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SPORTELLO CENTRO VITTIMOLOGICO

Il Cafisc centro di alta formazione investigativa sicurezza criminologia Associazione Cafisc EJ

Apre lo sportello del centro vittimologico.

Per accogliere donne in difficoltà e minori con il servizio di mediazione culturale per le lingue italiano spagnolo portoghese francese inglese.

Presso la Sede CISL FNP Centro raccolta Inas di Gioia Tauro in via G.D’Annunzio 5/7 Gioia Tauro RC e Sede Calabria Cafisc

Con la presenza di psicologo, avvocato, criminologo, antropologo.

E funzione di accompagnamento presso la questura di Gioia Tauro partner nell’attività. Presso Tribunali e strutture ospedaliere. Con supporto di mediazione e di tipo psicologico criminologico.

Il centro vittimologico andrà ad operare nel seguente modo:

A cura della Dr.ssa PhD Cav. Tallarita Al.

Sportello, per l’accoglienza di tutti i coloro i quali, abbiano necessità di rivolgersi a esperti professionisti, per la risoluzione di eventi traumatici, di tipo violento eo criminoso, privato o sociale; vuole rendersi utile, per la prevenzione, e per la valutazione, di ogni singolo caso, la cura così come la prevenzione, degli aspetti traumatici, fisici e psicologici derivati da eventi di violenza. Procurata verso soggetti terzi, quali primariamente donne, minori, anziani e tutte le persone, che abbiano subito azioni violente fisiche psicologighe o di prevaricazione, bullismo, violenza domestica, intimidazione, trauma.

I cui effetti fisici e pscicologici, richiedono specifiche cure mediche e un attenta analisi criminologica, con un supporto giuridico, ove necessario e richiesto, tramite avvocato.

Lo sportello, vuole essere il primo approdo per una valutazione iniziale, delle conseguenze che il soggetto riporta, a seguito di eventi traumatici.

Vengono svolti dei colloqui con la persona, di tipo clinico, al fine di decidere l’intervento necessario per il soggetto. In base alla sintomatologia riscontrata l’intervento sarà di tipo medico legale.

A supporto, affiancano il soggetto, oltre al criminologo, avvocato, psicologo, enti giudiziari preposti.

Saranno sempre e comunque, privilegiati e rispettati i termini individuali di scelta e di libero arbitrio. Sia per la cura da effettuare, che per eventuali procedimenti giuridici. È garantito l’anonimato per la privacy. E si terrà conto del contesto culturale di provenienza, con un approccio antropologico, del soggetto.

Quello che il centro si propone di fare, è di intraprendere un percorso di cura, fisica e psicologica, un supporto criminologico per prendere coscienza di quanto si sta vivendo o si è vissuto, anche di formazione e prevenzione di reiterazioni.

Per chi ha subito traumi o è sottoposto a qualsiasi forma di violenza.

Lo sportello fa servizio per la mediazione culturale alle donne migranti e minori.

Il centro è aperto nei giorni e orari indicati

martedi e giovedi ore 11,30 – 15,00

e anche su appuntamento.

Email info@cafisc.it

Presso la Sede CISL FNP Centro raccolta Inas di Gioia Tauro in via G.D’Annunzio 5/7 Gioia Tauro RC e Sede Calabria Cafisc

Nuovi crimini nel web: il corso di formazione criminologica del Cafisc 

con la dr.ssa Al.Tallarita

La Dottoressa Cav. Anna Luana Tallarita, Presidente del Cafisc, promuove un “Corso di formazione gratuito” aperto agli studenti delle scuole superiori e universitari, alle forze dell’ordine, ai professionisti e agli avvocati.

Per affrontare le tematiche criminologiche in ambito web.Il corso tratterà alcuni importati argomenti inerenti:

il Cyber bullismo

le Truffe sul web

il Revenge porn

Il corso si svolgerà in tre sessioni seminariali dal 29 al 31 maggio 2023presso la Sala D’Annunzio, in via G. D’Annunzio n. 7 (Dietro Sala Fallara) Sala riunioni, presso la sede Fnp Cisl via g. D’annunzio 5/7 Gioia Tauro, RC

Le iscrizioni, per tutti coloro che vorranno parteciparesaranno accolte via email: info@cafisc.it

In cui inviare nome, cognome, contatti email e numero di telefono, professione. Le lezioni seminario si svolgeranno il pomeriggio dalle ore 17.00 alle ore 19.00.

Al termine del corso verrà rilasciato un Attestato di frequenza

(In base al numero dei partecipanti che si iscriveranno, si potrà scegliere di organizzare un secondo appuntamento, nei primi di giugno con le stesse modalità, dato che il corso si svolgerà, con un numero minimo di 8 fino a max 20 persone per volta)

www.cafisc.it – www.annaluanatallarita.com

Report carceri

POLIZIA PENITENZIARIA E QUOTIDIANITÀ
ALL’INTERNO DELLE CARCERI
“IL CASO TOSCANA”


A seguito della visita da parte del Senatore Patrizio La Pietra di tutti gli istituti di pena presenti sul
territorio della Regione Toscana, è stato redatto il seguente report, riepilogativo delle criticità
riscontrate e contenente alcune proposte di riforma del settore, maturate durante il dialogo con gli
operatori del settore.


