Report carceri

POLIZIA PENITENZIARIA E QUOTIDIANITÀ
ALL’INTERNO DELLE CARCERI
“IL CASO TOSCANA”


A seguito della visita da parte del Senatore Patrizio La Pietra di tutti gli istituti di pena presenti sul
territorio della Regione Toscana, è stato redatto il seguente report, riepilogativo delle criticità
riscontrate e contenente alcune proposte di riforma del settore, maturate durante il dialogo con gli
operatori del settore.


PREMESSA
Attualmente sul tema della esecuzione penitenziaria si scontrano due diverse filosofie: c’è chi ritiene che debba
sempre e comunque prevalere il principio della certezza della pena e con la recrudescenza della condizione
carceraria (modello repressivo) e chi sostiene che la dignità della persona, anche se detenuta, rappresenti un
principio cardine del vivere democratico e solo restituendo alla persona la centralità dei diritti, si possa
seriamente pensare alla costruzione di una società più giusta e più libera in ottemperanza ai principi di
rieducazione inseriti in Costituzione.


La presente relazione, tuttavia, nasce con una finalità differente, quella di indicare una terza via tra quelle
prospettate, ponendo l’accento su elementi strutturali, lavoro quest’ultimo che deve principiare dalla
definizione ontologica del ruolo troppo spesso denigrato o sottovalutato della Polizia Penitenziaria e restituire
dignità ed attenzione ad un corpo troppo dimenticato dallo Stato.


Restando al di fuori del dibattito ideologico sulla natura repressiva o rieducativa della pena, questo lavoro ha il
precipuo intento di inquadrare in modo analitico e costruttivo il settore carcerario della Regione Toscana,
evidenziando le eccellenze e criticità delle strutture, il ruolo del corpo di Polizia Penitenziari ivi occupato, nonché
fornendo spunti di riforma.

continua…

Espion – Une anthropologie historique du secret d’Etat contemporain

Alain Dewerpe – (Edizioni Gallimard, Parigi 1994)

L’opera costituisce un pregevole studio monografico dedicato alla figura della spia, cui l’Autore si compiace letterariamente di dare una configurazione filosofico-letteraria di tipo antropologico. Il risultato della colta indagine, che procede strettamente congiunta a un discorso storico-politico, è di indubbio interesse e fascino, come del resto il percorso intero seguito dall’Autore, che mostra di sapersi muovere con grande disinvoltura in un mondo spesso intessuto di prassi come quello dello spionaggio.

La scrittura fa ricorso ad un linguaggio raffinato, forse di non sempre facile lettura, la narrazione è corredata da una serie numerosissima di citazioni, il ricchissimo apparato bibliografico-documentario, certamente frutto di un lavoro capillare e puntiglioso, costituisce un ulteriore, pregevole merito di questo saggio che si rivolge forse più allo specialista che ad un largo pubblico che si muoverebbe con difficoltà tra le pagine del libro.

La lettura offre un intersecarsi continuo di riflessioni sulla figura della spia, il suo mestiere, i suoi rapporti con la morale pubblica e privata e indubbiamente l’affascinante viaggio alla scoperta di questo particolare universo costituisce ricco ed utile materiale di discussione e studio.

Organizzato sistematicamente in una introduzione dal titolo significativo “Il grande gioco” e in quattro grandi sezioni “Arcana Imperii”, “L’équipe mystérieuse”, “La lumière de l’occulte”, “L’homme clandestin”, a loro volta suddivise in capitoli, il lavoro si snoda attraverso un intrecciarsi progressivo di definizioni, riflessioni, citazioni sempre stimolanti e lucide anche se difficilmente riassumibili.

Nell’itinerario percorso dall’autore la ricerca storica si coniuga all’indagine antropologica e il libro si rivela quindi come un contributo importante e ricco di stimoli per una rivisitazione del mondo dello spionaggio e dei problemi innumerevoli ad esso legati, esplorati con attenzione ed efficacia e combinati in modo intelligente e nuovo.

Fonte: gnosis.aisi.gov.it

I seminari formativi di CAFISC

Cafisc

Idea e promuove” Tre Appuntamenti seminariali

Promossi da CAFISC

Tenuti dalla Dr.sa Al. Tallarita PhD Criminolologa, Antropologa, Scrittrice, Artista. Presidente Cafisc. Direttore PCAPolitical.

Ed altri ospiti : avvocato, giornalista, psicologo, esperto di sicurezza.

Tematiche dei tre seminari:

-La situazione femminile nelle carceri

-I giovani e la dipendenza da social

-Cyber bullismo e istigazione al suicidio “

I seminari sono aperti a tutti.

Le date saranno comunicate agli iscritti per email con il link a cui collegarsi per seguirli.

Sezioni di novembre , dicembre , gennaio.

Per informazioni e Iscrizioni scrivere a: info@cafisc.it

Lasciando nome cognome e contatti numero e email Interesse ai tre seminari o a ciascuno.

Verrà rilasciato un attestato di partecipazione per gli usi consentiti dalla legge.

I 6 tratti principali della personalità sociopatica rivelati da un esperto dei disturbi del comportamento

Come riconoscere un sociopatico? David J. Lieberman, ricercatore nel campo comportamentale e autore di un nuovo libro sull’argomento, ha spiegato quali sono le caratteristiche più comuni e come gestire il disturbo antisociale della personalità in una relazione

Riconoscere un individuo che soffre di sociopatia, termine che indica il disturbo antisociale di personalità, può essere molto più complicato che riconoscere uno psicopatico. Lo sostiene lo psicoterapeuta David J. Lieberman, ricercatore nel campo comportamentale e delle relazioni interpersonali e autore del libro Mindreader: The New Science of Deciphering What People Really Think, What They Really Want, and Who They Really Are, che affronta l’argomento in un articolo pubblicato su CNBC.

Secondo Lieberman, che non solo ha trascorso gran parte della sua carriera studiando i disturbi della personalità, ma ha anche addestrato il personale delle forze armate statunitensi, nell’FBI e nella CIA, i sociopatici possono distruggere la vita di una persona e sono molto più difficili da individuare rispetto a uno psicopatico. Perché, mentre quest’ultimo tende a essere più manipolatore e riduce al minimo il rischio nelle attività criminali, il sociopatico è in genere più irregolare e incline alla rabbia e, di conseguenza, più pericoloso.

