 1979 Marilena Bussoletti – proprio per incoraggiare poliziotti e carabinieri in gamba ad entrare nel nuovo servizio segreto, al SISDe sono stati fissati stipendi più alti che al SISMi. Le differenze vengono da indennità di servizio (grado di rischio, stato di disagio, rendimento individuale) assegnate secondo criteri poco rigidi e quindi in modo soggettivo (non mancano, per questo, risentimenti e piccole invidie) … nelle note spese possono largheggiare (bar, pranzi, cene: tutto rimborsato), per la casa vengono aiutati. Ma buoni stipendi, trattamento di favore e mezzi a disposizione non bastano: i ruoli del SISDe sono ancora incompleti”.Nonostante tutto ciò, il Generale Grassini era soddisfatto di come procedevano le cose e soprattutto dei risultasti operativi conseguiti anche in collaborazione con il SISMi. Di particolare risonanza fu una brillante operazione di controspionaggio condotta nel maggio 1979 che portò Grassini a manifestazioni di ottimismo: “Ci sono squarci di azzurro rispetto al grigiore dei mesi scorsi”. La sua soddisfazione durò poco: nei primi mesi del 1980 fu arrestato il Vice Direttore Russomanno accusato di essere responsabile del “passaggio” di una copia del verbale d’interrogatorio del terrorista Patrizio Peci al giornalista Fabio Isman che ne aveva dato ampia divulgazione su “Il Messaggero”. Esplose uno scandalo, riaprendo interrogativi e polemiche sulla affidabilità dei Servizi Segreti. Si parlò di vendita dei verbali, di trappola tesa a Russomanno, di sabotaggio dell’istruttoria processuale. Furono formulate le più svariate ipotesi e le più cattive insinuazioni. Dopo un momento di stretto riserbo da parte dello stesso imputato, legato anche alla necessità del segreto imposto sulle operazioni del Servizio, Russomanno si decise a presentare un memoriale alla Magistratura nel quale affermava che i verbali erano usciti dagli uffici del SISDe in base a un suo piano finalizzato a produrre effetti sulla resa e sulla rinuncia alla lotta armata. Si era trattato, quindi, di un’audace azione di intelligence. Non fu la prima, non sarebbe stata l’ultima.Nelle more del processo, comunque, Russomanno si dimise dall’incarico di Vice Direttore. Al suo posto fu nominato, il 27 aprile dello stesso anno, il Questore Vincenzo Parisi, nato a Matera nel 1930, funzionario preceduto da un ottima fama per le sue iniziative nel campo delle riforme, della riorganizzazione e istituzione di importanti uffici in ambito ministeriale, soprattutto in materia di armi, esplosivi, archivi e stranieri. La sua straordinaria cultura, la sua umanità e le sue capacità diplomatiche e di mediazione ne caratterizzarono subito l’operato, favorendo la sua rapida affermazione nel Servizio.Il 2 agosto si verificò la strage alla stazione di Bologna, che sollevò nuovi sospetti e accuse nei confronti dei Servizi Segreti e sul ruolo svolto da alcuni appartenenti ad essi. Nel mese successivo a fomentare critiche e illazioni si verificò la scomparsa di due giornalisti italiani a Beirut. Alcuni agenti dei Servizi ricevettero comunicazioni giudiziarie per presunte reticenze e false testimonianze. Quasi contestualmente l’Ammiraglio Casardi, già Capo del SID dal 1974 al 1977, fu sottoposto a indagine giudiziaria, unitamente ad altri ufficiali di alto rango per presunte responsabilità pregresse.Non si era ancora sopito l’effetto di questi scandali che verso la fine dell’anno filtrarono negli ambienti politici e istituzionali le prime insinuazioni sull’appartenenza alla massoneria del generale Grassini. Fu l’inizio dello scandalo della loggia deviata “P2”.I Servizi e i loro capi, attraverso uno stillicidio di indiscrezioni pubblicate dai mass media, finirono con l’esservi coinvolti. Negli ultimi mesi del 1980 da ogni parte, all’interno e all’esterno dei servizi, si vociferò che Pelosi, Santovito e Grassini sarebbero stati sostituiti nei loro incarichi.Il generale Grassini non frappose indugi. Nel mese di dicembre 1980 chiese formalmente al Presidente del Consiglio dei Ministri di rientrare nei ranghi dell’Arma, ritenendo completata l’opera svolta per l’avvio del Servizio. Fu invitato a rimanere. La Presidenza promosse un’inchiesta, in via amministrativa, che si concluse con l’esclusione di qualsiasi responsabilità e prova a carico dell’Ufficiale. Le polemiche riportate insistentemente dalla stampa indussero comunque il Governo a sostituire i vertici dei tre organismi: SISDe, SISMi e CESIS.Il 19 luglio nel suo commosso saluto al personale, il generale Grassini affermò, tra l’altro:”… tre anni di permanenza in un incarico