PREMESSA
Attualmente sul tema della esecuzione penitenziaria si scontrano due diverse filosofie: c’è chi ritiene che debba
sempre e comunque prevalere il principio della certezza della pena e con la recrudescenza della condizione
carceraria (modello repressivo) e chi sostiene che la dignità della persona, anche se detenuta, rappresenti un
principio cardine del vivere democratico e solo restituendo alla persona la centralità dei diritti, si possa
seriamente pensare alla costruzione di una società più giusta e più libera in ottemperanza ai principi di
rieducazione inseriti in Costituzione.


La presente relazione, tuttavia, nasce con una finalità differente, quella di indicare una terza via tra quelle
prospettate, ponendo l’accento su elementi strutturali, lavoro quest’ultimo che deve principiare dalla
definizione ontologica del ruolo troppo spesso denigrato o sottovalutato della Polizia Penitenziaria e restituire
dignità ed attenzione ad un corpo troppo dimenticato dallo Stato.


Restando al di fuori del dibattito ideologico sulla natura repressiva o rieducativa della pena, questo lavoro ha il
precipuo intento di inquadrare in modo analitico e costruttivo il settore carcerario della Regione Toscana,
evidenziando le eccellenze e criticità delle strutture, il ruolo del corpo di Polizia Penitenziari ivi occupato, nonché
fornendo spunti di riforma.

continua…

Il potere della leadership il libro all’università per stranieri di Reggio Calabria

“All’Università per stranieri di Reggio Calabria si parla di leadership”

Anna Luana Tallarita presenta il libro 

“IL POTERE DELLA LEADERSHIP”

Nell’aula magna dell’Università per Stranieri Dante Alighieri di Reggio Calabria

Martedì 22 novembre 2022 alle ore 16.00

Ci saranno a discuterne l’autore 

dottoressa Anna Luana Tallarita. 

Antropologa, Artista e Criminolologa. 

Il Rettore dell’università il Prof. A.Zumbo, 

il giornalista Dr. F.Chindemi che presenterà il testo e porrà dei quesiti alla Tallarita.

E l’intervento sulla gestione del potere 

del Dr. F. Spagnolo e della suggestione che ha avuto dal capitolo VI ‘Come gestire il potere.’

Si analizzeranno, leggendo alcuni passi, i capitoli del testo: I il comportamento nello spazio fisico; II l’aggressività e il potere; III le pulsioni di vita e di morte; IV rappresentazione e volontà; V Azione di potere distrazione e controllo; VI come gestire il potere; VII pratica e teoria.

Sponsor

www.pcapolitical.com

www.cafisc.it

www.ejecam.it

Dove acquistare il testo:

https://www.aracneeditrice.eu/it//pubblicazioni/il-potere-della-leadership-anna-luana-tallarita-9791221800005.html

Il vittimista e il suo imporre il senso di colpa

Tutti, talvolta, viviamo un po’ in modalità «mai una gioia», con l’impressione che nella nostra vita le cose vadano sempre per il verso sbagliato, tuttavia si tratta di stati passeggeri. Il più delle volte riusciamo a stare bene con noi stessi, assumerci le nostre responsabilità e a trarre il meglio dalle circostanze della vita. Non va affatto così per le persone che riversano costantemente le proprie responsabilità sugli altri. «La sola persona che non può essere aiutata è la persona che getta la colpa sugli altri» – Carl Rogers. Diciamocelo francamente, per alcune persone incolpare gli altri o il fato, è una modalità pervasiva utilizzata in più occasioni quotidiane per allontanare da sé le responsabilità e ottenere attenzioni.

Quali sono le caratteristiche di queste persone?
In psicologia si parla di deresponsabilizzazione, sindrome del deresponsabilizzato o vittimismo patologico. In questo articolo, metterò da parte la teoria per vedere, in termini pratici, quali sono le dinamiche più comuni e le frasi che fanno emergere questa triste tendenza. Alla base della deresponsabilizzazione c’è un forte senso di impotenza e un’indomabile attitudine a colpevolizzare l’altro per scaricare frustrazione e rabbia. Quali sono le caratteristiche del vittimista?

Crede fermamente che tutto ciò che accada sia colpa degli altri.
Tendono a interpretare qualsiasi evento (o tua azione) in termini negativi, senza mai tentare di assumere un’altra prospettiva.
Si appigliano a ogni dettaglio per accusare e condannare l’altro.
Si lamentano senza però tentare qualsiasi strategia risolutiva, senza provare a cambiare la situazione.
Sono indulgenti con se stessi e severi con gli altri. Per esempio, un proprio errore è frutto di circostanze sfavorevoli, un errore commesso da altri è frutto di incapacità o malafede.
Si sentono incompresi, nonostante la tua empatia.
I suoi problemi sono sempre più grandi di quelli degli altri (compresi i tuoi).
Analogamente, i suoi bisogni sono sempre più importanti di quelli degli altri (compresi i tuoi).
Hanno bisogno di molte attenzioni perché riferiscono livelli di sofferenza elevati.
Usano una comunicazione drammatica, affliggente.
Hanno sempre troppe cose da fare, sono costantemente sopraffatti.
Il vittimista miete molte vere vittime. Il motivo? Deve trovare il suo capro espiatorio, il soggetto che dovrà assumersi la responsabilità di tutte le sue insoddisfazioni. Solitamente capro designato è una persona affettivamente vicina come il partner o un amico malcapitato. Ci sono poi anche vittime collaterali, più occasionali. Qualsiasi persona che tenterà di correre in suo aiuto finirà per sentirsi attaccato e incolpato di non essere in grado di capire o aiutare. Questi soccorritori finiscono per sviluppare sentimenti di inadeguatezza e di colpa, possono sentirsi ferite e, a lungo andare, vedere la propria autostima declinarsi inesorabilmente. Qualsiasi cosa facciano per essere di supporto, è sempre e comunque sbagliata.