Sono sei, in particolare, i tratti caratteriali più comuni che, a detta di Lieberman, definiscono un sociopatico.

difficoltà a calibrare la sua gestione delle impressioni che si danno.Come gestire il disturbo antisociale della personalità in una relazioneRiconoscere un soggetto con disturbo antisociale di personalità è complicato.

Gli indicatori di cui sopra possono essere utili, ma difficilmente sono definitivi. Se ci si trova in ​​una relazione con un sociopatico, Lieberman suggerisce alcuni comportamenti che possono rivelarsi utili per gestire in linea generale la situazione, ricordando tuttavia l’importanza di prendere le distanze. Non sempre possiamo cambiare il comportamento di qualcuno, ma è possibile trovare il modo per stabilire dei confini e farcela, poiché il nostro benessere emotivo è indissolubilmente legato alla qualità delle nostre relazioni. Ecco quindi i tre passi fondamentali da adottare se si vive una relazione con una persona affetta da disturbo antisociale della personalità:

1.Evita di essere in disaccordo con lui pubblicamente: il senso di umiliazione e qualsiasi parola o azione che possa farli vergognare incide molto in profondità e può innescare reazioni pericolose.

2.Non accusarlo direttamente di essere sociopatico: lavora lentamente per disimpegnarti dalla relazione.

3.Avere un sociopatico nella propria vita può essere molto impegnativo e alienante, una buona soluzione è vedere un terapeuta o unirsi a un gruppo di supporto. Avere qualcuno con cui parlare può essere molto utile.

fonte:vanityfair.it, A Politi

Bullismo e violenza di gruppo

Spesso aggrediscono per il gusto di far male, di umiliare, per rimarcare una superiorità. Sottrarre un oggetto non è tanto una rapina fine a sé stessa, ma un modo per punire, spogliando la vittima dei suoi beni.

Le ragazzine sono talvolta più violente dei coetanei maschi perché hanno un modo di attaccare sofisticato, usano l’arma psicologica, puntano a colpire il lato fragile». Andreana Pettrone è una psicologa specializzata in psicoterapia sistemica relazionale. Fa parte del pool di medici che partecipano al progetto Informa a Napoli: con un camper fanno la spola davanti a tre istituti tecnici di Napoli che abbracciano una vasta area urbana.

«È un errore pensare che la violenza sia solo nei ceti più disagiati, che si sviluppi in famiglie che vivono in condizioni di marginalità sociale. L’aggressività unita alla spavalderia la troviamo anche tra i ragazzi benestanti». Pettrone dice che il fenomeno più dilagante è quello delle gang rosa: «Sono gruppetti di adolescenti che iniziano con piccoli atti di bullismo e poi in un crescendo di violenza, organizzano veri e propri raid contro loro coetanee.

Di solito agiscono in branchi tutti al femminile. I pretesti sono i più disparati: da ritorsioni sentimentali, alla punizione per una presunta maldicenza o semplicemente il gusto di umiliare chi è isolata, chi non riconoscono come una loro pari».

Secondo la psicologa vale molto l’omologazione fisica: «Chi non condivide un look, un atteggiamento dominante, è esclusa e bullizzata». Le frasi che ricorrono spesso a spiegare gli attacchi violenti – «non risparmiano alla vittima calci, pugni, graffi, sputi» – sono: «Meritava solo di essere picchiata» e «se l’è andata a cercare». Ma se poi viene chiesto loro di dare una spiegazione ulteriore, «non sanno cosa dire, c’è un vuoto linguistico disarmante», spiega Pettrone.

A differenza dei coetanei maschi, le ragazze usano con compiacimento narcisistico i video che mettono sulle reti sociali. «Si compiacciono non solo di aver umiliato la vittima, ma anche di avere un riconoscimento pubblico, tramite i like, delle loro bravate. Cercano spesso una platea maschile come a dimostrare di essere più dure degli uomini. Il piacere maggiore lo traggono dal consenso dei coetanei maschi. Si scambiano tra loro nelle chat i commenti e li rilanciano alla ricerca di una approvazione più ampia possibile».

Le modalità di aggressione, dice la psicologa, sono ripetitive. «Circondano la vittima, che di solito ha l’apparenza debole. L’aggrediscono e la filmano. L’obiettivo è totalizzare più like possibili sui social. La loro speranza è che i video diventino virali». Talvolta si formano gang miste. «Le ragazzine vengono accettate perché fidanzate di uno del branco, c’è una sorta di iniziazione sessuale. Ma una volta entrate nel gruppo tendono in breve tempo a uscirne per creare una loro gang. Mentre tra i maschi la gerarchia è più marcata, tra le femmine è sfumata, sono quasi tutte sullo stesso piano, non ci sono leader.

Sono sfacciate, audaci e la maggior parte abituate alla violenza in famiglia, per loro l’aggressività è naturale. Quelle che vengono da famiglie benestanti, spesso emulano i video». E la reazione dei ragazzi? Pettrone commenta che «tendono a minimizzare gli atteggiamenti violenti delle coetanee, a sminuirne il valore perché si sentono in competizione e in un certo senso le temono. Talvolta sono divertiti dalla tipologia delle ragazze cattive e questo non fa che accrescere il loro compiacimento.

Si sentono al centro dell’attenzione maschile e la loro smania di protagonismo è soddisfatta.Fanno a gara sul social Tiktok per le bravate. Acquisiscono una parità distorta nella violenza. Imitano molto le eroine dei film che hanno tratti mascolini e ostentano forza e aggressività». Pettrone, raccogliendo le esperienze dei ragazzi, ha rilevato che ci sono videogiochi e film diventati modelli «cult» di violenza. Come il Gta, in cui vince chi ruba e violenta le donne.

È vietato ai minori ma dilaga proprio tra di loro. «Lo spaccio di droga, lo sfruttamento della prostituzione e l’incitamento alla violenza non dovrebbero costituire la principale trama di un videogioco per adolescenti. Eppure alcuni di questi videogiochi che si basano proprio su una serie di attività criminali finalizzate a conseguire i punti sono molto vendute tra i giovani», spiega la psicologa.

Più si spara, più si uccide e più si sale nella graduatoria. La classifica si scala facilmente se tra le vittime ci sono i poliziotti. In ragazzi già predisposti all’aggressività, film e giochi forniscono modelli, lanciano messaggi negativi che trovano terreno fertile tra le baby gang». Nel camper del progetto Informa arrivano anche i genitori. Pettrone sottolinea che tali fenomeni di violenza di gruppo sono radicati soprattutto lì dove le famiglie sono assenti: «I genitori non sanno più mettere un limite, stabilire regole.