di questo tipo sono già davvero troppi, per le insidie, di tutti i generi, che cospargono il cammino da percorrere.”In effetti, quando presi possesso della carica sapevo bene che al Capo di un Servizio di Sicurezza possono accadere molte cose: essere eliminato fisicamente; essere sequestrato; finire in qualche aula giudiziaria; non trovare punti sicuri di riferimento e di appoggio in occasione di incidenti del mestiere o di vicissitudini comunque negative, anche se derivanti da comportamenti incolpevoli.”Ma francamente, – benché indurito (nel carattere, beninteso, non nei sentimenti!) dalla mia professione di Soldato, vissuta intensamente, attraverso le tappe della guerra, della resistenza, del banditismo in Sardegna, del terrorismo in Alto Adige e dell’ultima battaglia di questi tre anni – non avrei mai immaginato di essere coinvolto, senza avere nulla da rimproverarmi (e anche se debbo onestamente riconoscere che da nessuna parte mi sono stati mossi specifici addebiti personali), sulla sola base, per quanto mi riguarda, di liste e documenti di un privato cittadino, facili a costruirsi e a manipolarsi, in una intensa campagna scandalistica, dalla quale – anche per il disimpegno di taluno di coloro che, a mio avviso, avrebbero dovuto sentire il dovere di assumere iniziative di chiarificazione e di tutela – non è esistita per lungo tempo una concreta possibilità di difendersi, né di precisare, anche se ne esistevano tutti i presupposti, la propria posizione.”Mi ha turbato inoltre profondamente la constatazione che, sempre nell’ambito di detta campagna, si è altresì tentato – benché qui siano intervenute autorevoli smentite – di gettare pesanti e inaccettabili ombre anche sui nuovi Servizi di Sicurezza, che onestamente e limpidamente operano al servizio delle Istituzioni repubblicane.”Ho, d’altra parte, la serena coscienza di aver costituito, in tre anni – con la collaborazione generosa e validissima di tutti voi – partendo da condizioni iniziali quasi disperate, un Servizio omogeneo moderno, efficiente che ha già raggiunto risultati operativi di primo piano (pur se questi ovviamente non possono essere citati) e che certamente continuerà a essere validissimo strumento di difesa delle Istituzioni democratiche, specie se potrà lavorare in condizioni ambientali meno avvelenate e con l’appoggio di una opinione pubblica non artificiosamente prevenuta.”Lascio quindi l’incarico a testa alta, e rientro nei ranghi dell’Arma, dai quali uscii, non per mio volere, oltre tre anni fa, per continuare a servire la Patria con lo stesso spirito e medesimi sentimenti (anche se con minori illusioni) che mi hanno animato nei quarantadue anni della mia vita militare.”A tutti voi – e soprattutto (non se ne dolgano gli altri che pur hanno dato un concorso prezioso al potenziamento dell’organizzazione) alla pattuglia sparuta ma eccezionale dei miei primi collaboratori, che provenendo da amministrazioni quanto mai diverse, ebbero il coraggio di entrare e di credere in un organismo che era tutto da fare e da “inventare”, e che mi offrirono un apporto di fiducia, di idee e di lavoro che non potrò mai dimenticare – il mio grazie più caloroso per avermi seguito lealmente e generosamente in questi anni e per essermi stati vicino col cuore, sempre, anche nel corso dell’ultima, amara vicenda.”Ciò testimonia che la cosa alla quale ho tenuto di più fin dal primo momento si è pienamente realizzata: il Servizio ha un proprio, saldissimo spirito di corpo e la fusione che si è realizzata fra le varie componenti (militare, civile, tecnica) è perfetta.”Infine, dal vostro primo Direttore che vi lascia con grande rimpianto anche perché il rapporto umano che mi legava a tutti voi era davvero eccezionale, un affettuoso e duplice augurio: che voi possiate, cioè, ritrarre dal vostro lavoro – nonostante i rischi, le difficoltà e talvolta, purtroppo, le delusioni che lo caratterizzano – tutte le soddisfazioni che ampiamente meritate; che la vostra azione divenga sempre più fertile e incisiva sì da assolvere in pieno alla nobile funzione che la legge ci ha assegnato: la tutela e la difesa delle Istituzioni democratiche.”Spero che ci rivedremo ancora, in avvenire, anche se nell’ambito di diverse funzioni, e a tutti di cuore con tanto affetto, ogni più fervido augurio per l’avvenire e buona fortuna!”Al Vice Direttore – che mi ha offerto, sempre, un ausilio intelligente, leale e ineguagliabile – la mia incondizionata riconoscenza.”Al mio successore, Prefetto Emanuele De Francesco, un sincero, cordiale augurio di ogni migliore successo.”