Frasi tipiche di chi riversa sempre la colpa sugli altri
Chi scarica sempre le proprie responsabilità sull’altro sente l’esigenza di giudicare l’altro per primo, per non essere giudicato. Vede il male negli altri per non dover fare i conti con il proprio, amplifica le mancanze altrui e minimizza le sue. Delegittima sentimenti e azioni altrui, mentre ciò che sente e fa lui/lei è sempre dovuto. Nel delegittimare l’altro, il vittimista si limita a mettere i suoi sentimenti su un piano di superiorità o fare l’offeso quando gli si fa notare una verità indiscutibile.

«Tu non puoi capire, non sai cosa sto passando!»
«Allora credi che io stia mentendo? È questo che pensi di me? Che sono un bugiardo?!»
«Mi aggredisci, calmati un po’» quando in realtà sono loro ad aggredire ed essere alterati.
I vittimisti creano confusione, sono capaci di rimangiarsi la parola mille volte e ritrattare pur di non ammettere un proprio errore. Nelle conversazioni con loro, ci vorrebbe un registratore costantemente sul replay perché nello stesso discorso, se messi alle strette, sono capaci di dire tutto e il contrario di tutto!

«Non era mia intenzione dire questo, mi hai frainteso!»
«Mi vuoi imporre la tua visione ma non è andata così»
«Ciò non contraddice ciò che ho detto, capisci bene!»
«È inutile discutere con te, distorci sempre tutto»
Sono capaci di calcare la mano per ottenere attenzioni e favori. Il loro calcare la mano si traduce nell’impiego di ricatti affettivi e quindi manipolazione psicologica. Frasi come:

«Io non faccio così quando tu…»
«Con tutto quello che faccio per te..»
«Il minimo che tu possa fare…»
«Va bene così, come sempre dovrò arrangiarmi da solo»
Il suo «va bene» non è come un semplice e autentico va bene, è ricco di rabbia, rancore, e sottende una velata minaccia: tu fai pure così, io me lo ricorderò e te la farò scontare. Non sanno chiedere scusa, anche quando sono palesemente in torto, le loro scuse somigliano più a giustificazioni atte a scaricare la colpa del loro comportamento sulle circostanze. Oppure, colpevolizzano te per esserti ferito!

«Questo periodo è molto difficile, sono molto stressato…»
«Per te non ne faccio mai una giusta! Hai sempre da ridire…» (e questo è paradossale!)
«Con tutte le preoccupazioni che ho, ovvio che l’ho dimenticato»
Cosa fare?
Che tu sia un vittimista o una sua vittima, hai bisogno di comprendere una cosa. Per quanto dura possa sembrare, sei tu l’unico artefice della tua felicità. Non puoi affidare agli altri il compiuto di accudirti, rassicurarti e risolverti la vita (facendosi carico dei tuoi conflitti interiori), ciò significa implicitamente che non puoi assumere il gravoso compito di salvare l’altro.

Se credi di essere vittima di un vittimista, hai bisogno di comprendere che si tratta di una persona che assume questo ruolo a prescindere da tuo operato. È importante che tu capisca questo passaggio per non cadere nella trappola dei sensi di colpa e dei ricatti affettivi. L’unica cosa che puoi fare è porre dei limiti invalicabili, lavorare su te stesso per comprendere cosa c’è alla base di questa tua tendenza all’eccessivo accudimento. Chi, da bambino, si è dovuto fare carico delle responsabilità genitoriali (inversione dei ruoli, il figlio che finisce per accudire un genitore fragile, una dura forma di adultizzazione infantile tipica dei bambini che maturano troppo in fretta, bruciando le tappe), può facilmente legare con persone così.

Spesso, nella storia del vittimista possono emergere vissuti di violenza fisica, abusi psicologici o ambienti familiari estremamente trascuranti. Il vittimismo diviene l’espressione di un apprendimento che recita a gran voce: nessuno potrà mai aiutarmi. Queste persone, infatti, non sono mai state aiutate veramente da qualcuno, non hanno mai conosciuto la genuina disponibilità genitoriale. Anche se la loro infanzia ha una facciata di felicità e provano nostalgia, nella realtà dei fatti sono cresciuti in un ambiente ambivalente e pericoloso.

Impara a esprimere i tuoi bisogni
Gli adulti di riferimento erano abusanti, ambigui e inaffidabili. Crescendo in questo ambiente, il vittimista ha sviluppato la convinzione che nessuno possa o voglia davvero aiutarlo e che tutti, in fondo, se ne freghino. Crescendo in un ambiente così, quel bambino non ha mai imparato a esprimere in modo diretto i suoi bisogni e quindi ha imparato a manifestarli in modo indiretto ed esasperato nel disperato tentativo di farsi ascoltare. In un certo senso, è ciò che fai anche oggi: nel tentativo disperato di farti notare e accudire, esasperi e abbracci ogni disavventura. Hai molta rabbia dentro di te, per ciò che ti è stato negato da bambino. Un percorso introspettivo di consentirà di risolvere il tuo passato.