Il che consente di scrollarsi di dosso le responsabilità. C’è la cultura dell’adolescente che deve essere libero. Così accade che difendono i figli anche di fronte ad atti gravi. Cercano di addossare la colpa all’esterno, agli insegnanti, agli amici».

Fonte: L.D.P. per “la Verità”

Legami tra cartografia e l’intelligence

Fitti legami intrecciano la cartografia con l’intelligence.

Non è un caso, infatti, che l’ulissidea vocazione dell’uomo a sondare e superare i confini della conoscenza abbia animato gli esploratori di mare e di terra al pari degli agenti segreti. Essi si ritrovano in una narrazione avventurosa che ancora oggi, in termini diversi ma non meno affascinanti, li pone ai confini delle colonne d’Ercole della conoscenza.

Dopo il tradizionale appuntamento con Sergio Romano, che offre spunti di riflessione su fattori competitivi e criticità legate alla leadership americana, da cui dipende il riposizionamento delle grandi potenze sullo scacchiere del mondo, Michele Castelnovi presenta il profilo cinquecentesco di Giovanni da Verrazzano in cui si colgono i segni dell’ibridazione tra scienza e spionaggio, sia statuale che lobbistico-finanziario, come dimostrano le eresie cartografiche funzionali a partigiane posizioni politiche. È un’intelligence pronta a cogliere le sfide della modernità – in una visione olistica del controllo geografico, geopolitico e sociale – quella che Alessandro Guerra rievoca ricordando, con la voce di Carlo Ginzburg, la necessaria vocazione predatoria umana a «fiutare, interpretare, classificare tracce infinitesimali come fili di bava».

L’emancipazione dello statuto della spia al servizio di un’idea di Stato, indotta dalla rivoluzione francese, ha profondamente mutato modelli e fini informativi dell’epoca e non averne compreso l’impatto internazionale più che interno – secondo il saggio di Federico Moro – è uno dei motivi del definitivo crollo della Serenissima a fine Settecento.

Nell’accelerazione della storia, la cartografia diventa spazio privilegiato di studio e di confronto politico e molti, che a essa si dedicano, svolgono un ruolo significativo anche sul piano informativo; esemplari i casi dell’apertura del Giappone all’Occidente, nella seconda metà dell’Ottocento (Philip Roudanovski) e del Grande Gioco nell’Asia centrale, in cui il confronto anglo-russo fa emergere l’ambiguo intrico di fervore scientifico, spirito d’avventura, spionaggio e patriottismo (Dario Citati). Non è un caso che anche i manuali di istruzione scientifica per i viaggiatori a cavallo del XX secolo – tra cui spiccano autori italiani e tedeschi – offrano spunti d’intelligence (Michele Castelnovi) e rappresentino occasioni di approfondimento per la conoscenza dei contesti.

La cartografia diventa sintesi e strumento per fini militari, logistici o politici, come attestano le esperienze scientifiche e irredentiste di Cesare Battisti (Matteo Marconi); le missioni segrete delle “navi civetta” antisommergibile nell’Egeo e nel Canale d’Otranto durante il Primo conflitto mondiale (Claudio Rizza); l’intensa attività in Medio Oriente della “terribile archeologa” Gertrude Bell – creatrice dello Stato iracheno e agente dell’Arab Bureau, istituito al Cairo dall’Intelligence Service – a riprova di come lo spionaggio sia arte comprensiva di molte altre (Marco Ventura).

A seguire, Gianluca Pastori approfondisce il ruolo delle missioni archeologiche e della diplomazia culturale a sostegno dell’attività di spionaggio e di promozione degli interessi italiani in Medio Oriente tra le due guerre; mentre Giacomo Pace Gravina consegna al lettore la memoria dell’archeologo Biagio Pace che, grazie alla sua profonda conoscenza dello spazio greco-anatolico, contribuì allo sbarco italiano ad Adalia nel 1919 e osservò, durante l’occupazione bolscevica della Georgia del 1921, le conseguenze economiche e sociali del regime comunista. Interessanti sono anche i contributi sul versante della storia dell’intelligence. Enrico Silverio, attraverso la biografia di uno dei vertici degli apparati informativi della media età imperiale romana, restituisce inalterata la complessità delle dinamiche di potere e del ruolo degli agenti segreti dell’epoca. Gianluca Falanga dagli archivi della Stasi trae elementi di valutazione sulla vocazione sovietica, durante la Guerra fredda, a destabilizzare un’area all’interno del blocco occidentale, come testimonia il caso del terrorismo secessionista altoatesino.

Paolo Bertinetti passa poi in rassegna la galassia delle detective e spy stories confermando come il clamoroso successo, spesso contingente, veicoli interessi transitori e sovente non corrisponda al valore letterario delle opere. Carlo Bordoni propone quindi la prometeica visione della scienza e della tecnica, sempre più legate da un rapporto ambiguo, concorrente e competitivo, in cui l’attuale primazia della tecnologia sembra il frutto della perdita di valore e d’intermediazione dei poli della conoscenza.

Enrica Simonetti, infine, svela la magia di alcune lingue minori rinvenibili sul territorio nazionale che rivelano di custodirne i valori tradizionali e la natura plurale da preservare. Le consuete rubriche si affidano ai contributi di Roberto Ganganelli per la numismatica sulla necessità, sin dall’antichità, di batter moneta anche durante i periodi di assedio; di Elisa Battistini sull’intreccio tra storia, realtà e rappresentazione cinematografica relativa alla morte di Osama Bin Laden; di Melanton per l’humour sulla sofisticazione semantica dell’agente segreto “Sapiens Sapiens”.

Fonte: AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA gnosis.aisi.gov.it

Sinone. La spia ‘dietro’ al cavallo di Troia

La storia del cavallo di Troia è indubbiamente una delle prime spy-story conosciute. Meno conosciuto è, invece, il nome della spia che mise in piedi l’inganno: Sinone.Sinone è l’antesignano della spia di guerra, il protagonista di un capolavoro di spionaggio divenuto un modello. Mettendo sé stesso al centro di un finto complotto, che sarebbe stato ordito contro di lui dai suoi stessi compagni, riesce astutamente a farsi accogliere dai nemici. Recitando la parte del falso disertore e inventando una storia con fatti e persone reali, riesce ad accreditarsi come attendibile nonostante i passaggi poco logici del suo discorso, oscillanti tra incertezze e ambiguità, e distogliendo continuamente l’attenzione dei personaggi coinvolti dal vero focus della vicenda.