Fonte gnosis.aso.gov.it

Germania – L’Organizzazione Centrale dell’Intelligence

Il sistema informativo tedesco

Si avvale di tre principali Servizi:- BND (Bundesnachrichtendienst – Servizio Federale di Informazione);- B.F.V. (Bundesamt fuer Verfassungsschutz – Ufficio Federale per la tutela della Costituzione);- M.A.D. (Militaerischer Abschirmdienst – Servizio di controspionaggio Militare).

Il Servizio informativo BND – Servizio Federale di Informazione (scheda n. 2) risulta composto sia da personale civile che militare con inquadramento e stato giuridico diversi.Il personale può essere impiegato temporaneamente o permanentemente.La struttura interna del BND è stata recentemente organizzata in modo da tener conto della nuove priorità operative individuate a livello politico, quali:- la non proliferazione (diffusione di armamenti),- traffico di stupefacenti,- riciclaggio e falsificazione di denaro,- terrorismo,- fondamentalismo islamico,- eventuale impiego delle forze armate tedesche all’estero. Per ciò che riguarda la criminalità organizzata e le misure di contrasto ad essa connesse, il Servizio può svolgere attività informativa solo quando siano minacciate apertamente la sicurezza e le relazioni esterne.

Al Servizio compete il controllo strategico che, come avviene in altri Paesi, viene sviluppato anche attraverso il globale controllo del sistema di telecomunicazioni.Il Servizio dispone di una Scuola di Addestramento.Specifiche funzioni di controspionaggio vengono svolte dal M.A.D. – Servizio di Controspionaggio Militare (scheda n. 3).

Il Servizio interno B.F.V. – Ufficio Federale per la Tutela della Costituzione (scheda n. 4) riveste rilievo costituzionale. In relazione alla connotazione federale dello Stato, esso è decentrato in uffici ubicati nei vari Laender che sono completamente autonomi gli uni dagli altri, hanno compiti identici e non possono ricevere ordini dall’istanza centrale che ha solo poteri di coordinamento e di gestione della banca dati comune.

La legge e poi lo statuto interno del Servizio disciplinano l’uso dei mezzi d’intelligence.

Al Servizio interno competono anche compiti di controspionaggio in territorio federale, nonché indagini sotto copertura.

Come già riferito è consentito l’uso dell’agente provocatore i cui limiti di attività sono discussi ma che certamente non può partecipare alla commissione di reati contro le persone.Gli agenti del Servizio, nello svolgimento delle loro mansioni, non agiscono di concerto e in collaborazione con la Polizia, pur mantenendo con essa buoni rapporti.Il Servizio sviluppa una politica di apertura nei confronti dell’opinione pubblica attraverso specifiche pubblicazioni sulla propria organizzazione ed attività e elabora in tal senso anche un rapporto annuale, ampiamente diffuso.

Il bilancio dei Servizi è indipendente e segreto e sottoposto al controllo di una sottocommissione del Parlamento. Per ciò che concerne il profilo legale, negli ultimi anni si è reso necessario l’intervento nella produzione normativa per disciplinare aspetti di attività dei Servizi. Così è stato fatto nella più recente legge (20 dicembre 1990) che si è anche occupata di disciplinare le attività non convenzionali.