Frasi tipiche di chi vuole riversare le colpe su di te
Fonte: A.De Simone , Psicologia Sociale

L’IDENTIKIT DEL VITTIMISTA PATOLOGICO

Nota anche come Sindrome di Calimero, quella del vittimista patologico è una modalità immatura di vivere la relazione e di affrontare la realtà, che si innesca quando il soggetto percepisce come non paritario il confronto con l’altro e quindi ricorre ad una “stampella” per reggere il confronto. Il vittimista patologico non si presenta mai come tale, bensì come vittima. Ma attenzione, esiste una differenza sostanziale tra una vittima e un vittimista: entrambi possono aver subìto disgrazie o ingiustizie più o meno gravi, ma il modo di reagire alle stesse è diametralmente opposto. La vittima può avere consapevolezza dell’ingiustizia che vive e la gestisce con se stessa, il vittimista non è interessato alla risoluzione del suo problema (laddove questo esista realmente) bensì alla sua strumentalizzazione. Questo gli consente di detenere una posizione di potere sull’altro, che alimenta infondendo sensi di colpa, strumentalizzando cose e/o persone che l’altro ha a cuore e toccando i suoi nervi scoperti e le sue parti deboli. E può tenerlo sotto scacco anche per tutta la vita. Il tutto senza applicare coercizione fisica, ma tessendo una invisibile tela che la vittima non percepisce immediatamente, ma solo quando sente di non potersene più liberare. Questa tipologia di autori di violenza può tranquillamente definirsi manipolatrice ed ha alcuni aspetti in comune col narcisista patologico.

QUAL É L’INTENTO DEL VITTIMISTA PATOLOGICO?

La messa in atto di comportamenti subdoli, finalizzati a non farsi scoprire e quindi a non rendersi attaccabili, ha il preciso intento di tenere in pugno le persone che manipolano (senza dargli la reale percezione che questo stia avvenendo) al fine di piegarle al proprio “progetto”. Diventano così tiranni relazionali perchè, facendo leva sul compatimento o sul senso di colpa dell’interlocutore, gli viene facile ottenere ciò che desiderano. Inoltre, il vittimista patologico vive ed alimenta condizioni di sofferenza fino a farle diventare il proprio habitat naturale, una barriera difensiva patologica senza la quale non sarebbe più in grado di andare avanti: generando senso di colpa e compatimento nell’altro e strumentalizzando problemi reali o fantasmagorici, attira verso di sè tutta l’attenzione. Non è un caso che, quasi sempre, la controparte sia una persona fortemente empatica. E non è un caso nemmeno il fatto che, nel momento in cui la vittima cerca di divincolarsi dai tentacoli di quella piovra, questa – nel terrore di vedere sgretolare quel malsano equilibrio sul quale ha costruito la sua intera esistenza – diventa aggressiva oltremodo e oltre ogni misura. Ed ecco il motivo per cui, in dinamiche di questo tipo, il primo nemico che la vittima deve combattere è se stessa, se non vuole consentire o prolungare la presenza di parassiti che si cibano della sua vita per sopravvivere. Come il parassitismo è una forma di simbiosi in cui il parassita trae vantaggio a danno dell’ospite, allo stesso modo la relazione tossica è una forma di simbiosi in cui l’autore di violenza psicologica trae vantaggio a spese di chi la subisce. Perché il parassita sopravvive là dove l’organismo che lo ospita è disposto a morire

Identikit del vittimista patologico: una bestia silente. Fonte:scirokko.it

I seminari formativi di CAFISC

Cafisc

Idea e promuove” Tre Appuntamenti seminariali

Promossi da CAFISC

Tenuti dalla Dr.sa Al. Tallarita PhD Criminolologa, Antropologa, Scrittrice, Artista. Presidente Cafisc. Direttore PCAPolitical.

Ed altri ospiti : avvocato, giornalista, psicologo, esperto di sicurezza.

Tematiche dei tre seminari:

-La situazione femminile nelle carceri

-I giovani e la dipendenza da social

-Cyber bullismo e istigazione al suicidio “

I seminari sono aperti a tutti.

Le date saranno comunicate agli iscritti per email con il link a cui collegarsi per seguirli.

Sezioni di novembre , dicembre , gennaio.

Per informazioni e Iscrizioni scrivere a: info@cafisc.it

Lasciando nome cognome e contatti numero e email Interesse ai tre seminari o a ciascuno.

Verrà rilasciato un attestato di partecipazione per gli usi consentiti dalla legge.

I 6 tratti principali della personalità sociopatica rivelati da un esperto dei disturbi del comportamento

Come riconoscere un sociopatico? David J. Lieberman, ricercatore nel campo comportamentale e autore di un nuovo libro sull’argomento, ha spiegato quali sono le caratteristiche più comuni e come gestire il disturbo antisociale della personalità in una relazione

Riconoscere un individuo che soffre di sociopatia, termine che indica il disturbo antisociale di personalità, può essere molto più complicato che riconoscere uno psicopatico. Lo sostiene lo psicoterapeuta David J. Lieberman, ricercatore nel campo comportamentale e delle relazioni interpersonali e autore del libro Mindreader: The New Science of Deciphering What People Really Think, What They Really Want, and Who They Really Are, che affronta l’argomento in un articolo pubblicato su CNBC.

Secondo Lieberman, che non solo ha trascorso gran parte della sua carriera studiando i disturbi della personalità, ma ha anche addestrato il personale delle forze armate statunitensi, nell’FBI e nella CIA, i sociopatici possono distruggere la vita di una persona e sono molto più difficili da individuare rispetto a uno psicopatico. Perché, mentre quest’ultimo tende a essere più manipolatore e riduce al minimo il rischio nelle attività criminali, il sociopatico è in genere più irregolare e incline alla rabbia e, di conseguenza, più pericoloso.