Del suo operato Virgilio fornisce una descrizione nel secondo libro dell’Eneide, dove fa narrare a Enea le ultime ore della città di Troia. Siamo nel XII secolo A.C. circa e sono passati dieci anni ormai dall’inizio della guerra e i greci non riescono a espugnare la città. Fingono di ritirarsi con le navi, ma in realtà si nascondono dietro un’isola, di fronte alla piana di Troia. Hanno lasciato dietro di loro un enorme cavallo di legno con all’interno, nascosti, alcuni valorosi guerrieri. I troiani scorgono l’artefatto e sono indecisi su cosa farne. Tra la folla spunta Laocoonte il quale, nel tentativo di dissuadere la sua gente dall’accettare il cavallo, pronuncia una frase divenuta poi proverbiale anche nel mondo dell’intelligence: «timeo Danaos et dona ferentes», letteralmente «temo i greci anche quando portano doni». In parole più semplici, non fidarti mai dei nemici, anche quando appaiono benevoli.

L’ingresso della spia nella vicenda e il pathos narrativo

È a questo punto che compare sulla scena Sinone. Egli si è fatto catturare da alcuni pastori e, con le mani ancora legate dietro la schiena, lascia che la folla lo insulti, indossando subito i panni della vittima. Si finge perseguitato dai compagni greci per essere rimasto fedele al suo padrone Palamede, falsamente descritto come contrario alla guerra contro Troia. Ulisse, saputa di questa sua fedeltà, gli avrebbe teso un inganno. Avrebbe imposto all’indovino di fare il nome di Sinone come vittima sacrificale di un rito che avrebbe dovuto placare i venti per consentire il rientro in patria alle navi greche in ritirata.

Facendo leva sul desiderio di pace dei troiani, Sinone riesce ad attirare la loro simpatia con un commovente racconto accompagnato da finte lacrime. Abbassata la guardia, e così disarmati, i troiani placano il loro rancore nei confronti del greco. Egli si presenta come vittima di un’ingiustizia, uno sventurato che il destino ha reso sì infelice, ma fedele e mai disonesto o bugiardo. Non appare come un vigliacco traditore in fuga, una condizione che avrebbe potuto insospettire i suoi interlocutori. I troiani, infatti, hanno ben conosciuto la sciagura durante i dieci anni di assedio e, per questo, sono disposti a comprendere quella altrui. Il racconto di Sinone si colora della disperazione per la vendetta che i suoi infidi compagni greci, una volta ritornati in patria, avrebbero perpetrato nei confronti dei suoi familiari. Riesce quindi a far apparire la sua uccisione come gradita ai greci accomunando, così, il suo destino a quello degli stessi troiani. Ed è a questo punto che chiede accoglienza presso Troia.Virgilio, dimostra di essere un fine conoscitore di tecniche di interrogatorio e così, lì dove sarebbe rischioso aggiungere particolari nel discorso, sorvola. Ad esempio quando Sinone racconta la notte passata all’addiaccio dopo il ritiro dei greci, non chiarisce perché la partenza sia avvenuta comunque senza il previsto sacrificio umano, ma cambia rapidamente argomento. In altri casi fa interrompere la narrazione di Sinone con una supplica per distrarre l’attenzione da una narrazione poco lineare. Oppure, nonostante il maestoso cavallo di legno sia costantemente presente sulla scena, nella narrazione viene nominato solo di sfuggita allontanando, così, il sospetto che la finta cattura possa essere simulata al solo scopo di introdurre il cavallo nella città.Il capolavoro della deception.

La narrazione del cavallo di Troia nelle parole di Sinone

La preghiera finale di Sinone per aver salva la vita viene quindi accolta e in cambio gli viene chiesto di spiegare il significato di quel cavallo. Sinone promette di svelarne il segreto e, per aumentarne l’importanza, impegna i troiani a mantenere la promessa di accoglierlo tra le mura della loro città. Inizia così un altro capolavoro di arguzia e sottigliezza. Nelle parole di Sinone, il cavallo sarebbe stato costruito per rimediare al furto del Palladio, una statua posta sulla rocca di Troia a protezione della città. Con una dovizia di particolari non verificabili, Sinone racconta delle sventure che questa ruberia avrebbe portato nell’accampamento greco facendo, così, presagire la sconfitta in guerra. Il cavallo, quindi, è stato costruito per rimediare al sacrilegio compiuto e alle nefaste conseguenze. E aggiunge un particolare. Sarebbe stato appositamente costruito più alto delle porte di accesso a Troia per evitare che i troiani possano introdurlo nella città, guadagnandosene i favori. I ‘poteri’ del cavallo, infatti, avrebbero permesso loro di muovere guerra ai greci oramai in fuga.

I troiani ispirati dall’abile discorso di Sinone, accecati dalla voglia di rivalsa che questi era riuscito a suscitare, decidono di aprire una breccia nella cinta delle mura della città e introdurvi il cavallo. Il piano è poi noto. Col favore della notte, Sinone, dopo aver ricevuto il segnale luminoso dalle navi greche, apre il ventre del cavallo e libera i compagni che spalancano le porte all’esercito greco che metterà a ferro e fuoco la città.

Sinone, cugino e amico di infanzia di Ulisse, seguirà quest’ultimo nel suo viaggio di ritorno morendo però nel porto di Messina, prima di poter giungere a Itaca. Le sue capacità di inganno e manipolazione, tanto celebrate dai suoi compatrioti, convinceranno Dante Alighieri a ‘condannarlo’ all’inferno tra i falsificatori di persona, attribuendo le sue doti alla malizia e alla genialità fraudolenta. Il ‘triste’ destino di una spia

Fonte: sicurezzanazionale.gov.it

Disturbi dell’Umore

La depressione altro non è che uno stato in cui l’individuo vive in totale assenza di speranza, speranza per sé e per il futuro, segnato dall’ineluttabile amarezza della vita. Già, perché la sofferenza è vissuta come qualcosa di ineluttabile, inevitabile, quasi come una caratteristica intrinseca della vita. Questo stato si verifica quando anche l’ultimo baluardo di fiducia viene a mancare.