L’ordinamento tedesco consente inoltre l’uso dell’agente provocatore sia per i Servizi di informazione che per la Polizia, ma rimane un problema aperto lo stabilire quale sia il limite che la provocazione incontra per non essere punibile.Specificamente per le intercettazioni telefoniche o postali (non è prevista la forma dell’intercettazione ambientale) i Servizi devono rivolgere al Ministro una richiesta motivata nel dettaglio, illustrando il caso specifico.Deve comunque trattarsi di questioni importanti e delicate, quali ipotesi di attentato alla Costituzione, di associazione terroristica e di altri reati tassativamente indicati nella legge.Sovrintende al controllo parlamentare su questa attività dei Servizi, una Commissione definita G10, composta dal Presidente (che deve essere uno stimato giurista), e da 2 membri scelti dal Parlamento ma non di estrazione parlamentare, che si avvale di una dettagliata procedura autorizzatoria (scheda n. 5).

La Commissione risiede in Parlamento e si riunisce una volta al mese.Nei casi urgenti il Ministro dell’Interno può decidere che le modalità richieste per una operazione possano essere adottate prima che si riunisca la Commissione, che deve comunque essere informata e, nel caso si pronunci negativamente, ha il potere di sospendere il provvedimento adottato. Ogni autorizzazione dura tre mesi alla scadenza dei quali, in caso di necessità, l’intera procedura deve essere rinnovata.In media ogni anno la Commissione esamina circa cento richieste. Le informazioni acquisite attraverso questa procedura possono essere utilizzate come prove processuali solo nel caso che ne venga rivelata la fonte.Il sistema di controllo sui Servizi è assai articolato.I controlli previsti sono i seguenti (scheda n. 6):- amministrativo, da parte del Sottosegretario presso la Cancelleria Federale, con le funzioni di coordinamento dei Servizi;- parlamentare, da parte della Commissione di controllo Parlamentare e della sottocommissione di controllo sul budget dei Servizi, e della Commissione e Comitato G10;- sui dati e la privacy, da parte dell’Incaricato federale per la Tutela dei Dati.

Fonte AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA GNOSISRivista

foto ilprimatonazionale

Espion – Une anthropologie historique du secret d’Etat contemporain

Alain Dewerpe – (Edizioni Gallimard, Parigi 1994)

L’opera costituisce un pregevole studio monografico dedicato alla figura della spia, cui l’Autore si compiace letterariamente di dare una configurazione filosofico-letteraria di tipo antropologico. Il risultato della colta indagine, che procede strettamente congiunta a un discorso storico-politico, è di indubbio interesse e fascino, come del resto il percorso intero seguito dall’Autore, che mostra di sapersi muovere con grande disinvoltura in un mondo spesso intessuto di prassi come quello dello spionaggio.

La scrittura fa ricorso ad un linguaggio raffinato, forse di non sempre facile lettura, la narrazione è corredata da una serie numerosissima di citazioni, il ricchissimo apparato bibliografico-documentario, certamente frutto di un lavoro capillare e puntiglioso, costituisce un ulteriore, pregevole merito di questo saggio che si rivolge forse più allo specialista che ad un largo pubblico che si muoverebbe con difficoltà tra le pagine del libro.

La lettura offre un intersecarsi continuo di riflessioni sulla figura della spia, il suo mestiere, i suoi rapporti con la morale pubblica e privata e indubbiamente l’affascinante viaggio alla scoperta di questo particolare universo costituisce ricco ed utile materiale di discussione e studio.

Organizzato sistematicamente in una introduzione dal titolo significativo “Il grande gioco” e in quattro grandi sezioni “Arcana Imperii”, “L’équipe mystérieuse”, “La lumière de l’occulte”, “L’homme clandestin”, a loro volta suddivise in capitoli, il lavoro si snoda attraverso un intrecciarsi progressivo di definizioni, riflessioni, citazioni sempre stimolanti e lucide anche se difficilmente riassumibili.

Nell’itinerario percorso dall’autore la ricerca storica si coniuga all’indagine antropologica e il libro si rivela quindi come un contributo importante e ricco di stimoli per una rivisitazione del mondo dello spionaggio e dei problemi innumerevoli ad esso legati, esplorati con attenzione ed efficacia e combinati in modo intelligente e nuovo.

Fonte: gnosis.aisi.gov.it

Spionaggio e controspionaggio

Jean-Pierre Alem – (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1984)

Il volume, pubblicato in lingua originale in Francia nel 1980 e apparso nella traduzione italiana curata dalle Edizioni scientifiche Italiane, nel 1984, è una piccola storia dello spionaggio e del controspionaggio dall’antichità ai nostri giorni.