Sono sei, in particolare, i tratti caratteriali più comuni che, a detta di Lieberman, definiscono un sociopatico.

difficoltà a calibrare la sua gestione delle impressioni che si danno.Come gestire il disturbo antisociale della personalità in una relazioneRiconoscere un soggetto con disturbo antisociale di personalità è complicato.

Gli indicatori di cui sopra possono essere utili, ma difficilmente sono definitivi. Se ci si trova in ​​una relazione con un sociopatico, Lieberman suggerisce alcuni comportamenti che possono rivelarsi utili per gestire in linea generale la situazione, ricordando tuttavia l’importanza di prendere le distanze. Non sempre possiamo cambiare il comportamento di qualcuno, ma è possibile trovare il modo per stabilire dei confini e farcela, poiché il nostro benessere emotivo è indissolubilmente legato alla qualità delle nostre relazioni. Ecco quindi i tre passi fondamentali da adottare se si vive una relazione con una persona affetta da disturbo antisociale della personalità:

1.Evita di essere in disaccordo con lui pubblicamente: il senso di umiliazione e qualsiasi parola o azione che possa farli vergognare incide molto in profondità e può innescare reazioni pericolose.

2.Non accusarlo direttamente di essere sociopatico: lavora lentamente per disimpegnarti dalla relazione.

3.Avere un sociopatico nella propria vita può essere molto impegnativo e alienante, una buona soluzione è vedere un terapeuta o unirsi a un gruppo di supporto. Avere qualcuno con cui parlare può essere molto utile.

fonte:vanityfair.it, A Politi

Bullismo e violenza di gruppo

Spesso aggrediscono per il gusto di far male, di umiliare, per rimarcare una superiorità. Sottrarre un oggetto non è tanto una rapina fine a sé stessa, ma un modo per punire, spogliando la vittima dei suoi beni.

Le ragazzine sono talvolta più violente dei coetanei maschi perché hanno un modo di attaccare sofisticato, usano l’arma psicologica, puntano a colpire il lato fragile». Andreana Pettrone è una psicologa specializzata in psicoterapia sistemica relazionale. Fa parte del pool di medici che partecipano al progetto Informa a Napoli: con un camper fanno la spola davanti a tre istituti tecnici di Napoli che abbracciano una vasta area urbana.

«È un errore pensare che la violenza sia solo nei ceti più disagiati, che si sviluppi in famiglie che vivono in condizioni di marginalità sociale. L’aggressività unita alla spavalderia la troviamo anche tra i ragazzi benestanti». Pettrone dice che il fenomeno più dilagante è quello delle gang rosa: «Sono gruppetti di adolescenti che iniziano con piccoli atti di bullismo e poi in un crescendo di violenza, organizzano veri e propri raid contro loro coetanee.

Di solito agiscono in branchi tutti al femminile. I pretesti sono i più disparati: da ritorsioni sentimentali, alla punizione per una presunta maldicenza o semplicemente il gusto di umiliare chi è isolata, chi non riconoscono come una loro pari».

Secondo la psicologa vale molto l’omologazione fisica: «Chi non condivide un look, un atteggiamento dominante, è esclusa e bullizzata». Le frasi che ricorrono spesso a spiegare gli attacchi violenti – «non risparmiano alla vittima calci, pugni, graffi, sputi» – sono: «Meritava solo di essere picchiata» e «se l’è andata a cercare». Ma se poi viene chiesto loro di dare una spiegazione ulteriore, «non sanno cosa dire, c’è un vuoto linguistico disarmante», spiega Pettrone.

A differenza dei coetanei maschi, le ragazze usano con compiacimento narcisistico i video che mettono sulle reti sociali. «Si compiacciono non solo di aver umiliato la vittima, ma anche di avere un riconoscimento pubblico, tramite i like, delle loro bravate. Cercano spesso una platea maschile come a dimostrare di essere più dure degli uomini. Il piacere maggiore lo traggono dal consenso dei coetanei maschi. Si scambiano tra loro nelle chat i commenti e li rilanciano alla ricerca di una approvazione più ampia possibile».

Le modalità di aggressione, dice la psicologa, sono ripetitive. «Circondano la vittima, che di solito ha l’apparenza debole. L’aggrediscono e la filmano. L’obiettivo è totalizzare più like possibili sui social. La loro speranza è che i video diventino virali». Talvolta si formano gang miste. «Le ragazzine vengono accettate perché fidanzate di uno del branco, c’è una sorta di iniziazione sessuale. Ma una volta entrate nel gruppo tendono in breve tempo a uscirne per creare una loro gang. Mentre tra i maschi la gerarchia è più marcata, tra le femmine è sfumata, sono quasi tutte sullo stesso piano, non ci sono leader.

Sono sfacciate, audaci e la maggior parte abituate alla violenza in famiglia, per loro l’aggressività è naturale. Quelle che vengono da famiglie benestanti, spesso emulano i video». E la reazione dei ragazzi? Pettrone commenta che «tendono a minimizzare gli atteggiamenti violenti delle coetanee, a sminuirne il valore perché si sentono in competizione e in un certo senso le temono. Talvolta sono divertiti dalla tipologia delle ragazze cattive e questo non fa che accrescere il loro compiacimento.

