Doppia intervista a Anna Luana Tallarita sugli ultimi libri presentati.
Segnali che ti trascini ferite emotive del passato
Essere lasciati, perdere una persona molto cara, subire un torto da chi proprio non ci aspettavamo…. sono ferite invisibili che lasciano brutte cicatrici all’anima. Gli effetti di questi ricordi possono presentarsi automaticamente per il resto della vita, anche se inconsciamente. Ogni esperienza vissuta sia positiva che negativa diventa un elemento chiave del nostro mondo interiore, di conseguenza regola le nostre reazioni agli eventi che ci capitano.PubblicitàA volte esperienze passate possono aver avuto un forte impatto su di noi a livello inconsapevole e i ricordi immagazzinati nel nostro cervello, possono saltare fuori all’improvviso, al di fuori del nostro controllo e influenzare così il nostro modo di interpretare la realtà. Molti dei sentimenti e delle azioni che minano la nostra stabilità emotiva sono sintomi derivanti da questo sistema di ricordi che costituisce l’inconscio.Le ferite che ci impediscono di avanzareQuante volte ti sarà capitato di decidere razionalmente domani mi metto a dieta e giunto a domani ti sei abbuffato? Quante volte hai promesso a te stesso di smettere di arrivare in ritardo ai tuoi appuntamenti quotidiani e invece ti ritrovi a correre come un matto per strada? Quante volte ha giurato a te stesso di essere meno accondiscendente e invece puntualmente stai pronto ad accontentare chi non merita nemmeno le tue attenzioni? Una cosa è certa: c’è qualcosa dentro di te che non ti fa sentire pienamente soddisfatto!pubblicitàNon ti senti mai abbastanza, la tua stessa vita non è abbastanza, i tuoi risultati sul lavoro non sono abbastanza e c’è sempre quella sensazione che dovresti lavorare di più, impegnarti più duramente perché è così difficile trovare la vera soddisfazione! Eppure metti cura, cerchi di fare del tuo meglio, ti impegni per essere accettato, accolto, ben voluto.pubblicitàQuesto accade perché le credenze hanno una componente emotiva inconscia. Tradotto vuol dire che la maggior parte dei tuoi comportamenti sono il riflesso diretto delle tue paure, delle percezioni e dei valori generati da esperienze passate. Le tue credenze più profonde, i traumi e i condizionamenti limitanti che si sono fissati nell’inconscio creano la tua quotidianità!Siamo ciò che pensiamo di noi… anche se tutto avviene inconsciamenteC’è chi vuole essere innamorato, ma qualcosa dentro di lui glielo impedisce. C’è chi vuole perdonare, ma qualcosa dentro di lui si oppone al perdono. C’è chi vuole avere successo, ma qualcosa dentro, nel suo mondo interiore, non glielo permette. Le nostre ombre ci dominano, sono i nostri condizionamenti inconsci!PubblicitàQuesti modelli li facciamo inevitabilmente nostri perché sono nel nostro primo campo di esperienza. Pensiamo ad esempio alle idee che abbiamo sulle relazioni sentimentali a fronte di ciò che osserviamo nei nostri genitori e l’idea che abbiamo dei modelli genitoriali che possono essere applicabili, tutto a fronte delle esperienze che abbiamo vissuto e in parte dovuto alla personalità che va a fondersi con essi.I meccanismi principali sono quello di somiglianza e differenzaIo assumo un atteggiamento nei confronti della vita a fronte di una somiglianza o del tentativo di somiglianza rispetto a un modello che ritengo efficace o per differenza. Quest’ultimo significa che mi differenzio rispetto a un modello che invece trovo disfunzionale, per esempio se ho sempre visto nella relazione con i miei genitori un padre padrone quindi un uomo impositivo sulla figura femminile e conscio della sofferenza che questo modello porta con se allora sceglierò, per differenza, di essere un partner molto più presente, attento e protettivo nei confronti delle esigenze e dei bisogni della persona che ho accanto.Cerco quindi di differenziarmi dal modello che ho osservato durante la mia vita. Allo stesso modo posso invece assumere per somiglianza l’atteggiamento forte che mia mamma ha sempre mostrato in casa.Basandoci esclusivamente sulla base di somiglianza e differenza corriamo il rischio di non fare ciò che davvero vogliamo perché lo abbiamo scelto ma appunto per somiglianza o differenza. Le scelte fatte quindi risultano troppo in relazione a quello che ho vissuto per somiglianza o differenza e quindi in relazione all’esperienza diventano disfunzionali. Per esempio quando un genitore decide di essere molto presente nei confronti del figlio perché ha vissuto un’esperienza di lontananza dal genitore. In tal caso diventa disfunzionale quando questo genitore diventa troppo presente.pubblicitàCosa possiamo fare?Per non cadere negli schemi appresi è necessario essere consapevole ed elaborare i meccanismi che utilizzi per rapportarti con il mondo, i meccanismi di somiglianza e differenza chiedendoti se li stai mettendo in atto per scelta o solo per opposizione e se sono funzionali al tuo presente. Per riuscire a fare questo è necessaria molta consapevolezza e necessariamente partire dal chiedersi quali sono gli scenari in cui mi sono composto per somiglianza e quali per differenza.Il potere dell’introspezionePer questa ragione, se vuoi avere pieno controllo delle tue azioni non devi lavorare sulla sfera cosciente, come erroneamente si pensa, ma agire nell’inconscio. E come si fa? Operando lì dove si trovano le tue ombre, il tuo passato cristallizzato. Devi osservare le tue emozioni, i tuoi fastidi, le lamentele, i giudizi, e portarli in superficie.Ciò che si trova nascosto nel tuo mondo interiore ha potere su di te ma solo fino a quando rimane occultato nel buio. Quando invece viene illuminato dall’osservazione e dalla consapevolezza, allora il suo potere inizia a scemare; non sarai più in balìa dei tuoi condizionamenti inconsci. La tua percezione della realtà avrà una nuova dimensione: i tuoi pensieri e il tuo mondo interiore saranno in armonia con ciò che desideri davveroAffinché questo accada, devi avere il coraggio di guardarti dentro con onestà, apprendere a sostare nello spazio scomodo delle scoperte delle tue antiche ferite, e accettarle. Da quest’accettazione nasce una forza nuova, la paura del giudizio altrui lascerà spazio a una verità, autenticità, che solo chi può permettersi di essere se stesso fino in fondo conosce.pubblicitàProva quindi a fare un esercizio, fai un elenco su un foglio delle tue scelte, dei tuoi ruoli e chiediti se ti sei composto per somiglianza o differenza e da chi. Pensa anche se la tua posizione attuale l’hai scelta, se l’hai scelta in funzione del passato o in relazione al presente e come potresti modificarla per riuscire a migliorarlaAssumiti la responsabilità del tuo spazio di azioneAnche se ti sembra che il tuo spazio d’azione sia ridotto, anche se ogni “avrei potuto fare di più” non ha molto senso visto che ogni cosa – alla fine – va come deve andare, noi dobbiamo fare il possibile per andare incontro alla vita vera, per liberarci da ciò che non fa più per noi, per fronteggiare con consapevolezza gli eventi che incontriamo, anche perché se non fossimo in grado di affrontare certi eventi, essi non ci accadrebbero nemmeno.Questo è, a mio avviso, il nostro spazio d’azione: l’impegno quotidiano