L’autore, che cela la propria identità sotto lo pseudonimo di Jean Pierre Alem, dopo aver tracciato un brevissimo excursus storico dell’azione segreta, ricorda come lo spionaggio “non trasforma radicalmente il corso della storia, ma accade che cambi profondamente le vicende“.

Alem analizza tre fasi dell’attività spionistica: l’acquisizione, la trasmissione e la protezione delle informazioni e, rivolgendo la sua attenzione alla figura degli “agenti”, esamina alcune motivazioni che spesso sono alla base di una scelta professionale a volte così “ingrata”, e cioè il denaro, il patriottismo, talora il desiderio di avventura, la costrizione, procedimento spesso comodo, usato frequentemente dai Servizi Segreti comunisti.

L’autore del volumetto, rivelati i sistemi del reclutamento e dell’istruzione, si sofferma sulle intercettazioni, fonte ricchissima di informazioni e sui mezzi tecnologici più sofisticati utilizzati a tale scopo.

Alem ritiene tuttavia che l’impiego di metodi e materiali sempre più elaborati, pur fornendo ai Servizi di Informazione possibilità sempre più vaste, dimostri che essi “prolungano e affinano l’azione degli agenti ma non la escludono”.

L’autore descrive poi i mezzi di comunicazione usati dall’agente per contattare il suo ufficiale di collegamento per passare alla illustrazione delle protezioni delle informazioni segrete e cioè delle articolate misure di sicurezza applicate per difenderle.Un capitolo è dedicato al controspionaggio e ai suoi compiti: la controingerenza e l’intossicazione, con particolare riguardo alla figura degli agenti doppi.

Il volumetto si conclude con una brevissima rassegna dei servizi segreti occidentali (Francia, Stati Uniti, Inghilterra, Germania federale, Italia, Israele), di quelli speciali del blocco sovietico e di quelli speciali arabi (Egitto, altri Paesi del Vicino Oriente arabo e l’organizzazione per la Liberazione della Palestina).Il libro, di scorrevole lettura, nato, come afferma l’Autore nella conclusione, dal tentativo “di demistificare un’attività e di esorcizzare una parola”, consente una rapida incursione nel mondo dei servizi e costituisce uno strumento utile per conoscerne le tecniche dall’interno, sia pur in maniera non approfondita.

Presumibilmente poco attuale la parte dedicata alla tecnologia, in considerazione del fatto che il libro è stato pubblicato nel 1980.

Fonte: AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA gnosis.aisi.gov.it

Foto: spiare.com

I seminari formativi di CAFISC

Cafisc

Idea e promuove” Tre Appuntamenti seminariali

Promossi da CAFISC

Tenuti dalla Dr.sa Al. Tallarita PhD Criminolologa, Antropologa, Scrittrice, Artista. Presidente Cafisc. Direttore PCAPolitical.

Ed altri ospiti : avvocato, giornalista, psicologo, esperto di sicurezza.

Tematiche dei tre seminari:

-La situazione femminile nelle carceri

-I giovani e la dipendenza da social

-Cyber bullismo e istigazione al suicidio “

I seminari sono aperti a tutti.

Le date saranno comunicate agli iscritti per email con il link a cui collegarsi per seguirli.

Sezioni di novembre , dicembre , gennaio.

Per informazioni e Iscrizioni scrivere a: info@cafisc.it

Lasciando nome cognome e contatti numero e email Interesse ai tre seminari o a ciascuno.

Verrà rilasciato un attestato di partecipazione per gli usi consentiti dalla legge.

I 6 tratti principali della personalità sociopatica rivelati da un esperto dei disturbi del comportamento

Come riconoscere un sociopatico? David J. Lieberman, ricercatore nel campo comportamentale e autore di un nuovo libro sull’argomento, ha spiegato quali sono le caratteristiche più comuni e come gestire il disturbo antisociale della personalità in una relazione

Riconoscere un individuo che soffre di sociopatia, termine che indica il disturbo antisociale di personalità, può essere molto più complicato che riconoscere uno psicopatico. Lo sostiene lo psicoterapeuta David J. Lieberman, ricercatore nel campo comportamentale e delle relazioni interpersonali e autore del libro Mindreader: The New Science of Deciphering What People Really Think, What They Really Want, and Who They Really Are, che affronta l’argomento in un articolo pubblicato su CNBC.