Si sentono al centro dell’attenzione maschile e la loro smania di protagonismo è soddisfatta.Fanno a gara sul social Tiktok per le bravate. Acquisiscono una parità distorta nella violenza. Imitano molto le eroine dei film che hanno tratti mascolini e ostentano forza e aggressività». Pettrone, raccogliendo le esperienze dei ragazzi, ha rilevato che ci sono videogiochi e film diventati modelli «cult» di violenza. Come il Gta, in cui vince chi ruba e violenta le donne.

È vietato ai minori ma dilaga proprio tra di loro. «Lo spaccio di droga, lo sfruttamento della prostituzione e l’incitamento alla violenza non dovrebbero costituire la principale trama di un videogioco per adolescenti. Eppure alcuni di questi videogiochi che si basano proprio su una serie di attività criminali finalizzate a conseguire i punti sono molto vendute tra i giovani», spiega la psicologa.

Più si spara, più si uccide e più si sale nella graduatoria. La classifica si scala facilmente se tra le vittime ci sono i poliziotti. In ragazzi già predisposti all’aggressività, film e giochi forniscono modelli, lanciano messaggi negativi che trovano terreno fertile tra le baby gang». Nel camper del progetto Informa arrivano anche i genitori. Pettrone sottolinea che tali fenomeni di violenza di gruppo sono radicati soprattutto lì dove le famiglie sono assenti: «I genitori non sanno più mettere un limite, stabilire regole.

Il che consente di scrollarsi di dosso le responsabilità. C’è la cultura dell’adolescente che deve essere libero. Così accade che difendono i figli anche di fronte ad atti gravi. Cercano di addossare la colpa all’esterno, agli insegnanti, agli amici».

Fonte: L.D.P. per “la Verità”

Disturbi dell’Umore

La depressione altro non è che uno stato in cui l’individuo vive in totale assenza di speranza, speranza per sé e per il futuro, segnato dall’ineluttabile amarezza della vita. Già, perché la sofferenza è vissuta come qualcosa di ineluttabile, inevitabile, quasi come una caratteristica intrinseca della vita. Questo stato si verifica quando anche l’ultimo baluardo di fiducia viene a mancare.

Con questa introduzione, oggi non voglio parlare di depressione maggiore, cioè di quell’etichetta clinica che è accompagnata da determinati criteri diagnostici. Oggi mi preme parlare di un tipo di depressione nascosta, silente, che accompagna molti di noi e che, purtroppo, non avendo alcuna definizione diagnostica, troppo spesso passa inosservata.

Il risultato? La persona si trascina senza vivere con pienezza la sua vita, senza mai conoscere fiducia e comprensione. In effetti se ci si soffermiamo a rifletterci, come potrebbero essere compresi nella loro sofferenza se nessuno ne parla? Se nessuno dà una spiegazione a quel dolore. Ecco che quelle persone finiranno per convincersi di essere loro inadatte alla vita. Niente di più sbagliato.Imparare a soffrire, un insegnamento difficile da dimenticare.

Alcune persone si muovono nella vita già sconfitte, come se avessero bisogno solo di sofferenza, abbandono e quanto di peggio possano provare. Questo accade perché, nella loro storia personale, non hanno mai conosciuto una reale spensieratezza. Sulle loro spalle, fin dall’infanzia, è sempre gravato un peso enorme: la responsabilità di una persona cara e/o la vergogna o la colpa per un torto subito di cui non hanno alcuna responsabilità. Queste persone non tentano neanche di conquistarsi la loro fetta di felicità perché ormai, è già andata! È stata perduta tanti anni prima e, come premesso, manca la speranza. Osservandole da lontano, non sembrano davvero depresse: si alzano, vanno a lavoro, sono efficienti, propongono soluzioni, si confrontano… Non scaricano la loro frustrazione sugli altri e all’apparenza sembrano forti o insensibili, tutto questo solo perché hanno imparato precocemente a mettere un tappo a certe manifestazioni.Il dolore ha un potere pazzesco. Quando una persona, anzi, un bambino, deve fare i conti con la sofferenza per lungo tempo, senza alcuna consapevolezza e supporto concreto, quel bambino finirà per normalizzare la sofferenza, finirà per renderla parte del suo presente, sempre. Stare male diventa una costante naturale della vita. Chi non ha conosciuto la leggerezza dell’infanzia, solo difficilmente da adulto potrà costruirsi il suo benessere: nessuno gli ha mostrato come si fa. La verità è che, da adulti, tendiamo a ricostruirci una realtà che in qualche modo possa restituirci le emozioni vissute durante l’infanzia.

Beh, se quelle emozioni appesantiscono il cuore e parlano di assenze, omissioni, promesse infrante e fiducia tradita, è chiaro che la speranza inizierà ad affievolirsi fino a sparire.Quella fiducia perdutaSul dizionario «Oxford Language», la speranza è definita come «l’attesa fiduciosa di un evento gradito o favorevole». Alcune persone non hanno mai ricevuto un feedback positivo dall’ambiente esterno. Sono cresciute costantemente frustrate, puntualmente tradite nelle speranze e nei bisogni. Non bisogna aver vissuto traumi eclatanti per sviluppare questa forma depressiva di sottofondo. Modelli genitoriali inadeguati possono arrecare, inconsapevolmente, molti danni allo sviluppo psicoaffettivo del bambino, fino a distruggere quella che in psicologia è definita fiducia epistemica primaria.Nelle relazioni primarie (cioè nei primi legami che stringiamo da bambini con le figure genitoriale) impariamo se possiamo fidarci o meno del prossimo, impariamo a valutare l’altro come una spalla sulla quale poter contare o come qualcuno da cui difendersi. In modo riduzionistico, se i nostri bisogni di accettazione, di vicinanza, di benevolenza e di supporto sono stati soddisfatti in modo opportuno, vedremo nell’altro una risorsa. Al contrario, perderemo ogni speranza, l’apprendimento implicito e precoce è un secco: «nessuno può aiutarmi, devo (e dovrò!) arrangiarmi sempre da solo!» Oppure: «sono un peso! Sono talmente inaccettabile che neanche chi dovrebbe amarmi di più al mondo vuole prendersi cura di me!».

