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Segnali che ti trascini ferite emotive del passato

Essere lasciati, perdere una persona molto cara, subire un torto da chi proprio non ci aspettavamo…. sono ferite invisibili che lasciano brutte cicatrici all’anima. Gli effetti di questi ricordi possono presentarsi automaticamente per il resto della vita, anche se inconsciamente. Ogni esperienza vissuta sia positiva che negativa diventa un elemento chiave del nostro mondo interiore, di conseguenza regola le nostre reazioni agli eventi che ci capitano.PubblicitàA volte esperienze passate possono aver avuto un forte impatto su di noi a livello inconsapevole e i ricordi immagazzinati nel nostro cervello, possono saltare fuori all’improvviso, al di fuori del nostro controllo e influenzare così il nostro modo di interpretare la realtà. Molti dei sentimenti e delle azioni che minano la nostra stabilità emotiva sono sintomi derivanti da questo sistema di ricordi che costituisce l’inconscio.Le ferite che ci impediscono di avanzareQuante volte ti sarà capitato di decidere razionalmente domani mi metto a dieta e giunto a domani ti sei abbuffato? Quante volte hai promesso a te stesso di smettere di arrivare in ritardo ai tuoi appuntamenti quotidiani e invece ti ritrovi a correre come un matto per strada? Quante volte ha giurato a te stesso di essere meno accondiscendente e invece puntualmente stai pronto ad accontentare chi non merita nemmeno le tue attenzioni? Una cosa è certa: c’è qualcosa dentro di te che non ti fa sentire pienamente soddisfatto!pubblicitàNon ti senti mai abbastanza, la tua stessa vita non è abbastanza, i tuoi risultati sul lavoro non sono abbastanza e c’è sempre quella sensazione che dovresti lavorare di più, impegnarti più duramente perché è così difficile trovare la vera soddisfazione! Eppure metti cura, cerchi di fare del tuo meglio, ti impegni per essere accettato, accolto, ben voluto.pubblicitàQuesto accade perché le credenze hanno una componente emotiva inconscia. Tradotto vuol dire che la maggior parte dei tuoi comportamenti sono il riflesso diretto delle tue paure, delle percezioni e dei valori generati da esperienze passate. Le tue credenze più profonde, i traumi e i condizionamenti limitanti che si sono fissati nell’inconscio creano la tua quotidianità!Siamo ciò che pensiamo di noi… anche se tutto avviene inconsciamenteC’è chi vuole essere innamorato, ma qualcosa dentro di lui glielo impedisce. C’è chi vuole perdonare, ma qualcosa dentro di lui si oppone al perdono. C’è chi vuole avere successo, ma qualcosa dentro, nel suo mondo interiore, non glielo permette. Le nostre ombre ci dominano, sono i nostri condizionamenti inconsci!PubblicitàQuesti modelli li facciamo inevitabilmente nostri perché sono nel nostro primo campo di esperienza. Pensiamo ad esempio alle idee che abbiamo sulle relazioni sentimentali a fronte di ciò che osserviamo nei nostri genitori e l’idea che abbiamo dei modelli genitoriali che possono essere applicabili, tutto a fronte delle esperienze che abbiamo vissuto e in parte dovuto alla personalità che va a fondersi con essi.I meccanismi principali sono quello di somiglianza e differenzaIo assumo un atteggiamento nei confronti della vita a fronte di una somiglianza o del tentativo di somiglianza rispetto a un modello che ritengo efficace o per differenza. Quest’ultimo significa che mi differenzio rispetto a un modello che invece trovo disfunzionale, per esempio se ho sempre visto nella relazione con i miei genitori un padre padrone quindi un uomo impositivo sulla figura femminile e conscio della sofferenza che questo modello porta con se allora sceglierò, per differenza, di essere un partner molto più presente, attento e protettivo nei confronti delle esigenze e dei bisogni della persona che ho accanto.Cerco quindi di differenziarmi dal modello che ho osservato durante la mia vita. Allo stesso modo posso invece assumere per somiglianza l’atteggiamento forte che mia mamma ha sempre mostrato in casa.Basandoci esclusivamente sulla base di somiglianza e differenza corriamo il rischio di non fare ciò che davvero vogliamo perché lo abbiamo scelto ma appunto per somiglianza o differenza. Le scelte fatte quindi risultano troppo in relazione a quello che ho vissuto per somiglianza o differenza e quindi in relazione all’esperienza diventano disfunzionali. Per esempio quando un genitore decide di essere molto presente nei confronti del figlio perché ha vissuto un’esperienza di lontananza dal genitore. In tal caso diventa disfunzionale quando questo genitore diventa troppo presente.pubblicitàCosa possiamo fare?Per non cadere negli schemi appresi è necessario essere consapevole ed elaborare i meccanismi che utilizzi per rapportarti con il mondo, i meccanismi di somiglianza e differenza chiedendoti se li stai mettendo in atto per scelta o solo per opposizione e se sono funzionali al tuo presente. Per riuscire a fare questo è necessaria molta consapevolezza e necessariamente partire dal chiedersi quali sono gli scenari in cui mi sono composto per somiglianza e quali per differenza.Il potere dell’introspezionePer questa ragione, se vuoi avere pieno controllo delle tue azioni non devi lavorare sulla sfera cosciente, come erroneamente si pensa, ma agire nell’inconscio. E come si fa? Operando lì dove si trovano le tue ombre, il tuo passato cristallizzato. Devi osservare le tue emozioni, i tuoi fastidi, le lamentele, i giudizi, e portarli in superficie.Ciò che si trova nascosto nel tuo mondo interiore ha potere su di te ma solo fino a quando rimane occultato nel buio. Quando invece viene illuminato dall’osservazione e dalla consapevolezza, allora il suo potere inizia a scemare; non sarai più in balìa dei tuoi condizionamenti inconsci. La tua percezione della realtà avrà una nuova dimensione: i tuoi pensieri e il tuo mondo interiore saranno in armonia con ciò che desideri davveroAffinché questo accada, devi avere il coraggio di guardarti dentro con onestà, apprendere a sostare nello spazio scomodo delle scoperte delle tue antiche ferite, e accettarle. Da quest’accettazione nasce una forza nuova, la paura del giudizio altrui lascerà spazio a una verità, autenticità, che solo chi può permettersi di essere se stesso fino in fondo conosce.pubblicitàProva quindi a fare un esercizio, fai un elenco su un foglio delle tue scelte, dei tuoi ruoli e chiediti se ti sei composto per somiglianza o differenza e da chi. Pensa anche se la tua posizione attuale l’hai scelta, se l’hai scelta in funzione del passato o in relazione al presente e come potresti modificarla per riuscire a migliorarlaAssumiti la responsabilità del tuo spazio di azioneAnche se ti sembra che il tuo spazio d’azione sia ridotto, anche se ogni “avrei potuto fare di più” non ha molto senso visto che ogni cosa – alla fine – va come deve andare, noi dobbiamo fare il possibile per andare incontro alla vita vera, per liberarci da ciò che non fa più per noi, per fronteggiare con consapevolezza gli eventi che incontriamo, anche perché se non fossimo in grado di affrontare certi eventi, essi non ci accadrebbero nemmeno.Questo è, a mio avviso, il nostro spazio d’azione: l’impegno quotidiano a vivere pienamente con umiltà e dignità tutto ciò che non possiamo cambiare; l’impegno ad amarci, a rispettarci e ad essere noi stessi, rimanendovi fedeli.Non chiederti perché lui o lei ti ha lasciato, chiediti cosa ti piace tanto e hai smesso di fare… Non chiederti perché i tuoi non ti hanno amato, chiediti come puoi essere il miglior genitore di te stesso….e non chiederti perché capitano tutte a te, chiediti che cosa puoi fare in questo momento per rendere la tua vita il posto in cui vuoi stare.PubblicitàUna lettura preziosa che ti cambierà la vitaOrmai molti già lo conoscono, si tratta del mio libro bestseller: «Riscrivi le Pagine della Tua Vita». E’ il libro che io stessa avrei voluto leggere tantissimi anni fa, prima ancora di diventare uno psicologo. In ogni pagina, ti spiego come ridefinire la tua identità a partire dai tuoi vissuti del passato e dalle emozioni che provi oggi. Potrai finalmente concederti il lusso della politica dei piccoli passi, cioè riuscirai a migliorare la tua vita giorno per giorno, senza pretendere tutto e subito, in ogni capitolo, infatti, ci sono esercizi pratici e nozioni che possono aiutarti fin da subito a migliorare la qualità della tua vita a partire dalla relazione che hai con te stesso e con gli altri. Puoi ripartire ricostruendo quella fiducia perduta. C’è una persona che non dovrebbe deluderti mai: quella persona sei tu! Ricorda: anche tu meriti la tua fetta di felicità in questa vita, abbi il coraggio di allungare la mano per prenderla! È tua, ti spetta di diritto. Il mio libro puoi trovarlo in libreria e a questa pagina Amazon.A cura di Ana Maria Sepe, psicologo e fondatrice della rivista PsicoasvisorAutore del libro Bestseller “Riscrivi le pagine della tua vita” Edito RizzoliSe ti piace quello che scrivo, seguimi sul mio profilo Instagram: @anamaria.sepe.Se ti piacciono i nostri contenuti, seguici sull’account ufficiale IG: @PsicoadvisorPuoi leggere altri miei articoli cliccando su *questa pagina*PubblicitàSEGUICI SUI SOCIALFacebookTwitterInstagramPinterestYouTube ChannelRicerca per:Cerca …LIBRI CONSIGLIATI«Riscrivi le Pagine della Tua Vita» Leggi l’estratto gratuito su Amazon. Un libro che propone un viaggio introspettivo alla scoperta di sé e delle proprie potenzialità. Con esercizi psicologici e strumenti professionali utili a rivendicare il proprio valore di persona completa, ascoltare i propri bisogni e soprattutto farli rispettare.«Quaderno d’esercizi per trasformare la propria collera in energia positiva» Leggi l’estratto gratuito su Amazon. La rabbia ha una cattiva reputazione, è spesso associata a violenza e aggressività ma anche questa emozione può avere risvolti positivi. La rabbia può essere canalizzata per far rispettare i propri diritti e apportare cambiamenti intorno a noi.«Dire basta alla dipendenza affettiva. Imparare a credere in se stessi» Leggi l’estratto gratuito su Amazon. La dipendenza affettiva presenta una terribile limitazione, l’incapacità di essere davvero fe«lice, arginata solo da un rimedio: l’altro.«Ho mangiato abbastanza. Come ho perso 60 kg con la meditazione» Leggi l’estratto gratuito su Amazon. Un libro dedicato a coloro che non riescono a perdere peso, che falliscono qualsiasi dieta. Un libro per cambiare prospettiva e capire che per risolvere il problema dei chili di troppo bisogna cambiare radicalmente il punto di vista su di sé e sul mondo.

Ana Maria SepeDottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisorsepeannamaria@gmail.com

Disturbi dell’Umore

La depressione altro non è che uno stato in cui l’individuo vive in totale assenza di speranza, speranza per sé e per il futuro, segnato dall’ineluttabile amarezza della vita. Già, perché la sofferenza è vissuta come qualcosa di ineluttabile, inevitabile, quasi come una caratteristica intrinseca della vita. Questo stato si verifica quando anche l’ultimo baluardo di fiducia viene a mancare.

Con questa introduzione, oggi non voglio parlare di depressione maggiore, cioè di quell’etichetta clinica che è accompagnata da determinati criteri diagnostici. Oggi mi preme parlare di un tipo di depressione nascosta, silente, che accompagna molti di noi e che, purtroppo, non avendo alcuna definizione diagnostica, troppo spesso passa inosservata.

Il risultato? La persona si trascina senza vivere con pienezza la sua vita, senza mai conoscere fiducia e comprensione. In effetti se ci si soffermiamo a rifletterci, come potrebbero essere compresi nella loro sofferenza se nessuno ne parla? Se nessuno dà una spiegazione a quel dolore. Ecco che quelle persone finiranno per convincersi di essere loro inadatte alla vita. Niente di più sbagliato.Imparare a soffrire, un insegnamento difficile da dimenticare.

Alcune persone si muovono nella vita già sconfitte, come se avessero bisogno solo di sofferenza, abbandono e quanto di peggio possano provare. Questo accade perché, nella loro storia personale, non hanno mai conosciuto una reale spensieratezza. Sulle loro spalle, fin dall’infanzia, è sempre gravato un peso enorme: la responsabilità di una persona cara e/o la vergogna o la colpa per un torto subito di cui non hanno alcuna responsabilità. Queste persone non tentano neanche di conquistarsi la loro fetta di felicità perché ormai, è già andata! È stata perduta tanti anni prima e, come premesso, manca la speranza. Osservandole da lontano, non sembrano davvero depresse: si alzano, vanno a lavoro, sono efficienti, propongono soluzioni, si confrontano… Non scaricano la loro frustrazione sugli altri e all’apparenza sembrano forti o insensibili, tutto questo solo perché hanno imparato precocemente a mettere un tappo a certe manifestazioni.Il dolore ha un potere pazzesco. Quando una persona, anzi, un bambino, deve fare i conti con la sofferenza per lungo tempo, senza alcuna consapevolezza e supporto concreto, quel bambino finirà per normalizzare la sofferenza, finirà per renderla parte del suo presente, sempre. Stare male diventa una costante naturale della vita. Chi non ha conosciuto la leggerezza dell’infanzia, solo difficilmente da adulto potrà costruirsi il suo benessere: nessuno gli ha mostrato come si fa. La verità è che, da adulti, tendiamo a ricostruirci una realtà che in qualche modo possa restituirci le emozioni vissute durante l’infanzia.

Beh, se quelle emozioni appesantiscono il cuore e parlano di assenze, omissioni, promesse infrante e fiducia tradita, è chiaro che la speranza inizierà ad affievolirsi fino a sparire.Quella fiducia perdutaSul dizionario «Oxford Language», la speranza è definita come «l’attesa fiduciosa di un evento gradito o favorevole». Alcune persone non hanno mai ricevuto un feedback positivo dall’ambiente esterno. Sono cresciute costantemente frustrate, puntualmente tradite nelle speranze e nei bisogni. Non bisogna aver vissuto traumi eclatanti per sviluppare questa forma depressiva di sottofondo. Modelli genitoriali inadeguati possono arrecare, inconsapevolmente, molti danni allo sviluppo psicoaffettivo del bambino, fino a distruggere quella che in psicologia è definita fiducia epistemica primaria.Nelle relazioni primarie (cioè nei primi legami che stringiamo da bambini con le figure genitoriale) impariamo se possiamo fidarci o meno del prossimo, impariamo a valutare l’altro come una spalla sulla quale poter contare o come qualcuno da cui difendersi. In modo riduzionistico, se i nostri bisogni di accettazione, di vicinanza, di benevolenza e di supporto sono stati soddisfatti in modo opportuno, vedremo nell’altro una risorsa. Al contrario, perderemo ogni speranza, l’apprendimento implicito e precoce è un secco: «nessuno può aiutarmi, devo (e dovrò!) arrangiarmi sempre da solo!» Oppure: «sono un peso! Sono talmente inaccettabile che neanche chi dovrebbe amarmi di più al mondo vuole prendersi cura di me!».

In termini pratici, se un giorno un bambino è spaventato dall’abbaiare di un cane e, nel genitore, non trova un rifugio sicuro ma trova parole sprezzanti del tipo: «smettila di frignare come una femminuccia! È solo un cane!». Quello seguente, il bambino piange perché si è sbucciato il ginocchio e invece di trovare rassicurazioni il genitore parte con un «te l’ho detto che non dovevi correre! Sei stupido, tu non mi ascolti!». Poi ancora, se fa i capricci, parte subito un «Se continui la mamma si arrabbia»… Un modello genitoriale svilente, che invalida costantemente tutte le manifestazioni emotive del bambino, giorno dopo giorno, eliminerà ogni forma di speranza. Il bambino non imparerà che, se ha paura, può contare sull’altro, anzi, imparerà che l’altro può essere altrettanto spaventoso. Non capirà che, se si fa male, può guarire e rialzarsi, anzi, apprenderà che non può, anzi, non deve sbagliare mai! Imparerà che le emozioni non vanno espresse perché queste innescano reazioni avverse.

Alla base di quella malinconia di sottofondo.

Alla base di tutta quella malinconia di sottofondo che ci portiamo dentro, c’è la fiducia violata di un bambino spaventato che non voleva altro che essere rassicurato. I bambini sono esseri emotivi, non razionali, hanno bisogno di rassicurazioni, attenzioni, ascolto empatico e vicinanza affettiva, non hanno bisogno di giocattoli costosi contornati da prediche e offese!

Abbiamo detto che chi sperimenta questa malinconia di sottofondo, talvolta appare molto forte, quasi invincibile. Allora come fare per capire queste persone? Vediamo insieme alcune frasi che possono essere un indicatore di un vissuto difficile, di una sofferenza di sottofondo.

Frasi tipiche delle persone depresse che non sembrano depresse.

Vediamo quali sono le frasi tipiche delle persone senza speranza e ti darò anche qualche suggerimento per rispondere. Se quella persona che ha perso ogni briciolo di fiducia sei tu, sappi che puoi ripetertele da solo. È vero, ognuno di noi ha bisogno di comprensione dall’esterno ma spesso e volentieri, la vera vicinanza di cui abbiamo bisogno è la nostra! Dobbiamo imparare a entrare in contatto con noi stessi e ascoltarci davvero. La sofferenza che ci portiamo dentro ci sta raccontando una storia che riguarda il nostro passato, oggi tocca a noi scrivere il nostro

«Tutte le storie sono destinate a finire»

Come rispondere a una persona cara: «ma perché, tu le hai provate davvero tutto? Le conosci tutte?»Come rispondere a se stessi: «penso questo solo a causa delle mie esperienze drammatiche, questo mio pensiero è legato più a vissuti emotivi che non a un processi riflessivi. Da oggi, voglio riflettere di più su me stesso e su come mi stanno condizionando i miei vissuti del passato.»«Tanto, tutto è inutile»Come rispondere a una persona cara: «io credo che ce la farai, so che tutto ti sembra nero, ma le cose belle accadono».

Cosa dire a se stessi: «cosa ho provato per cambiare questa situazione? Ho provato davvero tutte le strade o sono prevenuto?

I risultati dipendono solo da me? Io non posso cambiare le condotte altrui ma posso prenderne le distanze, posso costruire la mia isola felice perché la merito».

«Non valgo nulla»Come rispondere a una persona cara: «Beh, io ti voglio bene così come sei»Cosa dire a se stessi: «sento di non valere nulla perché una parte di me mi induce a sentirmi così. Ma «sentirsi» in un certo modo non significa «essere». Le emozioni che provo alterno fortemente le mie percezioni, piuttosto dovrei chiedermi, cosa mi ha fatto sentire così?»

«Ormai» – «Oramai è troppo tardi»

Come rispondere a una persona cara: «Pensaci un po’, se tu iniziassi oggi un corso di cucina tra tre anni potresti anche essere uno chef stellato! Non è mai troppo tardi se si hanno progetti, è la fretta di realizzare che ti tarpa le ali»Cosa dire a se stessi: «Troppo tardi rispetto a cosa? Non sto facendo alcuna competizione! A volte dimentico che sono io il padrone della mia vita, quindi li scandisco io i miei tempi. Posso proseguire a piccoli passi, posso fare pause, perdere tempo, allontanarmi dai miei obiettivi e poi tornarci…! Posso rilassarmi e poi proseguire a piccoli passi.»

«Vorrei tornare quello di prima»Come rispondere a una persona cara: «Va bene, allora cosa possiamo fare oggi per ritornare allo splendore di un tempo? Possiamo farlo insieme!».

Cosa dire a se stessi: «Le mie emozioni mi proiettano al passato, concentrandomi sul presente posso addirittura essere migliore di prima. Ogni giorno voglio dedicare un po’ di tempo a me stesso, cimentandomi in attività che piacciono. Voglio nutrire la mia identità, voglio finalmente prendermi davvero cura di me!». Riscrivi le Pagine della Tua Vita.

Ormai molti già lo conoscono, si tratta del mio libro bestseller: «Riscrivi le Pagine della Tua Vita». Se non lo hai ancora fatto, ti consiglio di leggerlo, lo trovi su amazon e in tutte le librerie. In ogni pagina, ti spiego come ridefinire la tua identità a partire dai tuoi vissuti del passato e dalle emozioni che provi oggi. Potrai finalmente concederti il lusso della politica dei piccoli passi, cioè riuscirai a migliorare la tua vita giorno per giorno, senza pretendere tutto e subito, in ogni capitolo, infatti, ci sono esercizi pratici e nozioni che possono aiutarti fin da subito a migliorare la qualità della tua vita a partire dalla relazione che hai con te stesso e con gli altri. Puoi ripartire ricostruendo quella fiducia perduta. C’è una persona che non dovrebbe deluderti mai: quella persona sei tu! Ricorda: anche tu meriti la tua fetta di felicità in questa vita, abbi il coraggio di allungare la mano per prenderla! È tua, ti spetta di diritto.

A.De Simone, psicologo esperto in neuropsicobiologia

Fonte: Psicoadvisor

Comportamenti tipici dei genitori invadenti

Essere invadenti non ha nulla a che vedere con l’essere premurosi. Un genitore può essere premuroso senza essere invadente. Queste prime due frasi sono doverose perché spesso, i genitori, celano la loro invadenza dietro un eccesso di premura, quasi di preoccupazione spasmodica per il figlio. Diciamolo una volta per tutte: l’invadenza non ha nulla a che fare con la cura, con l’essere premurosi.

So che molti genitori storceranno il naso a leggere queste prime righe ma è così, l’invadenza non è una naturale evoluzione della preoccupazione ma è una chiara mancanza di rispetto, una chiara violazione dei confini psicorelazionali del figlio. Il genitore che vuole gestire la vita di suo figlio.

Più che alla volontà di proteggere il figlio, l’invadenza è meglio associata alla desiderio di voler gestire la vita del figlio. A questo può arrivare un genitore che tratta il figlio come un’estensione di sé, non riconoscendogli una sua identità personale.

Ciò succede quando il genitore proietta nel figlio parti di sé come pure tutte le sue ambizioni mancate, i suoi sogni infranti e le sue ferite. Così il figlio avrà il compito di riscattare la vita del genitore, di prendere in eredità, il carico emotivo del genitore. Lo scotto da pagare? Quel bambino non sarà mai in grado di sviluppare un’identità propria.

Questo andamento lo vediamo spesso in quei genitori che organizzano la vita del figlio, che già gli hanno programmato il percorso di studi, le amicizie da frequentare e le attività extrascolastiche, senza mai interessarsi davvero alle ambizioni del piccolo. Servendosi di sensi di colpa, ricatti emotivi e manipolazione affettiva, alcuni genitori sono capaci di inculcare la propria volontà nel figlio ancora piccolo. Iniziano sostituendo i desideri del bambino, con i propri.

Quel bambino, ben presto, si ritroverà a invalidare se stesso e a negare parti di sé per soddisfare il genitore. Ricordiamoci questo, un bambino vuole giocattoli, vuole dolciumi ma più di tutto vuole vedere nel genitore quel bagliore di fierezza, vuole sentirsi importante ai suoi occhi e, anche se non lo da a vedere apertamente, fa di tutto per riuscirci, anche se questo significa rinunciare a se stesso.

E da adulti?

Se prima, da bambini, era la gestione del tempo, i vestiti da indossare e le attività extra scolastiche, quando i figli sono adulti, quei genitori non smettono e continuano a esercitare la propria invadenza. Ecco che vogliono avere influenza su:

la scelta del partner

la carriera (studio e lavoro)

la stessa relazione genitore-figlio (livello di attaccamento e confini)

Un buon genitore, imperfetto come tutti gli esseri umani ma che riconosce al figlio una sua identità, può provare disappunto verso la scelta del partner esercitata dal figlio, tuttavia riesce ad accettarla. Può fargli presente determinati atteggiamenti del partner ma senza mai rimanere invischiato nelle dinamiche di coppia.

Insomma, riesce a gestire i confini perché, prima di tutto, accette e stima suo figlio.

Un genitore invadente, invece, se il figlio devia dal suo programma e gli presenta un partner non congeniale ai suoi piani, non solo palesa il suo disappunto ma glielo farà pesare. Lo farà a ogni litigio, anzi, non perderà nessuna occasione per sottolineare quanto l’abbia deluso con quella scelta. Già, perché fin da bambino, il genitore ha creato un vincolo. Ha vincolato l’erogazione dell’amore alla condotta del figlio. Un ricatto bruttissimo che i genitori invischianti operano spesso.

La sintesi è questa: se vuoi il mio amore, devi essere ciò che voglio io e negare chi sei veramente. È così che i genitori innescano nei figli, fin da piccoli, il seme dei conflitti interiori. Ancora peggio, gli insegnano l’amore condizionato, cioè un amore senza accettazione, senza stima… cioè un amore che in realtà, non è affatto amore dato che accettazione e stima sono alla base!

Il genitore invadente sfrutta impropriamente il suo potere

Quando un bambino viene al mondo è indifeso e bisognoso di cure. Il genitore si fa carico del figlio e, man mano che egli cresce, innesca un’insana dinamica di potere che suona così:

Io ti ho nutrito

Ti ho cresciuto

Io ti ho mantenuto economicamente

Ho investito le mie energie su di te

Ora tu mi appartieni, sei in debito!

Ovviamente, tale dinamica di potere sarà ben nascosta e mascherata da parole come “sacrificio”, “amore”, “preoccupazione” ma inevitabilmente emergerà mediante frasi quali: «per tutto quello che ho fatto per te», «me lo devi», «non puoi farmi questo», «tu puoi fare quello che vuoi ma poi non contare su di me» (che quindi, significa, puoi fare solo ciò che voglio io, perché il bambino ha solo i genitori su cui contare).

Questa dinamica, innesca una serie di ricatti morali nel figlio che si sentirà obbligato ad accondiscendere ai bisogni genitoriali, in lui emergeranno sensi di colpa, vergogna, sensazione di non essere abbastanza, rabbia repressa, ferita del rifiuto (…). In determinate situazioni, nel figlio emerge una rabbia più esplicita, accompagnata da condotte ribelli.Purtroppo la mentalità gerarchica e priva di amore che ho descritto nei 5 punti elencati in precedenza, è molto più comune di quanto si possa immaginare. Chi decide di mettere al mondo un figlio dovrebbe farlo mosso dal desiderio di donare amore incondizionato. Non è quel bambino che ha chiesto di venire al mondo. È dunque dovere del genitore supportare, nutrire e assicurare al figlio un’istruzione. Nel farlo, non guadagna alcun credito, non dovrebbe maturare alcuna pretesa! E questo non è affatto triste. Sapete perché? Perché un legame solido e ben nutrito, ripaga più di qualsiasi ricatto morale, ripaga più di qualsiasi pretesa.

Quando il genitore non riconosce al figlio il diritto di esistere

Un genitore invadente, non riconosce al figlio il diritto di esistere perché sistematicamente gli nega l’opportunità di pensare con la sua testa. Il figlio finisce per interiorizzare completamente il punto di vista genitoriale oppure per detestarlo. Un figlio che viene costantemente invalidato, in realtà, non ha la consapevolezza di ciò che sta subendo, si sente solo oppresso e non riuscendo a dare un significato a quei sentimenti di oppressione, potrebbe ripercuoterli su tutto (genitori, compagni di scuola…), oppure potrebbe annullare completamente se stesso.In entrambi i casi, un genitore invadente non si rende conto che con le sue pretese nascoste, con i suoi obblighi morali, finirà per: seminare il risentimento a lungo termine fomentare rabbia

creare un attaccamento disfunzionale e precario

negare al figlio autonomia e individuazione

creare un legame del tutto fasullo

Un genitore che riconosce al figlio il diritto di esistere in proprio, senza dipendenza e oppressione, gli consente di sviluppare idee, preferenze, bisogni propri e un pensiero personale che potrebbe anche essere divergente da quello genitoriale. Ci sta!Quando l’invadenza è solo legata alla preoccupazione

Vi sono forme di invadenza più innocenti che possono rimandare alla mera e fisiologica preoccupazione. Queste forme, sono più caratteristiche dei genitori ansiosi. In questo caso, l’invadenza si fa sentire quando il figlio passa molto tempo fuori casa. Il genitore sente il bisogno di rassicurarsi costantemente sullo stato di benessere del figlio e così può essere più pressante con telefonate e dettare regole di rientro più rigide .

Potrebbe capitare che il genitore diviene più presente nella vita del bambino prima e dell’adolescente dopo. In forme più complesse, il genitore potrebbe involontariamente non incoraggiare un’indipendenza adeguata allo sviluppo (la classica mamma chioccia).

Ma in questi casi, mancano tutte le componenti di repressione, obbligo, mancano i ricatti morali (…) e soprattutto, il figlio non è vissuto come uno strumento di realizzazione personale ma solo come un destinatario di amore e cure. Non solo, con la crescita del figlio anche il genitore inizia a sentirsi più sicuro così da superare insieme i timori e le incertezze legate al futuro .

Alla ricerca di uno scopo

Il genitore diviene invadente e bramoso di gestire la vita del figlio quando la sua stessa identità è coinvolta nella realizzazione del figlio. Il successo del figlio fa sentire i genitori migliori, realizzati, come se la loro vita (percepita come priva di senso) avesse finalmente uno scopo, una direzione chiara! Il figlio non è vissuto come una persona a sé ma un mezzo mediante il quale soddisfarsi. Fare il genitore è sicuramente difficile ma talvolta manca proprio l’ABC. In fondo, per essere un buon genitore, basterebbe riconoscere al bambino il suo diritto d’esistere come individuo a sé, degno di stima e di amore.

A.De Simone, psicologo esperto in neuropsicobiologia. Autore del bestseller «Riscrivi le pagine della tua vita» edito Rizzoli

Fonte: psicoadvisor.com

Minori detenuti tra devianza e abuso di sostanze

Relazione presentata nel corso del Convegno di Milano del 18 novembre 2010 dal titolo: “Minori oltre la detenzione”

Interventi territoriali multiprofessionali con minori d’area penale abusatori di sostanze stupefacentiIntroduzione

La giustizia minorile si interroga sul tema dell’interazione tra abuso di sostanze e devianza, tema che si colloca in realtà su una zona di confine tra le competenze specifiche della giustizia e quelle dei servizi territoriali. Il senso di questo interrogarsi è legato alla costruzione del progetto terapeutico che, nel caso di minori in carico alla Giustizia mnorile che presentano problemi di dipendenza, diviene ovviamente più complesso perché legato a due obiettivi tra loro interdipendenti, il superamento della dipendenza (che non ricade nelle competenze dalla giustizia ma dei servizi sanitari) e il processo rieducativo (che invece attiene a questa amministrazione). Le riflessioni su questo tema pongono inevitabilmente gli operatori della giustizia minorile a contatto con una sofferenza psicologica dell’adolescente che ha subito importanti trasformazioni rispetto al passato, trasformazioni che è necessario conoscere per chi si trova ad occuparsi del minore seppure, come detto, non dal punto di vista strettamente sanitario. Coerentemente con quanto segnalano gli esperti, e senza entrare in questa sede nel dettaglio di tale questione, da un punto di vista prettamente psicopatologico, si assiste ad un accentuarsi dell’incidenza dei disturbi di personalità, che si esprimono attraverso sintomi e manifestazioni comportamentali oggi sempre più difficilmente inquadrabili nei sistemi nosografici a disposizione. Da un punto di vista psico-sociale, invece, il crescere degli episodi di violenza che vedono coinvolti adolescenti, sia come agenti sia come vittime, ci invita a riflettere da una parte sullo specifico della condizione adolescenziale nella società contemporanea, dall’altra sul significato che tali episodi assumono oggi, alla luce di tutta una serie di cambiamenti che ora cercheremo sinteticamente di delineare.

Entrambi i dati segnalano che le tradizionali teorie psicologiche, che vedevano l’adolescenza come una fase di passaggio individuando il nucleo del disagio adolescenziale proprio nella sfida posta dai diversi compiti evolutivi cui l’adolescente doveva far fronte, è oggi messo in crisi, o se vogliamo reso più complesso, da una serie di altri fattori contestuali che riguardano, più in generale, i cambiamenti che hanno investito negli ultimi decenni la struttura sociale e familiare. Anche sulla base di tali cambiamenti, l’adolescenza è andata sempre più perdendo la sua valenza di fase di passaggio per diventare una fase di sospensione temporale dai confini indefiniti.Se prima quindi l’elemento più evidente dell’adolescenza era il conflitto con le figure genitoriali, e con l’autorità in generale, oggi assistiamo ad una sorta di apparente pacificazione tra le generazioni, che caratterizza le famiglie moderne o, come direbbe Bauman, post-moderne. Non a caso, il rapporto esistente tra la realtà dei nuovi adolescenti e le modalità di esercizio della funzione educativa da parte degli adulti costituisce un argomento centrale anche nel dibattito socio-psicologico attuale. L’interpretazione del ruolo genitoriale che si realizza nella così detta ‘famiglia affettiva’ trova espressione non solo nelle modalità di regolazione delle dinamiche interpersonali, ma anche nel modo in cui oggi viene assolta la funzione educativa.

L’esercizio di questa funzione sembra basarsi sulla convinzione secondo la quale è possibile una educazione neutrale, cioè non fondata sulla necessità di trasmettere ai figli valori e regole universali, quanto piuttosto di creare condizioni favorenti la libera espressione della loro personalità.

Obiettivo primario in questo nuovo tipo di famiglia è quello di favorire un clima relazionale intrafamiliare fatto di reciproca accettazione; laddove nella ‘famiglia normativa’ di stampo tradizionale l’accesso ai valori e alle norme sociali presentificate dai genitori, passava necessariamente attraverso una buona dose di repressione, e determinava una coloritura decisamente conflittuale della relazione. Questa particolare modalità di esercizio della genitorialità produce un clima relazionale sufficientemente pacificato: gli adolescenti si mostrano soddisfatti delle loro relazioni familiari (1), e non hanno da lamentarsi circa le regole che i genitori prescrivono o per altri aspetti, quali il poco tempo che trascorrono insieme a loro, che sembra oramai accettato come una realtà di fatto su cui si strutturano le dinamiche familiari. Tuttavia va segnalato che questa trasformazione implica anche il venir meno della funzione di “contenitore” educativo della famiglia. Infatti, a ben guardare, dietro questo quadro di ‘famiglia pacificata’ emergono alcuni segnali di disagio.

Come sottolinea P. Charmet (2), gli adolescenti, se utilitaristicamente apprezzano i vantaggi che tale clima relazionale comporta, ad un livello più profondo mostrano inquietudine per l’impossibilità di rinvenire solidi punti di riferimento. E’ in questo scenario che la richiesta di una autorevolezza, percepita come assente in ambito familiare, viene proiettata all’esterno. La sostanziale ‘latitanza’ dell’adulto e della sua funzione normativa, sono alla base di quella tendenza dell’adolescente a ‘farsi il suo Edipo con la polizia’, di cui parlano Benasayag e Schmit nel loro libro L’epoca delle passioni tristi: “Il giovane che deve esplorare la sua potenza, sperimentare i limiti della società, che deve insomma affrontare tutte le funzioni tipiche dei riti di passaggio dell’adolescenza occidentale, non trovando un quadro familiare sufficientemente stabile, sposta la scena nella città, nel quartiere.” (3) In sostanza, questa pacificazione apparente che caratterizza l’ambito familiare si regge, di fatto, su uno spostamento del conflitto da parte dell’adolescente in altri ambiti, come peraltro segnalato dall’esasperazione delle sfide con la morte che altro non sono, dal punto di vista simbolico, che trasposizioni dei riti di passaggio che caratterizzavano l’epoca pre-moderna.

Uso e abuso di sostanze e nuove modalità di consumo come facilmente intuibile, parallelamente a queste trasformazioni che attraversano l’ambito sociale e famigliare, e che come detto riguardano anche il concetto stesso di adolescenza e la lettura del disagio che la caratterizza, è rintracciabile anche una significativa trasformazione della fenomenologia dei comportamenti di assunzione di sostanze e di dipendenza. Anche su questi cambiamenti ci soffermeremo brevemente perché, seppure essi come detto all’inizio non ricadono nelle specifiche competenze della Giustizia, è però evidente che hanno un peso legittimo nella costruzione del piano trattamentale.

Se da un lato c’è il dato allarmante dell’abbassamento dell’età della prima assunzione di sostanze, dall’altro si è sempre più in difficoltà nel definire, sia quantitativamente sia qualitativamente, un fenomeno che non risponde più alle tradizionali interpretazioni di esso, utili fino a qualche decennio fa. Gli elementi di novità consistono non tanto nelle sostanze utilizzate, quanto piuttosto nelle modalità di approccio alla sostanza e negli atteggiamenti- ad un tempo cognitivi, emotivi e relazionali – che sottendono il consumo di queste sostanze. E’ per questo che piuttosto che di “nuove droghe”, termine largamene utilizzato in letteratura, sarebbe più corretto parlare di “nuove modalità di consumo”. Un corollario di queste nuove modalità di consumo è il fenomeno della poliassunzione nel quale “l’innamoramento” per una determinata sostanza viene sostituito da una propensione generalizzata verso i consumi che, come ben ci ricorda Bauman, è indissolubilmente legata ad una più generale esasperazione consumistica anche rispetto ad esperienze, prodotti, rapporti, ecc..I nuovi profili di consumo si manifestano quindi attraverso il ricorso ad una pluralità di “vecchie” e “nuove” droghe: il nuovo consumatore è soprattutto un policonsumatore.

D’altra parte, la novità delle modalità di consumo chiama immediatamente in causa i cambiamenti intervenuti nel soggetto dei consumi: il profilo del “nuovo consumatore” è distante sotto molti aspetti da quella del “vecchio consumatore” di sostanze. L’elemento di maggior distanza tra “nuovo” e “vecchio” consumatore sta nella piena adesione del primo ai valori predominanti, nella sua piena integrazione sociale: adesione e integrazione che egli ricerca attivamente, laddove il “vecchio” consumatore si poneva deliberatamente ai margini della società, partendo da una posizione di contestazione dei modelli culturali prevalenti (4).

A tale proposito si parla oggi di invisibilità del consumatore, a cui si accompagna una seconda caratteristica che è quella dell’ubiquità sociale: la sostanza, nel caso delle nuove modalità di consumo, sembra costituire uno strumento per entrare nella realtà, un mezzo per mantenere con maggiore facilità la propria posizione sociale assolvendo apparentemente in modo meno faticoso ai compiti che essa richiede. Questo bisogno di ricerca ed esplorazione, nel caso delle cosiddette nuove droghe sembra dirigersi proprio verso l’esterno: la definizione stessa di sostanze empatogene enfatizza questo aspetto, esse vengono ricercate perché inducono un innalzamento della performance e consentono il superamento dei limiti soggettivi. Tutto ciò si riflette anche in una minore consapevolezza da parte del consumatore rispetto alla propria dimensione di dipendenza e all’insieme di fattori che la determinano, soprattutto se a ciò si aggiunge il fatto che la dipendenza oggi non è più legata solo a sostanze notoriamente nocive, ma anche a comportamenti comuni, largamente diffusi e ampiamente accettati dal sociale (vedi le dipendenze tecnologiche, i disturbi alimentari psicogeni, la diffusione del doping legato ad attività sportive, ecc.).

Anche in virtù di ciò, è attualmente molto difficile delineare un unico ed inequivoco profilo del consumatore attuale che oggi ha mille e nessun volto, e sembra rientrare in quelle forme di identità patchwork tipiche delle generazioni cresciute nella cultura postmoderna o delle identità a palinsesto della società dell’incertezza(5). La tendenza emergente sembra essere quella di un polimorfismo della costruzione identitaria che porta a privilegiare un adattamento autoplastico all’ambiente, modificando abitudini e stili comportamentali in funzione delle richieste dei differenti contesti. In tale modalità adattiva, coerente con la richiesta di flessibilità che caratterizza l’attuale fase storica e con le esigenze poste dalla società dei consumi, si inserisce il polimorfismo dei fenomeni di consumo di sostanze.Riassumendo, si può quindi dire che oggi il profilo del “nuovo” consumatore può essere quello di un poliassuntore, il cui consumo di sostanze è spesso limitato al weekend o alle occasioni sociali, nelle quali la funzione della sostanza è quello di offrire una sorta di autoterapia finalizzata al superamento delle inibizioni.

Minorenni tra devianza e consumo di sostanze: il ruolo della Giustizia Minorile

Qual è in questo nuovo scenario, di cui abbiamo cercato di delineare a grandi tratti alcune caratteristiche, il ruolo specifico della giustizia minorile? Intanto è noto che vi è tra i minori in carico alla giustizia minorile una quota minoritaria di soggetti che entrano nel sistema della giustizia per reati legati al consumo e allo spaccio di sostanze. Va specificato che, in molti casi, i reati legati allo spaccio non hanno all’origine anche un problema di consumo da parte dell’autore di reato, in altri casi si tratta invece di reati (spaccio, furto, ecc.) effettivamente legati all’uso e abuso di sostanze. In particolare, come evidenziano i dati relativi al 2008, la maggior parte degli assuntori di sostanze stupefacenti è di cittadinanza italiana (79%) mentre, per quanto riguarda gli stranieri, i più rappresentati sono i marocchini.

Per ciò che concerne i reati a carico, quello di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti rimane il più rappresentativo (57% del totale), seguito dai reati contro il patrimonio (36%), mentre quelli contro la persona sono meno frequenti (6%).

I cannabinoidi rimangono le sostanze maggiormente consumate (77% dei casi), seguiti dalla cocaina (9%) e dagli oppiacei (9%).

L’uso di cannabinoidi è maggiore per gli italiani che non per gli stranieri (rispettivamente 80% e 68%), mentre l’uso di eroina è riferibile per il 11% agli stranieri e per l’8% per gli italiani. In riferimento all’età, si rileva che la cocaina rappresenta il 10% delle sostanze assunte tra i minori della classe d’età 16-17 e tra gli ultradiciottenni, mentre è il 5% nella classe d’età 14-15 anni.

La stessa tendenza si registra per quanto riguarda il consumo di eroina (11% degli ultradiciottenni e percentuali minori per le altre classi d’età). I cannabinoidi sono invece maggiormente diffusi tra le classi d’età più basse (87% dei 14-15 anni, 77% dei 16-17 anni, 71% degli ultradiciottenni).

Per gli stranieri spesso si tratta di ragazzi senza permesso di soggiorno, senza famiglia e spesso senza fissa dimora, provenienti da paesi in cui vivono, probabilmente, in condizioni di maggiore disagio. Secondo informazioni pervenute dai servizi minorili risulta poi che l’abuso di sostanze si caratterizza come poliassunzione di sostanze stupefacenti e alcol.

L’uso di sostanze da parte di minori stranieri sembra essere legato allo spaccio o ad un consumo normale ed abituale non percepito come sintomo di devianza in quanto culturalmente accettato nel paese di origine, come nel caso delle popolazioni provenienti dal nord Africa(6)

I dati danno conto di questo segmento di soggetti all’interno del circuito della giustizia minorile che pone, per le specificità di cui è portatore, un problema di ordine trattamentale reso ancora più complesso dal cambiamento delle modalità di assunzione e del profilo del consumatore, secondo quanto prima descritto. Inoltre va tenuto presente anche un ulteriore elemento di complessità introdotto dai nuovi riferimenti normativi che hanno modificato l’assetto delle competenze e degli ambiti di intervento per quanto riguarda il ruolo degli psicologi, e quindi dell’intervento sanitario, all’interno del sistema della giustizia minorile.

Con il DPCM 1° aprile 2008, predisposto dal Ministero della Salute, di concerto con il Ministero della Giustizia, dell’Economia e della Funzione Pubblica e dopo l’approvazione della Conferenza Stato-Regioni, sono state trasferite al SSN tutte le funzioni sanitarie e le relative risorse finanziarie, umane e strumentali afferenti la medicina penitenziaria. Tale passaggio di competenze richiede come da allegato A del DPCM “Linee di indirizzo per gli interventi del Servizio Sanitario Nazionale a tutela della salute dei detenuti e degli internati negli istituti penitenziari, e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale” la definizione a livello locale di accordi interistituzionali tra i referenti delle Regioni, delle ASL e i Centri per la Giustizia Minorile e i Servizi Minorili di rispettiva competenza territoriale per garantire la continuità nell’erogazione del servizio e del trattamento terapeutico nei confronti dei minorenni sottoposti a procedimento penale. Al fine poi di gestire la complessità di tale passaggio e garantire l’omogeneità degli interventi su tutto il territorio nazionale sono stati attivati presso la Conferenza Unificata due Tavoli Interistituzionali previsti dal DPCM (il Tavolo di Consultazione permanente sulla sanità penitenziaria e il Tavolo Paritetico sugli OPG).In particolare il tavolo sulla sanità penitenziaria ha elaborazione un accordo ‘Linee di indirizzo per gli interventi del Servizio sanitario nazionale a tutela della salute dei detenuti e degli internati negli istituti penitenziari, e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale’, che disciplinano modalità, criteri e principi del nuovo assetto della medicina penitenziaria. In considerazione di quanto sopra, i Centri per la giustizia minorile e i servizi minorili che hanno storicamente operato, tramite accordi di programma e protocolli, con le Aziende ASL e i SERT per gli interventi trattamentali nei confronti dei minori ristretti in I.P.M.(istituti penale per i minorenni), ospiti delle Comunità ministeriali, dei C.P.A.(centri di prima accoglienza) o in carico all’USSM (uffici di servizi sociali), hanno attivato le procedure per l’attualizzazione delle collaborazioni secondo i riferimenti definiti dal DPCM e dalle Linee di indirizzo sopra citate. Lo scenario attuale prevede, pertanto, che l’assistenza ai soggetti tossicodipendenti sia garantita dal Ser.T. dell’Azienda Sanitaria, competente per territorio, che stabilisce rapporti di interazione clinica, sia con i servizi minorili che con la rete dei servizi sanitari e sociali che sono coinvolti nel trattamento e nel recupero dei tossicodipendenti. La presa in carico del tossicodipendente prevede l’attuazione delle misure preventive, diagnostiche e terapeutiche che riguardano sia l’aspetto clinico che quello della sfera psicologica. Alla luce di questo nuovo assetto normativo, e quindi organizzativo, è necessario ridefinire anche le funzioni e le responsabilità che attengono alla giustizia minorile.

Se, come detto, la presa in carico del minore sotto l’aspetto strettamente sanitario è ora posta all’esterno, e attiene ai servizi sanitari, alla giustizia rimane la competenza rieducativa che però non può prescindere da tutti quegli elementi di complessità fin qui delineati. Complessità che rende necessario innanzitutto individuare le competenze che attengono alla giustizia minorile, per integrarle con quelle degli altri servizi, al fine di costruire progetti terapeutici globali e multimodali. In tal senso, una prima questione da dirimere è quella riguardante la cosiddetta “doppia diagnosi”, di cui la letteratura psicopatologia negli ultimi anni si è molto occupata.

Ovvero, il comportamento di dipendenza rappresenta l’epifenomeno di una organizzazione psicopatologica della personalità dell’adolescente, oppure esso va considerato quale tratto e disturbo primario sul versante socio-patico? In altre parole, il disturbo psicopatologico viene “nascosto” dall’uso di sostanze o, al contrario, è da esse scatenato? E’ chiaro che la propensione verso l’una o l’altra ipotesi, entrambe ampiamente dibattute in letteratura, comporta scelte trattamentali differenti, l’una più schiacciata sul versante della cura psichiatrica, l’altra più orientata al livello rieducativo e “correttivo”.

Proprio rispetto al problema posto dai casi di doppia diagnosi va detto che sono scarse le strutture di tipo comunitario dedicate ai soggetti che necessitano di un trattamento legato e al disturbo psicopatologico e al problema di assunzione di sostanze. Se infatti questi casi possono rappresentare un segmento limitato dell’utenza all’interno degli Istituti Penali Minorili, il loro numero aumenta di significatività se si considerano anche tutti i minori in carico al servizio della giustizia minorile. Si pone quindi il famoso problema del lavoro di rete tra servizi, volto alla costruzione di un sistema integrato multisettoriale e multispecialistico in grado di offrire all’adolescente un progetto terapeutico individualizzato, integrato e multimodale. La necessità di lavorare in rete non costituisce di certo una novità né per il sistema della giustizia minorile né tanto meno per i servizi territoriali, tuttavia essa sembra tutt’ora impegnare le varie amministrazioni in una sfida complessa e ancora lontana dalla sua piena realizzazione.

E ciò tanto più se il lavoro di rete viene inteso non come semplice operazione di invio del minore ai servizi territoriali competenti, o scambio di informazioni tra un servizio e l’altro, ma come strumento di costituzione di un’equipe di lavoro formata dai vari attori sociali preposti ad occuparsi, con funzioni diverse e sulla base delle specifiche competenze, del minore.

A tale scopo, gli interventi di ordine sanitario nei confronti dei minori ristretti che presentano un problema di assunzione di sostanze, pur mantenendo la propria specificità, sono parte di un intervento socio-sanitario-educativo che si attua all’interno del contesto penale, il quale caratterizza ulteriormente la qualità dell’azione dei soggetti coinvolti. La presa in carico di questi minori, così come di tutti quelli che entrano in contatto con le strutture della Giustizia minorile, avviene a partire da una valutazione multidisciplinare che deve essere fatta da una equipe di operatori: medici, psicologi, educatori, assistenti sociali da attuarsi anche in tempi successivi che consenta di evidenziare le caratteristiche del minore e i suoi bisogni “assistenziali” (sanitari, educativi e sociali) rispetto ai quali costruire un programma di presa in carico che preveda tutti gli interventi necessari individuando contestualmente gli enti e gli operatori responsabili della loro attuazione. C’è da dire che la valutazione multidisciplinare congiunta consente di attuare anche tutti gli interventi necessari a risolvere situazioni di urgenza.Da ciò consegue che soprattutto per i soggetti minorenni e giovani adulti che presentano disturbi psicopatologici, alcol dipendenza, tossicodipendenza o portatori di doppia diagnosi, sono necessarie non solo una valutazione specialistica – che si integri con quelle di diversa natura – da realizzarsi in tempi relativamente brevi ma anche eventualmente l’immediato collocamento in strutture di cura – si pensi ad esempio a soggetti che presentano sindromi acute o comunque la previsione di interventi terapeutico(7) . Nello specifico dei minori con problemi di dipendenza, sono state in tal senso già avviate da questa amministrazione progettualità basate su un intenso lavoro di rete. Presso l’IPM Meucci di Firenze, nel corso del 2003 è stato attivato il progetto Aladino in collaborazione con il SerT, il C.G.M di Firenze, la Cooperativa sociale CAT, il CeSDA (Centro Studi Dipendenze e Aids di Firenze). Le finalità del Progetto sono state quella di modificare i comportamenti a rischio legati all’uso e all’abuso di sostanze stupefacenti, quella di offrire una maggiore informazione e sensibilizzazione sulle opportunità terapeutiche e riabilitative rese disponibili dai servizi pubblici, dagli Enti Ausiliari e dall’Associazionismo, oltre che una più approfondita conoscenza delle condizioni di vita dei minori stranieri accompagnati e dei servizi a questi rivolti.Allo stesso modo, presso l’IPM Malaspina di Palermo è stata avviata la collaborazione con medici ed esperti del Ser.T. che effettuano interventi specifici di consulenza e presa in carico di giovani detenuti portatori di problematiche legate all’uso di sostanze stupefacenti e alcoliche, individuando con il personale dell’Area Tecnica interventi trattamentali individualizzati (vedi inserimenti in comunità terapeutiche, trattamenti farmacologici, etc.) come previsto dalla legge sugli stupefacenti di cui al D.P.R. 309/90. Sempre a Palermo, sono stati anche realizzati incontri con i giovani detenuti di informazione e prevenzione su tematiche diverse (uso e abuso di sostanze alcoliche e sostanze stupefacenti), realizzati all’interno dei gruppi-classe e che hanno coinvolto nella fase progettuale sia l’équipe del Ser.T. sia l’équipe tecnica dell’Istituto e per quanto concerne la fase operativa anche gli insegnanti della scuola elementare e media che operano all’interno di questa struttura. Tuttavia ci rendiamo conto che quello del lavoro di rete tra le varie istituzioni è una sfida ancora aperta se consideriamo che oggi, ancor meno che nel passato, la complessità assunta dalle manifestazioni dell’uso e abuso di sostanze non possono trovare risposte efficaci in un interlocutore unico, mentre necessitano invece della forte coesione tra enti e servizi finalizzata a costruire un sistema di protezione che può esser immaginato come una vera e propria rete capace di avvolgere e contenere il minore.ConclusioniPremettendo che sarebbe interessante capire quanto i paradigmi interpretativi attuali rispecchino effettivamente la realtà osservata, cioè il minore adolescente e il suo disagio, e non l’osservatore di tale realtà, tali paradigmi evidenziano quale elemento caratterizzante l’adolescente contemporaneo, la confusione e lo stato di sospensione temporale e spaziale (che assume poi le forme dei ben noti fenomeni di “espansione dell’adolescenza” anche fino ai 30 anni). Se è vero che tale confusione, da una parte rappresenta uno dei tratti caratteristici dell’adolescenza, dall’altra è il riflesso, come detto prima, di una molteplicità di trasformazioni che hanno investito ambiti diversi (da quello familiare a quello sociale), allora è necessario costruire insieme interventi che prevedano un’integrazione tra servizi, e quindi tra competenze differenti. Il rischio che vogliamo però segnalare, e quindi scongiurare, è che questo lavoro di rete entri in una sorta di corto circuito ovvero in un sovrapporsi di interventi, giustapposti, se non addirittura in contrasto tra loro.

Un esempio attuale di tale rischio è il conflitto, che diventa sempre più evidente, tra l’istituzione scuola e l’istituzione famiglia, spesso divisi e frammentati rispetto ad interventi educativi che non di rado risultano essere in antitesi l’uno con l’altro, finendo per rafforzando la sensazione dell’adolescente di non poter individuare punti di riferimento stabili. Il rischio che vogliamo segnalare è quindi quello di cadere, per restare in tema, in una progettualità di interventi pachtwork, figli della stessa confusione a cui essi si propongono di dare risposta. E’ proprio l’analisi critica dei limiti e dei fattori di debolezza degli interventi attuali e le considerazioni sull’aspetto della confusione fatte prima, che spinge la giustizia minorile a riflettere su come sviluppare azioni di contenimento, inteso in senso winnicottiano, del minore.

E’ su questo ambito che vogliamo impegnarci per contribuire al superamento di tutti quegli aspetti di frammentazione e solitudine che rendono il disagio adolescenziale di difficile intercettazione per gli operatori e le istituzioni, i quali finiscono a loro volta per rimanere vittime dello stesso isolamento che si prefiggono di contrastare. In tal senso la giustizia si sta interrogando su quali strategie mettere in campo per costruire un sistema protettivo intorno al minore, costituito da una pluralità di soggetti interagenti tra loro, che ha come finalità ultima quella di potenziare il “capitale sociale” dei giovani, inteso quale bagaglio relazionale e valoriale che un soggetto costruisce nel corso della propria esistenza, in una determinata società.Lo sviluppo e il rafforzamento del capitale sociale potrebbe infatti costituire un efficace deterrente rispetto al gesto violento che, alla luce di quanto detto, nell’attuale società posmoderna può essere letto quale modo distorto di affermazione della propria individualità, in un contesto nel quale l’impoverimento della dimensione relazionale, del rapporto interpersonale affettivamente saturo, sembrano aver ridotto la possibilità per l’adolescente di ricevere conferma e riconoscimento dall’altro. Nel gesto violento, così come nell’atto vandalico, non sembra più prevalente l’aspetto della sfida e della trasgressione delle norme; piuttosto, tali fenomeni possono essere visti come effetti prodotti dall’esperienza di isolamento, di delegittimazione identitaria e di perdita di senso(8)

.Milano, 18 novembre 2010

il Direttore generale per l’attuazione dei provvedimenti giudiziari del Dipartimento giustizia minorile S. Pesarin

NOTE:(1) ICARO, Indagine sugli stili di consumo delle cosiddette “nuove droghe” a Cagliari, Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali, Casa Editrice Psicoanalisi Contro, Roma, 2004.(2) Ragazzi sregolati. Regole e castighi in adolescenza (a cura di), (Franco Angeli, 2001).(3) Benasayag M., Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2004.(4) ICARO, Indagine sugli stili di consumo delle cosiddette “nuove droghe” a Cagliari, Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali, Casa Editrice Psicoanalisi Contro, Roma, 2004.(5) Z.Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1994.(6) Dati Giustizia Minorile 2008(7) Conferenza Unificata Stato Regioni, Linee di indirizzo per l’assistenza ai minori sottoposti a provvedimento dell’autorità giudiziaria, 26 Novembre 2009.(8) U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007.