Secondo Lieberman, che non solo ha trascorso gran parte della sua carriera studiando i disturbi della personalità, ma ha anche addestrato il personale delle forze armate statunitensi, nell’FBI e nella CIA, i sociopatici possono distruggere la vita di una persona e sono molto più difficili da individuare rispetto a uno psicopatico. Perché, mentre quest’ultimo tende a essere più manipolatore e riduce al minimo il rischio nelle attività criminali, il sociopatico è in genere più irregolare e incline alla rabbia e, di conseguenza, più pericoloso.

Sono sei, in particolare, i tratti caratteriali più comuni che, a detta di Lieberman, definiscono un sociopatico.

difficoltà a calibrare la sua gestione delle impressioni che si danno.Come gestire il disturbo antisociale della personalità in una relazioneRiconoscere un soggetto con disturbo antisociale di personalità è complicato.

Gli indicatori di cui sopra possono essere utili, ma difficilmente sono definitivi. Se ci si trova in ​​una relazione con un sociopatico, Lieberman suggerisce alcuni comportamenti che possono rivelarsi utili per gestire in linea generale la situazione, ricordando tuttavia l’importanza di prendere le distanze. Non sempre possiamo cambiare il comportamento di qualcuno, ma è possibile trovare il modo per stabilire dei confini e farcela, poiché il nostro benessere emotivo è indissolubilmente legato alla qualità delle nostre relazioni. Ecco quindi i tre passi fondamentali da adottare se si vive una relazione con una persona affetta da disturbo antisociale della personalità:

1.Evita di essere in disaccordo con lui pubblicamente: il senso di umiliazione e qualsiasi parola o azione che possa farli vergognare incide molto in profondità e può innescare reazioni pericolose.

2.Non accusarlo direttamente di essere sociopatico: lavora lentamente per disimpegnarti dalla relazione.

3.Avere un sociopatico nella propria vita può essere molto impegnativo e alienante, una buona soluzione è vedere un terapeuta o unirsi a un gruppo di supporto. Avere qualcuno con cui parlare può essere molto utile.

fonte:vanityfair.it, A Politi

Bullismo e violenza di gruppo

Spesso aggrediscono per il gusto di far male, di umiliare, per rimarcare una superiorità. Sottrarre un oggetto non è tanto una rapina fine a sé stessa, ma un modo per punire, spogliando la vittima dei suoi beni.

Le ragazzine sono talvolta più violente dei coetanei maschi perché hanno un modo di attaccare sofisticato, usano l’arma psicologica, puntano a colpire il lato fragile». Andreana Pettrone è una psicologa specializzata in psicoterapia sistemica relazionale. Fa parte del pool di medici che partecipano al progetto Informa a Napoli: con un camper fanno la spola davanti a tre istituti tecnici di Napoli che abbracciano una vasta area urbana.

«È un errore pensare che la violenza sia solo nei ceti più disagiati, che si sviluppi in famiglie che vivono in condizioni di marginalità sociale. L’aggressività unita alla spavalderia la troviamo anche tra i ragazzi benestanti». Pettrone dice che il fenomeno più dilagante è quello delle gang rosa: «Sono gruppetti di adolescenti che iniziano con piccoli atti di bullismo e poi in un crescendo di violenza, organizzano veri e propri raid contro loro coetanee.

Di solito agiscono in branchi tutti al femminile. I pretesti sono i più disparati: da ritorsioni sentimentali, alla punizione per una presunta maldicenza o semplicemente il gusto di umiliare chi è isolata, chi non riconoscono come una loro pari».

Secondo la psicologa vale molto l’omologazione fisica: «Chi non condivide un look, un atteggiamento dominante, è esclusa e bullizzata». Le frasi che ricorrono spesso a spiegare gli attacchi violenti – «non risparmiano alla vittima calci, pugni, graffi, sputi» – sono: «Meritava solo di essere picchiata» e «se l’è andata a cercare». Ma se poi viene chiesto loro di dare una spiegazione ulteriore, «non sanno cosa dire, c’è un vuoto linguistico disarmante», spiega Pettrone.

A differenza dei coetanei maschi, le ragazze usano con compiacimento narcisistico i video che mettono sulle reti sociali. «Si compiacciono non solo di aver umiliato la vittima, ma anche di avere un riconoscimento pubblico, tramite i like, delle loro bravate. Cercano spesso una platea maschile come a dimostrare di essere più dure degli uomini. Il piacere maggiore lo traggono dal consenso dei coetanei maschi. Si scambiano tra loro nelle chat i commenti e li rilanciano alla ricerca di una approvazione più ampia possibile».

Le modalità di aggressione, dice la psicologa, sono ripetitive. «Circondano la vittima, che di solito ha l’apparenza debole. L’aggrediscono e la filmano. L’obiettivo è totalizzare più like possibili sui social. La loro speranza è che i video diventino virali». Talvolta si formano gang miste. «Le ragazzine vengono accettate perché fidanzate di uno del branco, c’è una sorta di iniziazione sessuale. Ma una volta entrate nel gruppo tendono in breve tempo a uscirne per creare una loro gang. Mentre tra i maschi la gerarchia è più marcata, tra le femmine è sfumata, sono quasi tutte sullo stesso piano, non ci sono leader.

Sono sfacciate, audaci e la maggior parte abituate alla violenza in famiglia, per loro l’aggressività è naturale. Quelle che vengono da famiglie benestanti, spesso emulano i video». E la reazione dei ragazzi? Pettrone commenta che «tendono a minimizzare gli atteggiamenti violenti delle coetanee, a sminuirne il valore perché si sentono in competizione e in un certo senso le temono. Talvolta sono divertiti dalla tipologia delle ragazze cattive e questo non fa che accrescere il loro compiacimento.

Si sentono al centro dell’attenzione maschile e la loro smania di protagonismo è soddisfatta.Fanno a gara sul social Tiktok per le bravate. Acquisiscono una parità distorta nella violenza. Imitano molto le eroine dei film che hanno tratti mascolini e ostentano forza e aggressività». Pettrone, raccogliendo le esperienze dei ragazzi, ha rilevato che ci sono videogiochi e film diventati modelli «cult» di violenza. Come il Gta, in cui vince chi ruba e violenta le donne.

È vietato ai minori ma dilaga proprio tra di loro. «Lo spaccio di droga, lo sfruttamento della prostituzione e l’incitamento alla violenza non dovrebbero costituire la principale trama di un videogioco per adolescenti. Eppure alcuni di questi videogiochi che si basano proprio su una serie di attività criminali finalizzate a conseguire i punti sono molto vendute tra i giovani», spiega la psicologa.

Più si spara, più si uccide e più si sale nella graduatoria. La classifica si scala facilmente se tra le vittime ci sono i poliziotti. In ragazzi già predisposti all’aggressività, film e giochi forniscono modelli, lanciano messaggi negativi che trovano terreno fertile tra le baby gang». Nel camper del progetto Informa arrivano anche i genitori. Pettrone sottolinea che tali fenomeni di violenza di gruppo sono radicati soprattutto lì dove le famiglie sono assenti: «I genitori non sanno più mettere un limite, stabilire regole.

Il che consente di scrollarsi di dosso le responsabilità. C’è la cultura dell’adolescente che deve essere libero. Così accade che difendono i figli anche di fronte ad atti gravi. Cercano di addossare la colpa all’esterno, agli insegnanti, agli amici».

Fonte: L.D.P. per “la Verità”

Legami tra cartografia e l’intelligence

Fitti legami intrecciano la cartografia con l’intelligence.

Non è un caso, infatti, che l’ulissidea vocazione dell’uomo a sondare e superare i confini della conoscenza abbia animato gli esploratori di mare e di terra al pari degli agenti segreti. Essi si ritrovano in una narrazione avventurosa che ancora oggi, in termini diversi ma non meno affascinanti, li pone ai confini delle colonne d’Ercole della conoscenza.

Dopo il tradizionale appuntamento con Sergio Romano, che offre spunti di riflessione su fattori competitivi e criticità legate alla leadership americana, da cui dipende il riposizionamento delle grandi potenze sullo scacchiere del mondo, Michele Castelnovi presenta il profilo cinquecentesco di Giovanni da Verrazzano in cui si colgono i segni dell’ibridazione tra scienza e spionaggio, sia statuale che lobbistico-finanziario, come dimostrano le eresie cartografiche funzionali a partigiane posizioni politiche. È un’intelligence pronta a cogliere le sfide della modernità – in una visione olistica del controllo geografico, geopolitico e sociale – quella che Alessandro Guerra rievoca ricordando, con la voce di Carlo Ginzburg, la necessaria vocazione predatoria umana a «fiutare, interpretare, classificare tracce infinitesimali come fili di bava».

L’emancipazione dello statuto della spia al servizio di un’idea di Stato, indotta dalla rivoluzione francese, ha profondamente mutato modelli e fini informativi dell’epoca e non averne compreso l’impatto internazionale più che interno – secondo il saggio di Federico Moro – è uno dei motivi del definitivo crollo della Serenissima a fine Settecento.

Nell’accelerazione della storia, la cartografia diventa spazio privilegiato di studio e di confronto politico e molti, che a essa si dedicano, svolgono un ruolo significativo anche sul piano informativo; esemplari i casi dell’apertura del Giappone all’Occidente, nella seconda metà dell’Ottocento (Philip Roudanovski) e del Grande Gioco nell’Asia centrale, in cui il confronto anglo-russo fa emergere l’ambiguo intrico di fervore scientifico, spirito d’avventura, spionaggio e patriottismo (Dario Citati). Non è un caso che anche i manuali di istruzione scientifica per i viaggiatori a cavallo del XX secolo – tra cui spiccano autori italiani e tedeschi – offrano spunti d’intelligence (Michele Castelnovi) e rappresentino occasioni di approfondimento per la conoscenza dei contesti.

La cartografia diventa sintesi e strumento per fini militari, logistici o politici, come attestano le esperienze scientifiche e irredentiste di Cesare Battisti (Matteo Marconi); le missioni segrete delle “navi civetta” antisommergibile nell’Egeo e nel Canale d’Otranto durante il Primo conflitto mondiale (Claudio Rizza); l’intensa attività in Medio Oriente della “terribile archeologa” Gertrude Bell – creatrice dello Stato iracheno e agente dell’Arab Bureau, istituito al Cairo dall’Intelligence Service – a riprova di come lo spionaggio sia arte comprensiva di molte altre (Marco Ventura).

A seguire, Gianluca Pastori approfondisce il ruolo delle missioni archeologiche e della diplomazia culturale a sostegno dell’attività di spionaggio e di promozione degli interessi italiani in Medio Oriente tra le due guerre; mentre Giacomo Pace Gravina consegna al lettore la memoria dell’archeologo Biagio Pace che, grazie alla sua profonda conoscenza dello spazio greco-anatolico, contribuì allo sbarco italiano ad Adalia nel 1919 e osservò, durante l’occupazione bolscevica della Georgia del 1921, le conseguenze economiche e sociali del regime comunista. Interessanti sono anche i contributi sul versante della storia dell’intelligence. Enrico Silverio, attraverso la biografia di uno dei vertici degli apparati informativi della media età imperiale romana, restituisce inalterata la complessità delle dinamiche di potere e del ruolo degli agenti segreti dell’epoca. Gianluca Falanga dagli archivi della Stasi trae elementi di valutazione sulla vocazione sovietica, durante la Guerra fredda, a destabilizzare un’area all’interno del blocco occidentale, come testimonia il caso del terrorismo secessionista altoatesino.

Paolo Bertinetti passa poi in rassegna la galassia delle detective e spy stories confermando come il clamoroso successo, spesso contingente, veicoli interessi transitori e sovente non corrisponda al valore letterario delle opere. Carlo Bordoni propone quindi la prometeica visione della scienza e della tecnica, sempre più legate da un rapporto ambiguo, concorrente e competitivo, in cui l’attuale primazia della tecnologia sembra il frutto della perdita di valore e d’intermediazione dei poli della conoscenza.

Enrica Simonetti, infine, svela la magia di alcune lingue minori rinvenibili sul territorio nazionale che rivelano di custodirne i valori tradizionali e la natura plurale da preservare. Le consuete rubriche si affidano ai contributi di Roberto Ganganelli per la numismatica sulla necessità, sin dall’antichità, di batter moneta anche durante i periodi di assedio; di Elisa Battistini sull’intreccio tra storia, realtà e rappresentazione cinematografica relativa alla morte di Osama Bin Laden; di Melanton per l’humour sulla sofisticazione semantica dell’agente segreto “Sapiens Sapiens”.

Fonte: AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA gnosis.aisi.gov.it