In termini pratici, se un giorno un bambino è spaventato dall’abbaiare di un cane e, nel genitore, non trova un rifugio sicuro ma trova parole sprezzanti del tipo: «smettila di frignare come una femminuccia! È solo un cane!». Quello seguente, il bambino piange perché si è sbucciato il ginocchio e invece di trovare rassicurazioni il genitore parte con un «te l’ho detto che non dovevi correre! Sei stupido, tu non mi ascolti!». Poi ancora, se fa i capricci, parte subito un «Se continui la mamma si arrabbia»… Un modello genitoriale svilente, che invalida costantemente tutte le manifestazioni emotive del bambino, giorno dopo giorno, eliminerà ogni forma di speranza. Il bambino non imparerà che, se ha paura, può contare sull’altro, anzi, imparerà che l’altro può essere altrettanto spaventoso. Non capirà che, se si fa male, può guarire e rialzarsi, anzi, apprenderà che non può, anzi, non deve sbagliare mai! Imparerà che le emozioni non vanno espresse perché queste innescano reazioni avverse.

Alla base di quella malinconia di sottofondo.

Alla base di tutta quella malinconia di sottofondo che ci portiamo dentro, c’è la fiducia violata di un bambino spaventato che non voleva altro che essere rassicurato. I bambini sono esseri emotivi, non razionali, hanno bisogno di rassicurazioni, attenzioni, ascolto empatico e vicinanza affettiva, non hanno bisogno di giocattoli costosi contornati da prediche e offese!

Abbiamo detto che chi sperimenta questa malinconia di sottofondo, talvolta appare molto forte, quasi invincibile. Allora come fare per capire queste persone? Vediamo insieme alcune frasi che possono essere un indicatore di un vissuto difficile, di una sofferenza di sottofondo.

Frasi tipiche delle persone depresse che non sembrano depresse.

Vediamo quali sono le frasi tipiche delle persone senza speranza e ti darò anche qualche suggerimento per rispondere. Se quella persona che ha perso ogni briciolo di fiducia sei tu, sappi che puoi ripetertele da solo. È vero, ognuno di noi ha bisogno di comprensione dall’esterno ma spesso e volentieri, la vera vicinanza di cui abbiamo bisogno è la nostra! Dobbiamo imparare a entrare in contatto con noi stessi e ascoltarci davvero. La sofferenza che ci portiamo dentro ci sta raccontando una storia che riguarda il nostro passato, oggi tocca a noi scrivere il nostro

«Tutte le storie sono destinate a finire»

Come rispondere a una persona cara: «ma perché, tu le hai provate davvero tutto? Le conosci tutte?»Come rispondere a se stessi: «penso questo solo a causa delle mie esperienze drammatiche, questo mio pensiero è legato più a vissuti emotivi che non a un processi riflessivi. Da oggi, voglio riflettere di più su me stesso e su come mi stanno condizionando i miei vissuti del passato.»«Tanto, tutto è inutile»Come rispondere a una persona cara: «io credo che ce la farai, so che tutto ti sembra nero, ma le cose belle accadono».

Cosa dire a se stessi: «cosa ho provato per cambiare questa situazione? Ho provato davvero tutte le strade o sono prevenuto?

I risultati dipendono solo da me? Io non posso cambiare le condotte altrui ma posso prenderne le distanze, posso costruire la mia isola felice perché la merito».

«Non valgo nulla»Come rispondere a una persona cara: «Beh, io ti voglio bene così come sei»Cosa dire a se stessi: «sento di non valere nulla perché una parte di me mi induce a sentirmi così. Ma «sentirsi» in un certo modo non significa «essere». Le emozioni che provo alterno fortemente le mie percezioni, piuttosto dovrei chiedermi, cosa mi ha fatto sentire così?»

«Ormai» – «Oramai è troppo tardi»

Come rispondere a una persona cara: «Pensaci un po’, se tu iniziassi oggi un corso di cucina tra tre anni potresti anche essere uno chef stellato! Non è mai troppo tardi se si hanno progetti, è la fretta di realizzare che ti tarpa le ali»Cosa dire a se stessi: «Troppo tardi rispetto a cosa? Non sto facendo alcuna competizione! A volte dimentico che sono io il padrone della mia vita, quindi li scandisco io i miei tempi. Posso proseguire a piccoli passi, posso fare pause, perdere tempo, allontanarmi dai miei obiettivi e poi tornarci…! Posso rilassarmi e poi proseguire a piccoli passi.»

«Vorrei tornare quello di prima»Come rispondere a una persona cara: «Va bene, allora cosa possiamo fare oggi per ritornare allo splendore di un tempo? Possiamo farlo insieme!».

Cosa dire a se stessi: «Le mie emozioni mi proiettano al passato, concentrandomi sul presente posso addirittura essere migliore di prima. Ogni giorno voglio dedicare un po’ di tempo a me stesso, cimentandomi in attività che piacciono. Voglio nutrire la mia identità, voglio finalmente prendermi davvero cura di me!». Riscrivi le Pagine della Tua Vita.