Con questa introduzione, oggi non voglio parlare di depressione maggiore, cioè di quell’etichetta clinica che è accompagnata da determinati criteri diagnostici. Oggi mi preme parlare di un tipo di depressione nascosta, silente, che accompagna molti di noi e che, purtroppo, non avendo alcuna definizione diagnostica, troppo spesso passa inosservata.

Il risultato? La persona si trascina senza vivere con pienezza la sua vita, senza mai conoscere fiducia e comprensione. In effetti se ci si soffermiamo a rifletterci, come potrebbero essere compresi nella loro sofferenza se nessuno ne parla? Se nessuno dà una spiegazione a quel dolore. Ecco che quelle persone finiranno per convincersi di essere loro inadatte alla vita. Niente di più sbagliato.Imparare a soffrire, un insegnamento difficile da dimenticare.

Alcune persone si muovono nella vita già sconfitte, come se avessero bisogno solo di sofferenza, abbandono e quanto di peggio possano provare. Questo accade perché, nella loro storia personale, non hanno mai conosciuto una reale spensieratezza. Sulle loro spalle, fin dall’infanzia, è sempre gravato un peso enorme: la responsabilità di una persona cara e/o la vergogna o la colpa per un torto subito di cui non hanno alcuna responsabilità. Queste persone non tentano neanche di conquistarsi la loro fetta di felicità perché ormai, è già andata! È stata perduta tanti anni prima e, come premesso, manca la speranza. Osservandole da lontano, non sembrano davvero depresse: si alzano, vanno a lavoro, sono efficienti, propongono soluzioni, si confrontano… Non scaricano la loro frustrazione sugli altri e all’apparenza sembrano forti o insensibili, tutto questo solo perché hanno imparato precocemente a mettere un tappo a certe manifestazioni.Il dolore ha un potere pazzesco. Quando una persona, anzi, un bambino, deve fare i conti con la sofferenza per lungo tempo, senza alcuna consapevolezza e supporto concreto, quel bambino finirà per normalizzare la sofferenza, finirà per renderla parte del suo presente, sempre. Stare male diventa una costante naturale della vita. Chi non ha conosciuto la leggerezza dell’infanzia, solo difficilmente da adulto potrà costruirsi il suo benessere: nessuno gli ha mostrato come si fa. La verità è che, da adulti, tendiamo a ricostruirci una realtà che in qualche modo possa restituirci le emozioni vissute durante l’infanzia.

Beh, se quelle emozioni appesantiscono il cuore e parlano di assenze, omissioni, promesse infrante e fiducia tradita, è chiaro che la speranza inizierà ad affievolirsi fino a sparire.Quella fiducia perdutaSul dizionario «Oxford Language», la speranza è definita come «l’attesa fiduciosa di un evento gradito o favorevole». Alcune persone non hanno mai ricevuto un feedback positivo dall’ambiente esterno. Sono cresciute costantemente frustrate, puntualmente tradite nelle speranze e nei bisogni. Non bisogna aver vissuto traumi eclatanti per sviluppare questa forma depressiva di sottofondo. Modelli genitoriali inadeguati possono arrecare, inconsapevolmente, molti danni allo sviluppo psicoaffettivo del bambino, fino a distruggere quella che in psicologia è definita fiducia epistemica primaria.Nelle relazioni primarie (cioè nei primi legami che stringiamo da bambini con le figure genitoriale) impariamo se possiamo fidarci o meno del prossimo, impariamo a valutare l’altro come una spalla sulla quale poter contare o come qualcuno da cui difendersi. In modo riduzionistico, se i nostri bisogni di accettazione, di vicinanza, di benevolenza e di supporto sono stati soddisfatti in modo opportuno, vedremo nell’altro una risorsa. Al contrario, perderemo ogni speranza, l’apprendimento implicito e precoce è un secco: «nessuno può aiutarmi, devo (e dovrò!) arrangiarmi sempre da solo!» Oppure: «sono un peso! Sono talmente inaccettabile che neanche chi dovrebbe amarmi di più al mondo vuole prendersi cura di me!».

In termini pratici, se un giorno un bambino è spaventato dall’abbaiare di un cane e, nel genitore, non trova un rifugio sicuro ma trova parole sprezzanti del tipo: «smettila di frignare come una femminuccia! È solo un cane!». Quello seguente, il bambino piange perché si è sbucciato il ginocchio e invece di trovare rassicurazioni il genitore parte con un «te l’ho detto che non dovevi correre! Sei stupido, tu non mi ascolti!». Poi ancora, se fa i capricci, parte subito un «Se continui la mamma si arrabbia»… Un modello genitoriale svilente, che invalida costantemente tutte le manifestazioni emotive del bambino, giorno dopo giorno, eliminerà ogni forma di speranza. Il bambino non imparerà che, se ha paura, può contare sull’altro, anzi, imparerà che l’altro può essere altrettanto spaventoso. Non capirà che, se si fa male, può guarire e rialzarsi, anzi, apprenderà che non può, anzi, non deve sbagliare mai! Imparerà che le emozioni non vanno espresse perché queste innescano reazioni avverse.

Alla base di quella malinconia di sottofondo.

Alla base di tutta quella malinconia di sottofondo che ci portiamo dentro, c’è la fiducia violata di un bambino spaventato che non voleva altro che essere rassicurato. I bambini sono esseri emotivi, non razionali, hanno bisogno di rassicurazioni, attenzioni, ascolto empatico e vicinanza affettiva, non hanno bisogno di giocattoli costosi contornati da prediche e offese!

Abbiamo detto che chi sperimenta questa malinconia di sottofondo, talvolta appare molto forte, quasi invincibile. Allora come fare per capire queste persone? Vediamo insieme alcune frasi che possono essere un indicatore di un vissuto difficile, di una sofferenza di sottofondo.

Frasi tipiche delle persone depresse che non sembrano depresse.

Vediamo quali sono le frasi tipiche delle persone senza speranza e ti darò anche qualche suggerimento per rispondere. Se quella persona che ha perso ogni briciolo di fiducia sei tu, sappi che puoi ripetertele da solo. È vero, ognuno di noi ha bisogno di comprensione dall’esterno ma spesso e volentieri, la vera vicinanza di cui abbiamo bisogno è la nostra! Dobbiamo imparare a entrare in contatto con noi stessi e ascoltarci davvero. La sofferenza che ci portiamo dentro ci sta raccontando una storia che riguarda il nostro passato, oggi tocca a noi scrivere il nostro

«Tutte le storie sono destinate a finire»

Come rispondere a una persona cara: «ma perché, tu le hai provate davvero tutto? Le conosci tutte?»Come rispondere a se stessi: «penso questo solo a causa delle mie esperienze drammatiche, questo mio pensiero è legato più a vissuti emotivi che non a un processi riflessivi. Da oggi, voglio riflettere di più su me stesso e su come mi stanno condizionando i miei vissuti del passato.»«Tanto, tutto è inutile»Come rispondere a una persona cara: «io credo che ce la farai, so che tutto ti sembra nero, ma le cose belle accadono».

Cosa dire a se stessi: «cosa ho provato per cambiare questa situazione? Ho provato davvero tutte le strade o sono prevenuto?

I risultati dipendono solo da me? Io non posso cambiare le condotte altrui ma posso prenderne le distanze, posso costruire la mia isola felice perché la merito».

«Non valgo nulla»Come rispondere a una persona cara: «Beh, io ti voglio bene così come sei»Cosa dire a se stessi: «sento di non valere nulla perché una parte di me mi induce a sentirmi così. Ma «sentirsi» in un certo modo non significa «essere». Le emozioni che provo alterno fortemente le mie percezioni, piuttosto dovrei chiedermi, cosa mi ha fatto sentire così?»

«Ormai» – «Oramai è troppo tardi»

Come rispondere a una persona cara: «Pensaci un po’, se tu iniziassi oggi un corso di cucina tra tre anni potresti anche essere uno chef stellato! Non è mai troppo tardi se si hanno progetti, è la fretta di realizzare che ti tarpa le ali»Cosa dire a se stessi: «Troppo tardi rispetto a cosa? Non sto facendo alcuna competizione! A volte dimentico che sono io il padrone della mia vita, quindi li scandisco io i miei tempi. Posso proseguire a piccoli passi, posso fare pause, perdere tempo, allontanarmi dai miei obiettivi e poi tornarci…! Posso rilassarmi e poi proseguire a piccoli passi.»

«Vorrei tornare quello di prima»Come rispondere a una persona cara: «Va bene, allora cosa possiamo fare oggi per ritornare allo splendore di un tempo? Possiamo farlo insieme!».

Cosa dire a se stessi: «Le mie emozioni mi proiettano al passato, concentrandomi sul presente posso addirittura essere migliore di prima. Ogni giorno voglio dedicare un po’ di tempo a me stesso, cimentandomi in attività che piacciono. Voglio nutrire la mia identità, voglio finalmente prendermi davvero cura di me!». Riscrivi le Pagine della Tua Vita.

Ormai molti già lo conoscono, si tratta del mio libro bestseller: «Riscrivi le Pagine della Tua Vita». Se non lo hai ancora fatto, ti consiglio di leggerlo, lo trovi su amazon e in tutte le librerie. In ogni pagina, ti spiego come ridefinire la tua identità a partire dai tuoi vissuti del passato e dalle emozioni che provi oggi. Potrai finalmente concederti il lusso della politica dei piccoli passi, cioè riuscirai a migliorare la tua vita giorno per giorno, senza pretendere tutto e subito, in ogni capitolo, infatti, ci sono esercizi pratici e nozioni che possono aiutarti fin da subito a migliorare la qualità della tua vita a partire dalla relazione che hai con te stesso e con gli altri. Puoi ripartire ricostruendo quella fiducia perduta. C’è una persona che non dovrebbe deluderti mai: quella persona sei tu! Ricorda: anche tu meriti la tua fetta di felicità in questa vita, abbi il coraggio di allungare la mano per prenderla! È tua, ti spetta di diritto.

A.De Simone, psicologo esperto in neuropsicobiologia

Fonte: Psicoadvisor

L’educazione familiare tra assenteismo e accanimento

Se sul piano teorico l’accordo è comune nel concepire l’educazione come un processo di promozione e valorizzazione di tutte le sue facoltà, processo che il bambino non può compiere senza la guida dell’adulto, sul piano pratico emergono numerose difficoltà, di carattere sia personale che culturale.

Sul piano personale sembra ormai sufficientemente acquisita l’importanza della relazione di attaccamento tra madre e bambino in ordine alla positività e all’efficacia di tutte le altre relazioni, quindi a maggior ragione di quelle educative; ma approfondendo questa prima acquisizione (Bowlby, 1982), studi successivi hanno posto in evidenza come la qualità dell’attaccamento primario sia a sua volta strettamente correlato alla qualità dell’attaccamento che la madre ha vissuto a suo tempo, tanto che l’esperienza dell’attaccamento materno, rivisitato attraverso opportune tecniche, può giungere ad avere carattere predittivo sul successivo attaccamento che la donna riuscirà a stabilire con il proprio figlio (Crittenden, 1994).

Al di là, comunque, dei dati relativi alla storia personale della madre, è indubbio che il compito dell’educazione comporti complicazioni emotive, prodotte non solo dalla ricordata asimmetria, ma anche da un’ampia gamma di fattori, che vanno dall’accordo esistente nella coppia genitoriale sull’immagine di figlio, fino all’effettiva complessità della vita quotidiana della fami- glia, complessità che, rendendo spesso difficile la vita all’adulto, può provocargli reazioni incontrollate nei momenti in cui si rende necessaria l’applicazione delle regole.

Di qui il ricorso frequente alla “sberla”, alla minaccia di punizioni esagerate e comunque sproporzionate all’entità della “colpa” o alla possibilità di comprensione del bambino, il tutto suggerito non da un progetto educativo ma dalla possibilità momentanea dell’adulto di pazientare o meno e di comprendere o meno i momenti difficili del figlio.

Spesso poi, nei dialoghi tra coppie di genitori e addirittura nelle trasmissioni televisive o nei consigli ai genitori, il ricorso “moderato” alle mani viene considerato educativo, e in un certo senso peggiorativo è vero, in quanto educa con l’esempio il bambino a non elaborare sul piano del pensiero e della parola le proprie emozioni, inducendolo a comportamenti a sua volta violenti nei confronti dei coetanei e non di rado degli adulti stessi. La violenza dei bambini appartiene infatti alla categoria dei comportamenti appresi, quando non è espressione di profondi disagi relazionali (De Zulueta, 1999; Kindlon e Thompson, 1999).

Frequentemente i comportamenti esasperati dei genitori derivano non solo dalle loro oggettive difficoltà esistenziali, ma anche dal livello eccessivo di attese che la cultura familiare diffusa li induce a investire sui figli, giungendo a un non infrequente accanimento educativo, che li porta a riempire le gior- nate dei figli di insegnamenti programmati, impegnativi e costosi (nuoto, ballo, tennis, equitazione, lingua straniera…), inserendoli in una sorta di “catena di montaggio” quotidiana che i figli si trovano a subire senza trarne soddisfazione.

Al polo opposto dei comportamenti educativi eccessivamente impegnati- vi, quando non punitivi e minacciosi fino alla violenza, si trova il comporta- mento remissivo, assenteista, quello che induce l’adulto a concedere pur di non essere disturbato, ma anche qui con concessioni prive di soddisfazione per il bambino, perché accompagnate da messaggi di esasperata sopportazione.

Queste due diverse posizioni quasi sempre coesistono, creando nel bambi- no la confusione che tutti i comportamenti incoerenti provocano anche negli adulti, con l’aggravante che in questo caso la persona coinvolta in questi comportamenti non ha gli strumenti cognitivi ed espressivi per manifestare adeguatamente la confusione, e l’adulto può non rendersene conto, attribuendo a disturbi individuali quello che è invece il risultato di una relazione educativa non sufficientemente pensata. In termini clinici, questo comportamento incoerente viene definito “patologia delle cure”, una patologia che, se appare nella sua maggiore gravità in ambito medico, di fatto può invadere numerosi ambiti dell’esperienza educa- tiva (Montecchi, 2002).

Da: Prevenzione del disagio e dell’abuso all’infanzia , M. T. Pedrocco Biancardi*Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali

Tavolo Interistituzionale sul fenomeno della violenza sulle donne

DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA
UFFICIO DEL CAPO DEL DIPARTIMENTO
Ufficio Studi Ricerche Legislazione e Rapporti Internazionali

Abstract – L’Ufficio Studi del Dap ha partecipato ad alcuni tavoli della Task Force interministeriale sulla violenza di genere, coordinata dal Dipartimento per le PP.OO. della PCM, per elaborare il Piano straordinario previsto dalla cd legge sul femminicidio (art. 5 del DL 93/13 convertito nella L. 119/13). Ha contribuito quindi alla elaborazione delle LINEE GUIDA sulla valutazione del rischio ponendo l’attenzione sul modello interdisciplinare di osservazione scientifica della personalità previsto in ambito penitenziario. La enucleazione e la valutazione dei fattori di rischio, da parte degli autori, di commettere violenza verso le donne è un’attività necessaria per individuare le misure penali ed il trattamento più adeguato a prevenire la recidiva e assicurare così una tutela delle vittime davvero efficace e duratura. Le indicazioni proposte dal gruppo di lavoro si rivolgono a tutti gli operatori coinvolti sul territorio (forze di polizia, pronto soccorso, centri antiviolenza e per i maltrattanti, magistrati e servizi penitenziari) che dovranno coordinarsi e mettere in comune dati, saperi ed esperienze maturate sul campo. Si presenta qui un estratto dal documento finale 2014, poi recepito nel DPCM 7 luglio 2015 “Piano straordinario d’azione contro la violenza sessuale e di genere“, in particolare all’Allegato d) sulle Linee Guida.

LA VALUTAZIONE DEL RISCHIO NEL SISTEMA PENITENZIARIO

GRUPPO DI LAVORO PER LA REDAZIONE DELLE:
“LINEE GUIDA PER LA VALUTAZIONE DEI FATTORI DI  RISCHIO”


A fronte dei vincoli normativi riguardo al giudizio sulla capacità di intendere e volere e quindi sull’imputabilità giuridica dell’autore accertato o sospettato, nel sistema penale italiano e l’Ordinamento penitenziario[1]; formano un insieme organico di norme fondate sul principio costituzionale della funzione rieducativa della pena che prevedono, oltre ai diritti e doveri dei detenuti, l’organizzazione degli istituti, un complesso di attività di accertamento e valutazione delle caratteristiche della personalità dei soggetti condannati ed internati. Attività organizzate che coinvolgono la Magistratura di Sorveglianza e l’Amministrazione penitenziaria  (DAP) in due distinti momenti:

  1. per evidenziare uno degli elementi  necessari all’Autorità giudiziaria al fine di stabilire la pericolosità sociale del condannato e internato, deducibile anche dai “motivi a delinquere e dal carattere del reo” (artt. 133-comma 2,n.1  e  203  C.p.),  al fine di decidere sull’applicazione o meno delle misure di sicurezza e la loro eventuale proroga, con il procedimento di riesame della pericolosità a cura della Magistratura di Sorveglianza;
  2. come elemento dell’Osservazione scientifica della personalità (OSP), quale attività tipica condotta dagli operatori penitenziari, per rilevare fin dal primo ingresso i bisogni, le carenze fisiopsichiche e le altre cause di disadattamento sociale che hanno portato alla condotta criminale (art 13 O.p. e 27,28 e 29 R.d’E.) ;  sulla base di questi risultati viene formulato il  programma individualizzato di trattamento, con gli interventi, immediati e in itinere, più adeguati al recupero sociale e quindi alla prevenzione della recidiva e forniti i pareri e le osservazioni a supporto delle decisioni della Magistratura di Sorveglianza per la concessione dei benefici penitenziari (permessi, detenzione domiciliare, affidamento in prova, semilibertà ecc).

Per gli autori dei più gravi reati a sfondo sessuale (fra cui la violenza di gruppo art. 609-octies C.P.) l’O.P. prescrive, fra l’altro, almeno un anno di osservazione anche da parte degli esperti ex art. 80 (psicologi, criminologi) quale condicio sine qua non per poter accedere ai benefici. Se la vittima è minorenne l’autore può inoltre sottoporsi per almeno un anno ad un trattamento psicologico di recupero e sostegno.
L’OSP è condotta in equipe dal Gruppo di osservazione e trattamento (GOT) composta dagli operatori penitenziari (educatori, assistenti sociali, medici, esperti psicologi o criminologi, polizia penitenziaria ed altri che conoscono il detenuto es.  insegnanti, volontari ecc ), sulla base di un contatto diretto col detenuto in una relazione costruttiva. Si procede, ognuno secondo l’area di competenza, con  la raccolta sistematica e l’esame  di tutte le informazioni (giuridiche, familiari, sanitarie, psicologiche, sulla carriera criminale, situazione socio-familiare, lavorativa, istruzione, sul vissuto e le relazioni interpersonali dentro e fuori dal carcere, il comportamento auto lesivo, tossicodipendenza, ecc). Si segue quindi un approccio di tipo multifattoriale per arrivare ad una visione unitaria della persona espressa nella relazione di sintesi redatta dal GOT con la supervisione del direttore del carcere.
Nel sistema penale italiano, storicamente ancorato al fatto, ma attento ai contributi della Scuola positiva sulle tipologie di autore, tale approccio attraverso l’OSP consente, se non una illusoria esatta predizione della condotta criminale, la conoscenza approfondita degli aspetti della vita e della personalità dell’autore rilevanti che hanno influito sulla commissione del reato.
Le complesse dinamiche personologiche che investono i reati legati alla violenza di genere e la gravità della escalation esigono che il sistema penitenziario possa elaborare, recepire , sperimentare e fare affidamento anche  su strumenti e metodiche di assessment per la valutazione del rischio facilmente fruibili dai suoi operatori, in modo che la scelta del tipo di trattamento sia quella più adatta a favorire nel singolo caso gli interventi di recupero,  da intendere come sviluppo degli aspetti positivi della personalità e modifica del comportamento lesivo (consapevolezza del suo agito, auto-responsabilizzazione ed azioni risarcitorie della vittima) con la partecipazione attiva e non meramente utilitaristica dell’autore al progetto educativo.
Gli operatori penitenziari, grazie alla presa in carico e alla conoscenza diretta degli autori entrati nel circuito penale, possono mettere a frutto il tempo della pena e delle misure alternative o di comunità e svolgere quindi, dentro e fuori dal carcere, un ruolo importante nell’ambito del territorio per l’integrazione degli interventi, la condivisione delle informazioni (non ostative sotto il profilo giudiziario e di sicurezza) e dei risultati delle verifiche sul trattamento nella prospettiva di prevenire la ricaduta nel reato da parte del singolo autore. Inoltre, gli studi e le ricerche finora condotte sulla popolazione detenuta italiana con la collaborazione del DAP hanno rappresentato e rappresentano occasioni importanti anche ai fini della maggiore conoscenza del fenomeno,  per la validazione di strumenti scientifici e la sperimentazione di diversi approcci metodologici per la valutazione dei livelli di rischio[2] ; ed il perfezionamento di altri già sperimentati positivamente. 

Il  ruolo e le risorse professionali  dell’Amministrazione penitenziaria vanno  quindi orientati : 

  • attrezzando i suoi operatori, attraverso la formazione congiunta con gli altri destinatari  di Primo e Secondo Livello, di conoscenze e competenze specifiche sul fenomeno della violenza di genere e sugli strumenti scientifici convalidati e fruibili per la valutazione dei livelli di rischio di condotte violente, aggressive, anche a lungo termine, mettendo a frutto i risultati delle più acclarate ricerche scientifiche, criminologiche e sociologiche riguardo alla prevenzione della violenza di genere e nelle relazioni interpersonali;
  • sviluppando gli interventi sugli autori con la partecipazione anche della comunità esterna, in un approccio integrato con le reti del territorio istituzionali e non, e in particolare con i Centri di recupero per i maltrattanti;
  • favorendo gli studi e le ricerche scientifiche sulla popolazione detenuta dei sex offenders e sulla qualità della valutazione del rischio in collaborazione con le Università, le Forze dell’Ordine, i Servizi sanitari, gli Enti e Istituzioni, Associazioni e Organismi del territorio e la Comunità scientifica internazionale, e la sperimentazione di protocolli e metodiche convalidate, utili e fruibili, sia ai fini delle indagini investigative da parte delle FF.OO.  sia  per mettere a punto specifiche modalità di gestione e trattamento (risk management) ai fini del recupero di tali autori nella comune prospettiva di prevenirne la recidiva e quindi tutelare le vittime reali e potenziali.

Roma, 7 Luglio 2015

Redatto da Antonella Paloscia
   Dirigente Penitenziario

IL DIRETTORE DELL’UFFICIO
Roberta Palmisano

[1] Legge 26 luglio 1975, n. 354 “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” e il suo Regolamento d’Esecuzione (DPR 30 giugno 2000, n. 230). Tali norme, recepiscono le regole minime dell’ ONU e le regole penitenziarie europee sul trattamento dei detenuti

[2]Al riguardo si cita la ricerca S.O.Cr.A.Te.S. dell’Arma dei Carabinieri e del DAP con il prof. Caretti dell’Università di Palermo, sulla validazione in Italia della PCL-R, proseguito poi con i risultati positivi raggiunti in alcuni istituti con il progetto Stalking (prof. A. Baldry Università di Napoli 2) che ha utilizzato, fra gli altri, il metodo S.A.R.A. (per quest’ultimo si rinvia al Report conclusivo inviato al DPO nel 2011). Inoltre il DAP sta valutando, in collaborazione con l’Università di Sassari, l’adozione da parte degli UEPE (Uffici locali di esecuzione penale esterna) di un Modello di valutazione scientifica dei livelli di rischio di tenuta di comportamenti devianti per i soggetti che chiedono di essere ammessi ad una misura o sanzione alternativa alla detenzione o di comunità, in modo da adempiere a quanto previsto dalle Regole europee sul Probation (2010)1 ed uniformarsi alle realtà più avanzate presenti in Europa. Tale modello, comprensivo di item sia di natura sociale che psicologica, è stato elaborato nell’ambito dell’attività internazionale del DAP ispirandosi ampiamente soprattutto all’esperienza maturata da alcuni paesi europei (Regno Unito e Irlanda). Vedi anche alcune esperienze significative di trattamento intensificato per i sex offenders in carcere con la collaborazione del territorio (Carcere di Milano Bollate con il Centro di Mediazione Penale di Milano) anche dopo la scarcerazione. Altri progetti e ricerche condotti dal DAP, fra cui WOLF e For-Wolf sui rei pedofili (vedi a cura di L. Mariotti Culla, G.De Leo “Attendi al lupo”, ed. Giuffrè, Milano 2005), ed interventi specifici sul trattamento dei sex offenders, sono illustrati nella rivista ufficiale del DAP La rassegna penitenziaria e criminologica consultabile sul sito www.rassegnapenitenziaria.it e su www.Giustizia.it

Fonte: Ministero della Giustizia A.Paloscia report 2015