a vivere pienamente con umiltà e dignità tutto ciò che non possiamo cambiare; l’impegno ad amarci, a rispettarci e ad essere noi stessi, rimanendovi fedeli.Non chiederti perché lui o lei ti ha lasciato, chiediti cosa ti piace tanto e hai smesso di fare… Non chiederti perché i tuoi non ti hanno amato, chiediti come puoi essere il miglior genitore di te stesso….e non chiederti perché capitano tutte a te, chiediti che cosa puoi fare in questo momento per rendere la tua vita il posto in cui vuoi stare.PubblicitàUna lettura preziosa che ti cambierà la vitaOrmai molti già lo conoscono, si tratta del mio libro bestseller: «Riscrivi le Pagine della Tua Vita». E’ il libro che io stessa avrei voluto leggere tantissimi anni fa, prima ancora di diventare uno psicologo. In ogni pagina, ti spiego come ridefinire la tua identità a partire dai tuoi vissuti del passato e dalle emozioni che provi oggi. Potrai finalmente concederti il lusso della politica dei piccoli passi, cioè riuscirai a migliorare la tua vita giorno per giorno, senza pretendere tutto e subito, in ogni capitolo, infatti, ci sono esercizi pratici e nozioni che possono aiutarti fin da subito a migliorare la qualità della tua vita a partire dalla relazione che hai con te stesso e con gli altri. Puoi ripartire ricostruendo quella fiducia perduta. C’è una persona che non dovrebbe deluderti mai: quella persona sei tu! Ricorda: anche tu meriti la tua fetta di felicità in questa vita, abbi il coraggio di allungare la mano per prenderla! È tua, ti spetta di diritto. Il mio libro puoi trovarlo in libreria e a questa pagina Amazon.A cura di Ana Maria Sepe, psicologo e fondatrice della rivista PsicoasvisorAutore del libro Bestseller “Riscrivi le pagine della tua vita” Edito RizzoliSe ti piace quello che scrivo, seguimi sul mio profilo Instagram: @anamaria.sepe.Se ti piacciono i nostri contenuti, seguici sull’account ufficiale IG: @PsicoadvisorPuoi leggere altri miei articoli cliccando su *questa pagina*PubblicitàSEGUICI SUI SOCIALFacebookTwitterInstagramPinterestYouTube ChannelRicerca per:Cerca …LIBRI CONSIGLIATI«Riscrivi le Pagine della Tua Vita» Leggi l’estratto gratuito su Amazon. Un libro che propone un viaggio introspettivo alla scoperta di sé e delle proprie potenzialità. Con esercizi psicologici e strumenti professionali utili a rivendicare il proprio valore di persona completa, ascoltare i propri bisogni e soprattutto farli rispettare.«Quaderno d’esercizi per trasformare la propria collera in energia positiva» Leggi l’estratto gratuito su Amazon. La rabbia ha una cattiva reputazione, è spesso associata a violenza e aggressività ma anche questa emozione può avere risvolti positivi. La rabbia può essere canalizzata per far rispettare i propri diritti e apportare cambiamenti intorno a noi.«Dire basta alla dipendenza affettiva. Imparare a credere in se stessi» Leggi l’estratto gratuito su Amazon. La dipendenza affettiva presenta una terribile limitazione, l’incapacità di essere davvero fe«lice, arginata solo da un rimedio: l’altro.«Ho mangiato abbastanza. Come ho perso 60 kg con la meditazione» Leggi l’estratto gratuito su Amazon. Un libro dedicato a coloro che non riescono a perdere peso, che falliscono qualsiasi dieta. Un libro per cambiare prospettiva e capire che per risolvere il problema dei chili di troppo bisogna cambiare radicalmente il punto di vista su di sé e sul mondo.
Ana Maria SepeDottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisorsepeannamaria@gmail.com
Report carceri
POLIZIA PENITENZIARIA E QUOTIDIANITÀ
ALL’INTERNO DELLE CARCERI
“IL CASO TOSCANA”
A seguito della visita da parte del Senatore Patrizio La Pietra di tutti gli istituti di pena presenti sul
territorio della Regione Toscana, è stato redatto il seguente report, riepilogativo delle criticità
riscontrate e contenente alcune proposte di riforma del settore, maturate durante il dialogo con gli
operatori del settore.
PREMESSA
Attualmente sul tema della esecuzione penitenziaria si scontrano due diverse filosofie: c’è chi ritiene che debba
sempre e comunque prevalere il principio della certezza della pena e con la recrudescenza della condizione
carceraria (modello repressivo) e chi sostiene che la dignità della persona, anche se detenuta, rappresenti un
principio cardine del vivere democratico e solo restituendo alla persona la centralità dei diritti, si possa
seriamente pensare alla costruzione di una società più giusta e più libera in ottemperanza ai principi di
rieducazione inseriti in Costituzione.
La presente relazione, tuttavia, nasce con una finalità differente, quella di indicare una terza via tra quelle
prospettate, ponendo l’accento su elementi strutturali, lavoro quest’ultimo che deve principiare dalla
definizione ontologica del ruolo troppo spesso denigrato o sottovalutato della Polizia Penitenziaria e restituire
dignità ed attenzione ad un corpo troppo dimenticato dallo Stato.
Restando al di fuori del dibattito ideologico sulla natura repressiva o rieducativa della pena, questo lavoro ha il
precipuo intento di inquadrare in modo analitico e costruttivo il settore carcerario della Regione Toscana,
evidenziando le eccellenze e criticità delle strutture, il ruolo del corpo di Polizia Penitenziari ivi occupato, nonché
fornendo spunti di riforma.
continua…
Complesso di Erostrato: l’arte dell’apparenza
personalità dotata di scarsa autostima, che cerca di apparire diversamente.
Spesso più si vuole apparire, più si è insicuri. Proprio tale dinamica spiega il complesso di Erostrato, fenomeno sempre più diffuso, in cui il classico vanto nasconde in realtà una personalità dotata di scarsa autostima, che cerca di apparire diversamente.

Siamo tutti testimoni del complesso di Erostrato. Lo vediamo in quelle persone che fanno dell’arte dell’apparenza il proprio stile di vita. C’è chi parla di “posare”, chi di esibizionismo sociale. Questi individui sono cacciatori di Mi piace sui social network, personalità che fanno dell’apparenza una sofisticata maschera dietro cui nascondere il proprio complesso di inferiorità.
Alcuni pensano che in questa nuova tappa della cultura tecnologica siamo diventati un po’ tutti più vanitosi. A molti di noi, perché no, piace mettere in mostra alcuni aspetti della nostra vita sulla bacheca di Facebook o sulle stories di Instagram. Non c’è niente di male a farlo di tanto in tanto, assolutamente no. Ma avere bisogno tutti giorni di ricevere Mi piace e quell’approvazione continua deriva sicuramente da realtà patologiche più gravi di quello che potrebbe sembrare.
Ebbene, il complesso di Erostrato non si limita al solo universo cibernetico. Possiamo riconoscerlo nella posa assunta da quella conoscente che monopolizza la comunicazione tra i membri di un gruppo, ma anche in quel collega “fantasma” che fa di tutto per apparire vincente e in tantissime persone (e personaggi) che caratterizzano il panorama sociale, invadendolo con il loro culto dell’Io.
Chi vive di apparenze non solo finisce per condurre un’esistenza vuota e infelice, al di là dell’aspetto aneddotico, c’è un dettaglio che non possiamo trascurare: l’erostratismo può indurre molte persone a mettere in atto condotte nocive e logoranti allo scopo di acquisire notorietà.
Se la fama arriva solo dopo la morte, non ho fretta di conseguirla.
-Marco Aurelio-

Il complesso di Erostrato: l’uomo che distrusse una delle sette meraviglie per diventare famoso
Gli storici raccontano che la notte del 21 luglio del 365 a.C. avvenne un evento infausto che sarebbe passato alla storia. Il protagonista di questo atto fu Erostrato, un giovane pastore di Efeso. Sin da bambino egli aveva manifestato la convinzione ossessiva di essere stato scelto dagli dei per compiere un’impresa straordinaria che gli avrebbe dato la fama.
Aspirava a diventare sacerdote di Artemide, ma non avendo un padre legittimo, gli era stata negata questa possibilità. Acciecato dalla sete di fama, ebbe un’idea, un piano che mise in atto la notte del 21 luglio. Si recò al tempio di Artemide, una delle sette meraviglie del mondo e, dopo aver baciato la statua della dea, vi diede fuoco.
A seguito di quel disastro, Artaserse, re di Persia, ordinò che venisse torturato per sapere cosa lo avesse spinto a commettere una tale offesa. Erostrato allora dichiarò le sue motivazioni: passare alla storia come l’uomo che aveva dato alle fiamme il bellissimo tempio di Artemide.
Dopo aver udito le sue parole, il monarca lo condanno all’ostracismo e vietò -pena la morte- che venisse registrato il suo nome e associato alla distruzione del tempio. Tale condanna, tuttavia, non servì a nulla.
Lo storico greco Teopompo recensì l’incendio e registrò il nome di Erostrato, tanto che oggi siamo a conoscenza di questi fatti. La psicologia, inoltre, scelse proprio questa figura per definire per le persone capaci di fare quasi qualunque cosa per emergere, per acquisire fama e popolarità.

Ricerca della popolarità, bassa autostima e atti criminali
Alfred Adler, noto terapeuta austriaco dei primi del XX secolo, condusse uno studio molto interessante, dando una spiegazione della possibile causa di un sentimento latente di inferiorità. Molti di questi profili adottano uno stesso schema che, in qualche modo, era già presente nello stesso Erostrato di Efeso.
Tendono a tracciare un piano di vita colmo di ideali che difficilmente riescono a realizzare. Oltre a ciò, manifestano uno sconfinato desiderio di spiccare, proiettando persino un atteggiamento sprezzante nei confronti di tutti coloro che li circondano. In molti casi, desiderare disperatamente di essere al centro dell’attenzione senza però riuscirci li porta a nutrire una crescente ostilità.
In alcuni casi ciò può essere molto pericoloso, poiché l’individuo può spingersi oltre e commettere un crimine. Lo stesso Erostrato ne commise uno il 21 luglio 265 a.C., bruciando il tempo di Artemide. David Chapman fece altrettanto l’8 dicembre del 1980, quando uccise John Lennon, e John Hinckley attentò alla vita di Ronald Reagan il 30 marzo 1981.

Il rifiuto interiore che induce alla violenza
Tutti questi personaggi hanno manifestato comportamenti chiaramente patologici nel tentativo di diventare famosi. Non hanno esitato, dunque, ad attentare alla vita di figure-simbolo e guadagnarsi così un posto nella storia. Di fatto, ci sono riusciti.
Non possiamo dunque banalizzare o assumere come aneddotici i comportamenti di chi vive solo per apparire, di chi ha il bisogno costante di essere al centro dell’attenzione e idealizzare così il suo Io, sminuendo gli altri.
Ogni forma di apparenza è il riflesso di una serie di carenze. Si tratta di personalità frustrate, che rifiutano se stesse e che cercano di aggrapparsi a un’immagine inventata, che fanno fatica a consolidare davanti a un pubblico.
Poiché non sempre ci riescono, optano per azioni estreme, come affondare professionalmente gli altri, mettere in giro pettegolezzi infondati e non avere scrupoli in quel sottile confine tra ciò che è etico e morale e ciò che non lo è.
Il complesso di Erostrato non solo limita le nostre possibilità di essere felici, ma molto spesso può indurre l’essere umano a mostrare il suo lato più oscuro. Teniamolo a mente.
fonte: lamenteemeravigliosa.it
Violenza di genere: crimine europeo
Il Parlamento Europeo ha approvato in data 16 settembre una risoluzione dal titolo “Riconoscimento della violenza di genere come nuova fattispecie di reato fra i reati di cui all’articolo 83, paragrafo 1, TFUE“. (P9_TA(2021)0388).
Sul presupposto che ad una più efficace lotta contro tutte le forme di violenza di genere (online ed offline) debba contribuire anche l’Unione, il Parlamento Europeo avanza al Consiglio una proposta di decisione con la quale i reati di genere verrebbero inseriti nel novero degli “euro-crimes” (art. 83 del TFUE). Così poi sulla scorta di questa base legale, la Commissione potrà avanzare una proposta di direttiva “globale” sul fenomeno in questione, che verrà poi discussa dagli organi legislativi eurounitari.
Inoltre, nella prospettiva del Parlamento europeo, con la suddetta direttiva, l’Unione potrebbe dare efficace attuazione alla Convenzione di Istanbul (ad oggi, non è ancora stata ratificata dall’UE).
In altri termini, il Parlamento Europeo con un atto d’indirizzo, sia pure non vincolante, definisce come prioritario l’intervento delle politiche europee a contrasto di tale fenomeno, che può ormai definirsi come un “fenomeno transnazionale”.
Fonte:ovd.unimi.it
Violenza di genere relazione del Dr.Salvi
Relazione del dott. Giovanni Salvi, Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, tenuta nell’ambito dell’Assemblea generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2021, relativo al fenomeno della violenza di genere.
RELAZIONE-PG-SALVI-2022-estratto-violenza-di-genere (1)
Fonte:ovd.unimi.it
Il potere della leadership il libro all’università per stranieri di Reggio Calabria
“All’Università per stranieri di Reggio Calabria si parla di leadership”
Anna Luana Tallarita presenta il libro
“IL POTERE DELLA LEADERSHIP”
Nell’aula magna dell’Università per Stranieri Dante Alighieri di Reggio Calabria
Martedì 22 novembre 2022 alle ore 16.00
Ci saranno a discuterne l’autore
dottoressa Anna Luana Tallarita.
Antropologa, Artista e Criminolologa.
Il Rettore dell’università il Prof. A.Zumbo,
il giornalista Dr. F.Chindemi che presenterà il testo e porrà dei quesiti alla Tallarita.
E l’intervento sulla gestione del potere
del Dr. F. Spagnolo e della suggestione che ha avuto dal capitolo VI ‘Come gestire il potere.’
Si analizzeranno, leggendo alcuni passi, i capitoli del testo: I il comportamento nello spazio fisico; II l’aggressività e il potere; III le pulsioni di vita e di morte; IV rappresentazione e volontà; V Azione di potere distrazione e controllo; VI come gestire il potere; VII pratica e teoria.
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Dove acquistare il testo:
Catfishing : ‘pesce gatto’ vittime ed effetti psicologici
Diverse ricerche hanno esplorato gli effetti psicologici sulle vittime di catfishing, soprattutto nell’ultimo anno in cui le relazioni digitali, per via del Covid, hanno preso il sopravvento.
cos’è il catfishing significato e conseguenze
Su Netflix c’è un reality, The Circle, che racconta bene cosa vuol dire sfruttare la propria identità digitale per piacere al prossimo. Questi ragazzi chiusi ognuno nella propria stanza e monitorati costantemente dalle telecamere possono inventarsi di sana pianta un’immagine di sé per conquistare gli altri del gruppo, oppure scegliere di essere semplicemente chi sono. Nel primo caso, voilà, siamo già nella prima fase di un catfishing ben congeniato.
Hai presente il catfishing, no? Questa parola è entrata nell’uso comune in Italia anche grazie al documentario con Nev Schulman del 2010 e a programmi cult come Catfish – false identità su MTV e identifica relazioni nate principalmente online in cui uno dei due partner finge di essere qualcun altro, non si mostra mai realmente per quello che è, in certi casi fa finta di essere donna anziché uomo (o viceversa). Complice la distanza fisica e la fiducia che le vittime di catfishing rimpongono in queste persone, bugiardi seriali di questo tipo vanno avanti finché si crea una vera e propria co-dipendenza. E sbam, il danno (per chi ne è vittima) è fatto.Related StoryCome smascherare un wokefish al primo appuntamentoNella mente del catfisher, perché si mente sulla propria identitàMa c’è di più. Nell’anno del Covid, nel quale le relazioni si sono giocate principalmente online con parecchie conseguenze sulla libido e sul benessere mentale, finire nella rete di chi mente sapendo di mentire, per tanti, è stato facilissimo. Con parecchie conseguenze sul cervello, sul modo in cui si vive l’amore e si dà fiducia al prossimo. Il significato del catfishing in psicologia, sulla base di diversi studi portati avanti recentemente, sta tutto in queste tre sfere. Nello studio pubblicato su Sexual and Relationship Therapy che si chiama “Adult attachment and online dating deception: a theory modernized” nel 2020, ad esempio si è cercato di capire chi sono le vittime perfette del catfishing. Attenzione: non è una questione di stupidità. Fidarsi di qualcuno, innamorarsene in certi casi, non lo è mai.
Si tratta di fiducia da un lato e di grande capacità manipolatoria dall’altra. L’identikit di chi cade nella rete di queste persone è quello di una donna (in media) che ha anxiety issues, ovvero problemi di ansia. E che tende ad appoggiarsi al partner per trovare sollievo.Related StoryUn anno di terapia mi ha salvata dall’ansiaIn una inchiesta di The Conversation, che ha intervistato dei catfisher seriali, si è invece cercato di capire perché queste persone sono spinte ad approfittare degli altri, mentendo su chi sono, spesso per soldi. Solitudine, tristezza, incapacità diffusa di gestire le relazioni sono le motivazioni di chi diventa catfisher. Non per giustificarli, ma a livello psicologico spesso la sfera mentale di chi viene ingannato e di chi inganna è simile, almeno nelle premesse.catfishing, cos’è e quali sono le conseguenze su relazioni e benessere mentaleFidarsi degli altri a volte è un gran casino.
Nello studio “Managing Impressions Online: Self-Presentation Processes in the Online Dating Environment” si è cercato di capire perché, a volte, mettiamo filtri sulla nostra personalità. Sì, la parola filtro non è casuale soprattutto se la applichi al mondo di Instagram e dei social di oggi, nei quali si possono cambiare i connotati con una facilità disarmante, creando un gap tra ciò che si mostra e come si è realmente. In questo caso, secondo gli esperti, i catfished sono persone (a volte, milioni e milioni) che credono di conoscere una persona in base a come si presenta. In generale però quando ci presentiamo sulle app di dating oppure parliamo con qualcuno conosciuto online, puntiamo a mettere al centro il nostro ideal self. Il modo in cui vorremmo essere, insomma. In certi casi, quella che è tendenza umana e comprensibile diventa patologia. E serialità.Le conseguenze del catfishingIn un approfondimento di Bustle, il neuropsicologo Dr. Sanam Hafeez ha detto che quando capiamo di essere stati manipolati la testa va in tilt per lo stress. Non solo: in quel momento il cervello impara a reagire a certe situazioni che somigliano a quella vissuta, anche se magari prenderanno tutta un’altra strada. Ed ecco che fidarsi degli altri diventa un’impresa.
Lovebombing, cos’è e come riconoscerlo
Gli studi sulle vittime di catfishing – che sono tante, molte di più di quelle che credi – persone che sono state manipolate da una persona a cui avevano dato tutto (dal cuore alla password del conto in banca) confermano che per guarire ci vuole un aiuto esterno, ad esempio un psicoterapeuta. E che è normale sentirsi stupidi, ma non è necessario che questa sensazione duri per sempre. Può evolvere, nel tempo, in qualcosa di positivo. E il cervello può essere allenato a non inserire ogni relazione nella casella “Alert: pericolo”. Conoscere e capire questo tipo di manipolatori è il primo passo per riuscirci.
Cosmopolitan di G. GALLO
Il vittimista e il suo imporre il senso di colpa
Tutti, talvolta, viviamo un po’ in modalità «mai una gioia», con l’impressione che nella nostra vita le cose vadano sempre per il verso sbagliato, tuttavia si tratta di stati passeggeri. Il più delle volte riusciamo a stare bene con noi stessi, assumerci le nostre responsabilità e a trarre il meglio dalle circostanze della vita. Non va affatto così per le persone che riversano costantemente le proprie responsabilità sugli altri. «La sola persona che non può essere aiutata è la persona che getta la colpa sugli altri» – Carl Rogers. Diciamocelo francamente, per alcune persone incolpare gli altri o il fato, è una modalità pervasiva utilizzata in più occasioni quotidiane per allontanare da sé le responsabilità e ottenere attenzioni.
Quali sono le caratteristiche di queste persone?
In psicologia si parla di deresponsabilizzazione, sindrome del deresponsabilizzato o vittimismo patologico. In questo articolo, metterò da parte la teoria per vedere, in termini pratici, quali sono le dinamiche più comuni e le frasi che fanno emergere questa triste tendenza. Alla base della deresponsabilizzazione c’è un forte senso di impotenza e un’indomabile attitudine a colpevolizzare l’altro per scaricare frustrazione e rabbia. Quali sono le caratteristiche del vittimista?
Crede fermamente che tutto ciò che accada sia colpa degli altri.
Tendono a interpretare qualsiasi evento (o tua azione) in termini negativi, senza mai tentare di assumere un’altra prospettiva.
Si appigliano a ogni dettaglio per accusare e condannare l’altro.
Si lamentano senza però tentare qualsiasi strategia risolutiva, senza provare a cambiare la situazione.
Sono indulgenti con se stessi e severi con gli altri. Per esempio, un proprio errore è frutto di circostanze sfavorevoli, un errore commesso da altri è frutto di incapacità o malafede.
Si sentono incompresi, nonostante la tua empatia.
I suoi problemi sono sempre più grandi di quelli degli altri (compresi i tuoi).
Analogamente, i suoi bisogni sono sempre più importanti di quelli degli altri (compresi i tuoi).
Hanno bisogno di molte attenzioni perché riferiscono livelli di sofferenza elevati.
Usano una comunicazione drammatica, affliggente.
Hanno sempre troppe cose da fare, sono costantemente sopraffatti.
Il vittimista miete molte vere vittime. Il motivo? Deve trovare il suo capro espiatorio, il soggetto che dovrà assumersi la responsabilità di tutte le sue insoddisfazioni. Solitamente capro designato è una persona affettivamente vicina come il partner o un amico malcapitato. Ci sono poi anche vittime collaterali, più occasionali. Qualsiasi persona che tenterà di correre in suo aiuto finirà per sentirsi attaccato e incolpato di non essere in grado di capire o aiutare. Questi soccorritori finiscono per sviluppare sentimenti di inadeguatezza e di colpa, possono sentirsi ferite e, a lungo andare, vedere la propria autostima declinarsi inesorabilmente. Qualsiasi cosa facciano per essere di supporto, è sempre e comunque sbagliata.
Frasi tipiche di chi riversa sempre la colpa sugli altri
Chi scarica sempre le proprie responsabilità sull’altro sente l’esigenza di giudicare l’altro per primo, per non essere giudicato. Vede il male negli altri per non dover fare i conti con il proprio, amplifica le mancanze altrui e minimizza le sue. Delegittima sentimenti e azioni altrui, mentre ciò che sente e fa lui/lei è sempre dovuto. Nel delegittimare l’altro, il vittimista si limita a mettere i suoi sentimenti su un piano di superiorità o fare l’offeso quando gli si fa notare una verità indiscutibile.
«Tu non puoi capire, non sai cosa sto passando!»
«Allora credi che io stia mentendo? È questo che pensi di me? Che sono un bugiardo?!»
«Mi aggredisci, calmati un po’» quando in realtà sono loro ad aggredire ed essere alterati.
I vittimisti creano confusione, sono capaci di rimangiarsi la parola mille volte e ritrattare pur di non ammettere un proprio errore. Nelle conversazioni con loro, ci vorrebbe un registratore costantemente sul replay perché nello stesso discorso, se messi alle strette, sono capaci di dire tutto e il contrario di tutto!
«Non era mia intenzione dire questo, mi hai frainteso!»
«Mi vuoi imporre la tua visione ma non è andata così»
«Ciò non contraddice ciò che ho detto, capisci bene!»
«È inutile discutere con te, distorci sempre tutto»
Sono capaci di calcare la mano per ottenere attenzioni e favori. Il loro calcare la mano si traduce nell’impiego di ricatti affettivi e quindi manipolazione psicologica. Frasi come:
«Io non faccio così quando tu…»
«Con tutto quello che faccio per te..»
«Il minimo che tu possa fare…»
«Va bene così, come sempre dovrò arrangiarmi da solo»
Il suo «va bene» non è come un semplice e autentico va bene, è ricco di rabbia, rancore, e sottende una velata minaccia: tu fai pure così, io me lo ricorderò e te la farò scontare. Non sanno chiedere scusa, anche quando sono palesemente in torto, le loro scuse somigliano più a giustificazioni atte a scaricare la colpa del loro comportamento sulle circostanze. Oppure, colpevolizzano te per esserti ferito!
«Questo periodo è molto difficile, sono molto stressato…»
«Per te non ne faccio mai una giusta! Hai sempre da ridire…» (e questo è paradossale!)
«Con tutte le preoccupazioni che ho, ovvio che l’ho dimenticato»
Cosa fare?
Che tu sia un vittimista o una sua vittima, hai bisogno di comprendere una cosa. Per quanto dura possa sembrare, sei tu l’unico artefice della tua felicità. Non puoi affidare agli altri il compiuto di accudirti, rassicurarti e risolverti la vita (facendosi carico dei tuoi conflitti interiori), ciò significa implicitamente che non puoi assumere il gravoso compito di salvare l’altro.
Se credi di essere vittima di un vittimista, hai bisogno di comprendere che si tratta di una persona che assume questo ruolo a prescindere da tuo operato. È importante che tu capisca questo passaggio per non cadere nella trappola dei sensi di colpa e dei ricatti affettivi. L’unica cosa che puoi fare è porre dei limiti invalicabili, lavorare su te stesso per comprendere cosa c’è alla base di questa tua tendenza all’eccessivo accudimento. Chi, da bambino, si è dovuto fare carico delle responsabilità genitoriali (inversione dei ruoli, il figlio che finisce per accudire un genitore fragile, una dura forma di adultizzazione infantile tipica dei bambini che maturano troppo in fretta, bruciando le tappe), può facilmente legare con persone così.
Spesso, nella storia del vittimista possono emergere vissuti di violenza fisica, abusi psicologici o ambienti familiari estremamente trascuranti. Il vittimismo diviene l’espressione di un apprendimento che recita a gran voce: nessuno potrà mai aiutarmi. Queste persone, infatti, non sono mai state aiutate veramente da qualcuno, non hanno mai conosciuto la genuina disponibilità genitoriale. Anche se la loro infanzia ha una facciata di felicità e provano nostalgia, nella realtà dei fatti sono cresciuti in un ambiente ambivalente e pericoloso.
Impara a esprimere i tuoi bisogni
Gli adulti di riferimento erano abusanti, ambigui e inaffidabili. Crescendo in questo ambiente, il vittimista ha sviluppato la convinzione che nessuno possa o voglia davvero aiutarlo e che tutti, in fondo, se ne freghino. Crescendo in un ambiente così, quel bambino non ha mai imparato a esprimere in modo diretto i suoi bisogni e quindi ha imparato a manifestarli in modo indiretto ed esasperato nel disperato tentativo di farsi ascoltare. In un certo senso, è ciò che fai anche oggi: nel tentativo disperato di farti notare e accudire, esasperi e abbracci ogni disavventura. Hai molta rabbia dentro di te, per ciò che ti è stato negato da bambino. Un percorso introspettivo di consentirà di risolvere il tuo passato.
Frasi tipiche di chi vuole riversare le colpe su di te
Fonte: A.De Simone , Psicologia Sociale
L’IDENTIKIT DEL VITTIMISTA PATOLOGICO
Nota anche come Sindrome di Calimero, quella del vittimista patologico è una modalità immatura di vivere la relazione e di affrontare la realtà, che si innesca quando il soggetto percepisce come non paritario il confronto con l’altro e quindi ricorre ad una “stampella” per reggere il confronto. Il vittimista patologico non si presenta mai come tale, bensì come vittima. Ma attenzione, esiste una differenza sostanziale tra una vittima e un vittimista: entrambi possono aver subìto disgrazie o ingiustizie più o meno gravi, ma il modo di reagire alle stesse è diametralmente opposto. La vittima può avere consapevolezza dell’ingiustizia che vive e la gestisce con se stessa, il vittimista non è interessato alla risoluzione del suo problema (laddove questo esista realmente) bensì alla sua strumentalizzazione. Questo gli consente di detenere una posizione di potere sull’altro, che alimenta infondendo sensi di colpa, strumentalizzando cose e/o persone che l’altro ha a cuore e toccando i suoi nervi scoperti e le sue parti deboli. E può tenerlo sotto scacco anche per tutta la vita. Il tutto senza applicare coercizione fisica, ma tessendo una invisibile tela che la vittima non percepisce immediatamente, ma solo quando sente di non potersene più liberare. Questa tipologia di autori di violenza può tranquillamente definirsi manipolatrice ed ha alcuni aspetti in comune col narcisista patologico.
QUAL É L’INTENTO DEL VITTIMISTA PATOLOGICO?
La messa in atto di comportamenti subdoli, finalizzati a non farsi scoprire e quindi a non rendersi attaccabili, ha il preciso intento di tenere in pugno le persone che manipolano (senza dargli la reale percezione che questo stia avvenendo) al fine di piegarle al proprio “progetto”. Diventano così tiranni relazionali perchè, facendo leva sul compatimento o sul senso di colpa dell’interlocutore, gli viene facile ottenere ciò che desiderano. Inoltre, il vittimista patologico vive ed alimenta condizioni di sofferenza fino a farle diventare il proprio habitat naturale, una barriera difensiva patologica senza la quale non sarebbe più in grado di andare avanti: generando senso di colpa e compatimento nell’altro e strumentalizzando problemi reali o fantasmagorici, attira verso di sè tutta l’attenzione. Non è un caso che, quasi sempre, la controparte sia una persona fortemente empatica. E non è un caso nemmeno il fatto che, nel momento in cui la vittima cerca di divincolarsi dai tentacoli di quella piovra, questa – nel terrore di vedere sgretolare quel malsano equilibrio sul quale ha costruito la sua intera esistenza – diventa aggressiva oltremodo e oltre ogni misura. Ed ecco il motivo per cui, in dinamiche di questo tipo, il primo nemico che la vittima deve combattere è se stessa, se non vuole consentire o prolungare la presenza di parassiti che si cibano della sua vita per sopravvivere. Come il parassitismo è una forma di simbiosi in cui il parassita trae vantaggio a danno dell’ospite, allo stesso modo la relazione tossica è una forma di simbiosi in cui l’autore di violenza psicologica trae vantaggio a spese di chi la subisce. Perché il parassita sopravvive là dove l’organismo che lo ospita è disposto a morire
Identikit del vittimista patologico: una bestia silente. Fonte:scirokko.it
Stress lavorativo e malattia professionale
come gestire le risorse umane
Ferdinando Pellegrino (U.O. Salute Mentale ASL Salerno 1, Costa D’Amalfi)
Patrizia Orsucci (Prato)
Da tempo lo stress lavorativo è, a vario titolo, al centro dell’attenzione di molti operatori sanitari. Ci si è accorti che là dove le risorse umane non sono ben gestite, i danni, sia per gli operatori stessi che per gli utenti, sono talvolta ingenti e onerosi sotto l’aspetto emotivo per l’operatore e da un punto di vista economico per l’azienda di cui fa parte. Gestire al meglio le risorse professionali diventa quindi un impegno importante e necessario soprattutto in quelle attività professionali, quelle attinenti all’aiuto, dove il carico emotivo è considerevole. Lo stress che deriva da un’attività svolta sotto pressioni varie ha tutt’altro che un effetto stimolante e motivante come si credeva fino a qualche tempo fa al fine di produrre sempre di più, ma ha un effetto dannoso perché lo stress che ne consegue è insidioso, riduce le performance e può paralizzare un’attività creativa per la massiccia quantità di aggressività che smobilita; alla lunga una situazione lavorativa pesante demotiva, esaspera e suscita difese sterili e ciniche degli operatori sia nei confronti degli utenti che dei colleghi.
Che il più forte la vince è ormai un’utopia perché spesso difese rigide sono motivo di involuzione e di crollo.
Accanto ad abilità tecniche, saper fare, sempre più specifiche e specialistiche, non possono mancare abilità psicologiche legate alla persona e al saper essere, conoscersi e relazionarsi.
Quando lo stress lavorativo irrompe diventa causa di burnout e le sue conseguenze si ripercuotono a più livelli con segni clinici che l’ormai ben noto test B.M.I. della Maslach consente di quantificare nelle sue componenti precipue di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e derealizzazione personale di coloro che lo vivono. Le persone che si trovano a sperimentare su se stesse gli effetti di un sovraccarico di stress passano da una sensazione di inaridimento, di esaurimento, di disaffezione al proprio lavoro caratterizzata da una risposta fredda ed impersonale nei confronti degli altri; sensazioni vissute come forti frustrazioni che, la dove non sono riconosciute, trovano espressione anche con la comparsa di somatizzazioni e slatentizzazioni con veri e propri scompensi soprattutto dove vi siano già patologie in atto. Burnout quindi come sintomo o come malattia e cosa fare per trattarlo e soprattutto prevenirlo? Certamente il malessere sperimentato può essere un sintomo ma quando il suo perdurare nel tempo cronicizza situazioni e vissuti logoranti diventa una vera e propria malattia che compromette seriamente il benessere dell’individuo rendendolo vulnerabile sotto molti aspetti sia fisici che relazionali.
Ad un entusiasmo idealistico che si colloca, in genere, all’inizio della carriera lavorativa (Edelwich e Brodsky, 1980) e che di solito coincide con la tendenza a sottovalutare le difficoltà e a nutrire solo aspettative ottimistiche rispetto agli obiettivi del proprio intervento può far seguito una fase di stagnazione; se il divario fra competenze e richieste è sproporzionato e nell’impatto con la realtà l’operatore si accorge che i suoi bisogni non trovano la soddisfazione attesa ciò diventa motivo di frustrazione che può alimentare e ingenerare una situazione di logoramento sia fisico che psichico.
L’individuo che si viene a trovare imbrigliato in questa fase sperimenta delle modalità d’uscita dal disagio che, se non ben gestite, lo avviluppano sempre di più ad una fase di esaurimento per arginare il quale scivola in modalità svariate di fuga che innescano un pericoloso circolo vizioso che viene a ritorcersi contro. Nel tentativo di uscire dalla dissonanza emotiva percepita e di liberarsi dalla frustrazione, intesa come modalità intrapsichica di difesa, viene sperimentata una forte apatia che induce un condizionamento dell’attività cognitiva e che travolge la persona con percezioni, atteggiamenti e mete severamente disfunzionali. Non si tratta di un semplice stato di tensione ma di una vera e propria modificazione cognitiva che condiziona l’assetto emotivo affettivo del soggetto verso la propria attività e che, una volta verificatosi, necessita di un intervento terapeutico che consenta l’instaurarsi o il ripristino di un’adeguatezza del pensiero e del comportamento che lo aiutino a “ridefinire” la situazione penosa sperimentata. A tal fine, parafrasando Grazia Attili (1993), bisogna lavorare per reinterpretare i modelli mentali di attaccamento che, operando al di fuori della consapevolezza ed essendo di difficile accesso alla coscienza, richiedono un forte impegno per essere ristrutturati.
Ma quanto dipende dall’organizzazione e quanto dalla struttura di personalità? A questo proposito emerge una stretta correlazione fra i fattori predisponenti dell’individuo, innati o appresi, che colludono con il sistema fino ad agire come fattori scatenanti: bassa autostima, passività, mancanza di assertività, scarsa identità professionale, perfezionismo, idealismo, valori personali incongrui con la reale situazione di vita sono punti di vulnerabilità. E’ anche su questi fattori che bisogna focalizzare l’attenzione per gestire in modo ottimale le risorse umane e professionali in un clima organizzativo disposto a favorire e facilitare un sano ambiente lavorativo.
Produrre un bene di consumo è diverso dal produrre un servizio. Un cliente è diverso da un paziente ma mentre in un caso c’è in gioco la fornitura di un prodotto, con la sua qualità di materiali e di manifattura, nel secondo caso c’è in gioco qualcosa di più importante come lo è la salute e, se l’efficacia dell’operatore è compromessa, il danno è di gran lunga superiore. Come un chirurgo non può operare bene con un bisturi non affilato (Balint), così un professionista che non sia in buona forma è esposto al rischio di non fornire un buon intervento terapeutico. Nelle professioni d’aiuto, lo stress si connette con la presenza di maggiori errori medici, sia di diagnosi che di terapia e con difficoltà nella relazione con il paziente, poiché l’empatia e la sensibilità ridotte condizionano il rapporto fino alla comparsa di modalità ciniche di relazione fino anche ad a situazioni limite di colpevolizzazione del paziente se non si hanno i risultati desiderati. Gli operatori coinvolti in queste dinamiche, là dove perdurano oltre i sei mesi, sperimentano la comparsa di tensione, ansia e depressione e rischiano una cronicizzazione del disagio seguito talvolta da un allargamento della conflittualità anche nell’ambiente familiare con punte di escalation di aggressività che possono individuare uno spazio di espressione anche dentro la soglia di casa. Una ricerca della Makno in Italia, su 300 medici e 300 paramedici ha quantificato quanto sopra in percentuali verificabili.
Parlare e attuare la prevenzione è indispensabile; dovrebbe essere un imperativo morale di ogni organizzazione ma spesso la promozione di benessere non è sufficiente soprattutto dove la gestione delle risorse umane viene identificata e confusa con l’amministrazione del personale che è invece ben altra cosa. Prevenire il burnout significa occuparsi della gestione libidico-emotiva degli operatori, dei fattori personali, di quelli ambientali, familiari e sociali; dove non c’è un clima armonico, uno spazio d’appartenenza e dove la gestione delle conflittualità è lasciata al caso o rimossa, anziché impiegata nell’ottica di un confronto costruttivo, senza falsi ottimismi, è difficile evitare situazioni dannose.
L’obiettivo prioritario di ogni Azienda, compresa l’Azienda Sanità, ha da tener conto di una gestione del personale che abbia in considerazione l’evitare i danni da mal funzionamento in una prospettiva che valorizzi gli individui nella loro interezza sia per le competenze professionali ma anche per il benessere personale; fra l’Azienda e l’individuo c’è da considerare l’importanza dell’attivazione di una collaborazione congiunta che abbia un obiettivo dichiarato ed evidente da perseguire e che contempli una partecipazione in cui lo sparare alle spalle non serva veramente a nessuno. Ciò è da intendersi non come una delega implicita al professionista di potere decisionale ma come una partecipazione attiva con un potere contrattuale che consenta un lavoro di squadra. Spesso le situazioni di burnout sono più frequenti in quei sistemi lavorativi dove c’è una leadership forte, presa e mantenuta, da dirigenti che tengono insieme con la forza qualcosa che non è saputo mantenere con altre qualità: in realtà in queste situazioni il grosso problema è quello di una vera e propria mancanza di leadership.
E se è pur vero che il potere logora chi non ce l’ha, risposta scontata ad atteggiamenti invidiosi, è altrettanto vero che chi lo gestisce male si espone a sua volta a subire il feedback che deriva dal proprio operato e alla lunga non dà risultati edificanti per nessuno.
Nell’ambito di un progetto preventivo dei danni da stress le modalità di intervento sono quindi da indirizzarsi su due direzioni principali: verso la struttura organizzativa da un lato e verso l’operatore dall’altro. Fra i requisiti fondamentali della struttura ci deve essere il rispetto per l’operatore e per la sua professionalità, il rispetto delle norme contrattuali, un ambiente confortevole, ma soprattutto la capacità e la volontà di chiarire i propri obiettivi, di coinvolgere tutte le figure professionali nel rispetto dei ruoli, salvaguardando la salute psicofisica dei propri dipendenti e indirettamente dei propri utenti. Gli interventi nei confronti degli operatori sono più difficili da gestire; i tempi sono spesso più lunghi perché ci si confronta con diverse strutture di personalità. In questo ambito sono essenziali le strategie di supervisione permanente e gli interventi sulla motivazione e sull’autostima. A questo scopo uno dei metodi collaudati e più efficaci è il lavoro fatto con i Gruppi Balint. Là dove questa metodologia di lavoro trova spazio d’accoglienza con serietà e costanza, il rapporto medico-paziente e di conseguenza la compliance, ovvero l’adesione dei pazienti alle terapie indicate, risulta più seguita e maggiori sono i risultati terapeutici.
Quando l’Azienda e il professionista riescono a stringere un rapporto di fedeltà basato sulla trasparenza, tale da generare uno scambio di fiducia reciproca finalizzato al raggiungimento degli obiettivi attraverso la collaborazione, si può finalmente dire di avere un obiettivo comune e ciò, come in ogni rapporto che voglia vivere e crescere, è l’elemento costitutivo..
Riferendoci all’iceberg organizzativo che suggerisce il Dr. Anton Obholzer della Tavistoch Clinic di Londra, dobbiamo considerare che anche nel lavoro con le Aziende abbiamo a che fare con le componenti conscia ed una inconscia di un sistema e che ai meccanismi operativi si affiancano e si intersecano gli atteggiamenti e l’ideologia delle persone.
Spesso, ma molto meno di qualche anno fa, i giochi di triangolazioni che hanno luogo in certi posti di lavoro anziché assumere una valenza confermante ne assumono una disconfermante sia verso i colleghi professionisti che verso i pazienti.
Dove non è riconosciuta l’importanza di un linguaggio comune né della necessità di comunicare, ma ha la meglio solo il bisogno di prevalere sull’altro si riattivano, spesso in maniera collusiva con la patologia o con la situazione trattata, relazioni che portano a mancare l’obiettivo salute e ad innescare escalation distruttive che invece dobbiamo imparare a decodificare.
E così sono molti i personaggi in cerca di spazio e di tempo anche nell’Azienda Sanità che potrebbero trarre beneficio da occasioni di incontro e di discussioni chiarificatrici dove poter esprimere, contenere ed elaborare eventuali difficoltà sul piano della relazione e occasione per trovare un apprendimento emotivo utile per un diverso approccio. Lo scollamento fra pensare ed agire, se non viene elaborato, anziché produrre benessere alimenta frustrazioni incongrue ed insoddisfazioni incompatibili con un buon funzionamento. Nella sanità non si tratta di far diventare i medici o i paramedici degli psicologi, né di inserirli o di sottoporli ad analisi di gruppo, ma si tratta di dare la possibilità per acquisire quelle conoscenze emotive, di cui la formazione universitaria è carente e che per dirla con Balint, possa consentire al medico di essere lui stesso medicina. Accanto alle competenze mediche e specialistiche riuscire a collocare una capacità di ascolto di tipo empatico verso chi gli si rivolge con fiducia può essere un elemento posologico e diagnostico in più. Troppo spesso il pregiudizio che il medico deve rimanere lontano e distaccato è solo un giudizio a priori di chi temendo di mal gestire una relazione d’aiuto o non si dà o si dà troppo. Nel lavorare per acquisire competenze emotive partendo dalla discussione in gruppo di un caso clinico è possibile acquisire, nel qui ed ora del racconto di una relazione, competenza emotiva che permetta una nuova modalità di porsi nel rapporto con il paziente, non in maniera teorica sulle relazioni o sulla loro idealizzazione di “come dovrebbero essere” ma riconoscendo il vissuto emotivo sottostante. E’ possibile imparare a capire perché una certa persona è vissuta come “pesante” e cosa c’è dietro al malessere che un’altra continua a lamentare facendo sentire un forte senso d’impotenza, di rabbia, di noia fino a sentimenti molto più complessi di rabbia verso qualcuno. Il paziente più difficile spesso non è quello più grave ma quello con cui non si riesce ad instaurare una relazione. Tutto ciò se viene approfondito ed elaborato in un contesto attento e disponibile al confronto, che consenta anche una restituzione, permette di gran lunga la crescita e l’efficacia professionale.
Chi, come, quando, che cosa è opportuno che intervenga nella gestione delle risorse umane? Una leadership e un team equilibrati sono quanto di più auspicabile per dar luogo ad un coaching ed ad un empowerment efficaci ed efficienti che abbiano garanzie di saper gestire i conflitti e sappiano negoziare in un’ottica che sappia dosare l’egocentrismo esibizionista di molti moderatori che guardano più ad essere accettati per la loro tolleranza che per le reali capacità dialettiche e dialogiche della gestione. Capacità che consentano di esprimere e far esprimere il potere contrattuale del singolo per finalità e obiettivi condivisi, pianificati e predisposti in un ordine di priorità.
Là dove tutto questo manca o è volutamente sottovalutato ha luogo un grande tradimento.
Gli amanti (1928), l’opera di Renè Magritte, artista surrealista che gioca con gli spostamenti del senso, utilizzando sia accostamenti inconsueti sia deformazioni irreali, si presta bene a rendere l’idea di quanto poco senso ci sia in certe relazioni.
La distanza che separa la realtà dalla sua rappresentazione, una costante nella pittura di questo artista belga, fra certe situazioni reali e come queste vengono rappresentate, offre la possibilità di cogliere l’analogia fra alcune realtà di vita e lavorative con l’immagine dei due protagonisti dal volto coperto. Alcuni professionisti possono suscitare una grande malinconia per la crudeltà imposta da certe situazioni lavorative, proprio come ai due personaggi dal volto coperto nel quadro di Magritte ai quali viene negata la potenzialità del gesto compiuto proprio mentre stanno compiendo un importante gesto affettivo come il baciarsi.
Ed il tradimento, pur essendo una dinamica di sviluppo e di crescita importantissima là dove è attuato con la consapevolezza di lasciar soli per dare l’opportunità di capire da un possibile errore, se mal gestito, travolge e trascina dietro sé situazioni e persone e può divenire, implicitamente, causa di burnout a vari livelli fra cui quello lavorativo.
Si tratta sempre e comunque di un cambiamento di rotta sia che riguardi i rapporti sentimentali, affettivi, amicali che quelli lavorativi. Un cambiamento di direzione che talvolta è incomprensibile per il cambiamento che comporta alle norme stabilite e ai valori riconosciuti; non comprensibile al di fuori, ma che ha sempre una coerenza interna che se non riconosciuta ed elaborata può fare molti danni. Coerenza che risulta essere composta da ingredienti vari, alcuni di prima qualità, altri volutamente scadenti o avariati fra i quali, da un lato, un giusto desiderio di riuscire e di far bene e dall’altro la paura, la noia, la vulnerabilità ad illudersi, le ambivalenze e il protagonismo. L’importante è, nel tradire, “essere fedeli a se stessi”; spesso una conflittualità interna fra bisogni e desideri consci e quelli inconsci di chi tradisce fa invece seguire un percorso mentale di fedeltà ai propri valori e alle proprie convinzioni, o a quelle di un sistema, che porta a fare quello che sembra più giusto, nel momento che sembra più giusto, annullando completamente quello spazio e quel tempo mentale per il formarsi di risposte più congrue. E in un contesto anche lavorativo dove a fare da sfondo ci sono impulsi istintuali ecco che l’ambizione, la vendetta, la leggerezza, il bisogno di verificare la propria identità, sia professionale che talvolta sessuale, trovano il proscenio adatto. Quali gli attori? quali i contesti, le istigazioni, gli agiti di chi e di quale sistema? Questi sono elementi che non possono essere lasciati al caso, né mistificati.
Spesso il bisogno di arrivare di alcuni, quello di prevalere di altri, la presenza in un professionista di una competizione insana e di insicurezze interne legate al sé e nelle proprie capacità, portano all’attivazione di comportamenti e all’esplicarsi di agiti che non rispettano la reciprocità. Avvalendomi delle considerazioni della Arrigoni Scortecci (1987) che si è occupata di reazioni terapeutiche negative, proponendone una revisione del concetto (in Tradimento e paranoia, G.C.Zapparoli ,Bollati Boringhieri,1992), viene piuttosto da rilevare in molti casi la presenza di una dinamica simile a quella che si ripresenta nel trattamento dei pazienti paranoici dove “un intervento basato sull’analisi delle resistenze può far emergere una modalità distruttiva volta ad attaccare il buon rapporto stabilito come espressione di distruttività combinata con una forte componente invidiosa”.
Organizzazioni lavorative che presentano sintomi o malattie riconoscibili dalla presenza di questi segni clinici di tipo psicopatologico sono organizzazioni che non hanno ancora messo a punto l’utilizzo al meglio delle proprie risorse. Spesso si tratta di riconoscere l’importanza per un medico di saper essere anche manager di se stesso, di concepire la disponibilità di imparare a porre maggiore attenzione al proprio modo di operare soprattutto rispetto alla presenza di proprie difese versus figure del passato. L’importanza di questo riconoscimento, cosa certo né banale né semplice, evita l’insorgere di una sorta di staffetta, con caratteristiche transferali, ad un contesto di gruppo che riproponga vissuti analoghi. Quando si verifica ciò, tutto il contesto risente della mancanza di risposte adeguate che anziché favorire la crescita e il sano sviluppo aziendale e professionale, vanno a sabotare gli obiettivi dell’Azienda stessa per effetto della collusione. Tutto quello che viene fatto è impostato in maniera tale da non cambiare niente, fino a sacrificare così, sull’altare dell’orgoglio, o meglio dell’hybris, ogni miglioramento.
Concludendo possiamo dire che il burnout, se riconosciuto, è da intendersi come uno stimolo forte e un segnale importante per definire strategie di difesa dallo stress lavorativo. E’ uno spunto per riflettere sia sul sistema Azienda che sugli individui che ne prendono parte, stando attenti a riconoscere i rischi del mestiere per evitarli grazie ad una conoscenza delle dinamiche che sottendono alle relazioni e per ottimizzare le risorse disponibili. Il Noi formato da individui impegnati nella stessa attività, anche professionale, può implicare la condivisione di competenze, ritualità, obiettivi, segreti professionali; ci possono essere, come nei rapporti di coppia, lealtà particolari e settoriali (Boszormenyi – Nagy) ma questo non implica la condivisione di valori e sentimenti.
Discernere quali valori escludere, quali stili di vita comuni accettare, quali complicità affettive condividere o quali scelte ideologiche rispettare serve per impostare una collaborazione che non consenta identificazioni patologiche con l’insieme con cui ci si trova ad interagire delimitando, in tal modo, il rischio di dover entrare ed uscire da diversi ruoli rispondendo alle aspettative del gruppo piuttosto che ad un obiettivo. E su questi punti il lavoro di Bion, con l’indagine sulle dinamiche di gruppo e con i suoi assunti di base, diventa supporto indispensabile per un lavoro mirato al raggiungimento di una migliore qualità di vita e professionale. In quei contesti lavorativi dove questo avviene ed è integrato con una modalità operativa come quella proposta da Balint le cose funzionano, per dirla con Winnicott, sufficientemente bene.