Ormai molti già lo conoscono, si tratta del mio libro bestseller: «Riscrivi le Pagine della Tua Vita». Se non lo hai ancora fatto, ti consiglio di leggerlo, lo trovi su amazon e in tutte le librerie. In ogni pagina, ti spiego come ridefinire la tua identità a partire dai tuoi vissuti del passato e dalle emozioni che provi oggi. Potrai finalmente concederti il lusso della politica dei piccoli passi, cioè riuscirai a migliorare la tua vita giorno per giorno, senza pretendere tutto e subito, in ogni capitolo, infatti, ci sono esercizi pratici e nozioni che possono aiutarti fin da subito a migliorare la qualità della tua vita a partire dalla relazione che hai con te stesso e con gli altri. Puoi ripartire ricostruendo quella fiducia perduta. C’è una persona che non dovrebbe deluderti mai: quella persona sei tu! Ricorda: anche tu meriti la tua fetta di felicità in questa vita, abbi il coraggio di allungare la mano per prenderla! È tua, ti spetta di diritto.

A.De Simone, psicologo esperto in neuropsicobiologia

Fonte: Psicoadvisor

L’educazione familiare tra assenteismo e accanimento

Se sul piano teorico l’accordo è comune nel concepire l’educazione come un processo di promozione e valorizzazione di tutte le sue facoltà, processo che il bambino non può compiere senza la guida dell’adulto, sul piano pratico emergono numerose difficoltà, di carattere sia personale che culturale.

Sul piano personale sembra ormai sufficientemente acquisita l’importanza della relazione di attaccamento tra madre e bambino in ordine alla positività e all’efficacia di tutte le altre relazioni, quindi a maggior ragione di quelle educative; ma approfondendo questa prima acquisizione (Bowlby, 1982), studi successivi hanno posto in evidenza come la qualità dell’attaccamento primario sia a sua volta strettamente correlato alla qualità dell’attaccamento che la madre ha vissuto a suo tempo, tanto che l’esperienza dell’attaccamento materno, rivisitato attraverso opportune tecniche, può giungere ad avere carattere predittivo sul successivo attaccamento che la donna riuscirà a stabilire con il proprio figlio (Crittenden, 1994).

Al di là, comunque, dei dati relativi alla storia personale della madre, è indubbio che il compito dell’educazione comporti complicazioni emotive, prodotte non solo dalla ricordata asimmetria, ma anche da un’ampia gamma di fattori, che vanno dall’accordo esistente nella coppia genitoriale sull’immagine di figlio, fino all’effettiva complessità della vita quotidiana della fami- glia, complessità che, rendendo spesso difficile la vita all’adulto, può provocargli reazioni incontrollate nei momenti in cui si rende necessaria l’applicazione delle regole.

Di qui il ricorso frequente alla “sberla”, alla minaccia di punizioni esagerate e comunque sproporzionate all’entità della “colpa” o alla possibilità di comprensione del bambino, il tutto suggerito non da un progetto educativo ma dalla possibilità momentanea dell’adulto di pazientare o meno e di comprendere o meno i momenti difficili del figlio.

Spesso poi, nei dialoghi tra coppie di genitori e addirittura nelle trasmissioni televisive o nei consigli ai genitori, il ricorso “moderato” alle mani viene considerato educativo, e in un certo senso peggiorativo è vero, in quanto educa con l’esempio il bambino a non elaborare sul piano del pensiero e della parola le proprie emozioni, inducendolo a comportamenti a sua volta violenti nei confronti dei coetanei e non di rado degli adulti stessi. La violenza dei bambini appartiene infatti alla categoria dei comportamenti appresi, quando non è espressione di profondi disagi relazionali (De Zulueta, 1999; Kindlon e Thompson, 1999).

Frequentemente i comportamenti esasperati dei genitori derivano non solo dalle loro oggettive difficoltà esistenziali, ma anche dal livello eccessivo di attese che la cultura familiare diffusa li induce a investire sui figli, giungendo a un non infrequente accanimento educativo, che li porta a riempire le gior- nate dei figli di insegnamenti programmati, impegnativi e costosi (nuoto, ballo, tennis, equitazione, lingua straniera…), inserendoli in una sorta di “catena di montaggio” quotidiana che i figli si trovano a subire senza trarne soddisfazione.

Al polo opposto dei comportamenti educativi eccessivamente impegnati- vi, quando non punitivi e minacciosi fino alla violenza, si trova il comporta- mento remissivo, assenteista, quello che induce l’adulto a concedere pur di non essere disturbato, ma anche qui con concessioni prive di soddisfazione per il bambino, perché accompagnate da messaggi di esasperata sopportazione.

Queste due diverse posizioni quasi sempre coesistono, creando nel bambi- no la confusione che tutti i comportamenti incoerenti provocano anche negli adulti, con l’aggravante che in questo caso la persona coinvolta in questi comportamenti non ha gli strumenti cognitivi ed espressivi per manifestare adeguatamente la confusione, e l’adulto può non rendersene conto, attribuendo a disturbi individuali quello che è invece il risultato di una relazione educativa non sufficientemente pensata. In termini clinici, questo comportamento incoerente viene definito “patologia delle cure”, una patologia che, se appare nella sua maggiore gravità in ambito medico, di fatto può invadere numerosi ambiti dell’esperienza educa- tiva (Montecchi, 2002).

Da: Prevenzione del disagio e dell’abuso all’infanzia , M. T. Pedrocco Biancardi*Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali