Disturbi dell’Umore

La depressione altro non è che uno stato in cui l’individuo vive in totale assenza di speranza, speranza per sé e per il futuro, segnato dall’ineluttabile amarezza della vita. Già, perché la sofferenza è vissuta come qualcosa di ineluttabile, inevitabile, quasi come una caratteristica intrinseca della vita. Questo stato si verifica quando anche l’ultimo baluardo di fiducia viene a mancare.

Con questa introduzione, oggi non voglio parlare di depressione maggiore, cioè di quell’etichetta clinica che è accompagnata da determinati criteri diagnostici. Oggi mi preme parlare di un tipo di depressione nascosta, silente, che accompagna molti di noi e che, purtroppo, non avendo alcuna definizione diagnostica, troppo spesso passa inosservata.

Il risultato? La persona si trascina senza vivere con pienezza la sua vita, senza mai conoscere fiducia e comprensione. In effetti se ci si soffermiamo a rifletterci, come potrebbero essere compresi nella loro sofferenza se nessuno ne parla? Se nessuno dà una spiegazione a quel dolore. Ecco che quelle persone finiranno per convincersi di essere loro inadatte alla vita. Niente di più sbagliato.Imparare a soffrire, un insegnamento difficile da dimenticare.

Alcune persone si muovono nella vita già sconfitte, come se avessero bisogno solo di sofferenza, abbandono e quanto di peggio possano provare. Questo accade perché, nella loro storia personale, non hanno mai conosciuto una reale spensieratezza. Sulle loro spalle, fin dall’infanzia, è sempre gravato un peso enorme: la responsabilità di una persona cara e/o la vergogna o la colpa per un torto subito di cui non hanno alcuna responsabilità. Queste persone non tentano neanche di conquistarsi la loro fetta di felicità perché ormai, è già andata! È stata perduta tanti anni prima e, come premesso, manca la speranza. Osservandole da lontano, non sembrano davvero depresse: si alzano, vanno a lavoro, sono efficienti, propongono soluzioni, si confrontano… Non scaricano la loro frustrazione sugli altri e all’apparenza sembrano forti o insensibili, tutto questo solo perché hanno imparato precocemente a mettere un tappo a certe manifestazioni.Il dolore ha un potere pazzesco. Quando una persona, anzi, un bambino, deve fare i conti con la sofferenza per lungo tempo, senza alcuna consapevolezza e supporto concreto, quel bambino finirà per normalizzare la sofferenza, finirà per renderla parte del suo presente, sempre. Stare male diventa una costante naturale della vita. Chi non ha conosciuto la leggerezza dell’infanzia, solo difficilmente da adulto potrà costruirsi il suo benessere: nessuno gli ha mostrato come si fa. La verità è che, da adulti, tendiamo a ricostruirci una realtà che in qualche modo possa restituirci le emozioni vissute durante l’infanzia.

Beh, se quelle emozioni appesantiscono il cuore e parlano di assenze, omissioni, promesse infrante e fiducia tradita, è chiaro che la speranza inizierà ad affievolirsi fino a sparire.Quella fiducia perdutaSul dizionario «Oxford Language», la speranza è definita come «l’attesa fiduciosa di un evento gradito o favorevole». Alcune persone non hanno mai ricevuto un feedback positivo dall’ambiente esterno. Sono cresciute costantemente frustrate, puntualmente tradite nelle speranze e nei bisogni. Non bisogna aver vissuto traumi eclatanti per sviluppare questa forma depressiva di sottofondo. Modelli genitoriali inadeguati possono arrecare, inconsapevolmente, molti danni allo sviluppo psicoaffettivo del bambino, fino a distruggere quella che in psicologia è definita fiducia epistemica primaria.Nelle relazioni primarie (cioè nei primi legami che stringiamo da bambini con le figure genitoriale) impariamo se possiamo fidarci o meno del prossimo, impariamo a valutare l’altro come una spalla sulla quale poter contare o come qualcuno da cui difendersi. In modo riduzionistico, se i nostri bisogni di accettazione, di vicinanza, di benevolenza e di supporto sono stati soddisfatti in modo opportuno, vedremo nell’altro una risorsa. Al contrario, perderemo ogni speranza, l’apprendimento implicito e precoce è un secco: «nessuno può aiutarmi, devo (e dovrò!) arrangiarmi sempre da solo!» Oppure: «sono un peso! Sono talmente inaccettabile che neanche chi dovrebbe amarmi di più al mondo vuole prendersi cura di me!».

In termini pratici, se un giorno un bambino è spaventato dall’abbaiare di un cane e, nel genitore, non trova un rifugio sicuro ma trova parole sprezzanti del tipo: «smettila di frignare come una femminuccia! È solo un cane!». Quello seguente, il bambino piange perché si è sbucciato il ginocchio e invece di trovare rassicurazioni il genitore parte con un «te l’ho detto che non dovevi correre! Sei stupido, tu non mi ascolti!». Poi ancora, se fa i capricci, parte subito un «Se continui la mamma si arrabbia»… Un modello genitoriale svilente, che invalida costantemente tutte le manifestazioni emotive del bambino, giorno dopo giorno, eliminerà ogni forma di speranza. Il bambino non imparerà che, se ha paura, può contare sull’altro, anzi, imparerà che l’altro può essere altrettanto spaventoso. Non capirà che, se si fa male, può guarire e rialzarsi, anzi, apprenderà che non può, anzi, non deve sbagliare mai! Imparerà che le emozioni non vanno espresse perché queste innescano reazioni avverse.

Alla base di quella malinconia di sottofondo.

Alla base di tutta quella malinconia di sottofondo che ci portiamo dentro, c’è la fiducia violata di un bambino spaventato che non voleva altro che essere rassicurato. I bambini sono esseri emotivi, non razionali, hanno bisogno di rassicurazioni, attenzioni, ascolto empatico e vicinanza affettiva, non hanno bisogno di giocattoli costosi contornati da prediche e offese!

Abbiamo detto che chi sperimenta questa malinconia di sottofondo, talvolta appare molto forte, quasi invincibile. Allora come fare per capire queste persone? Vediamo insieme alcune frasi che possono essere un indicatore di un vissuto difficile, di una sofferenza di sottofondo.

Frasi tipiche delle persone depresse che non sembrano depresse.

Vediamo quali sono le frasi tipiche delle persone senza speranza e ti darò anche qualche suggerimento per rispondere. Se quella persona che ha perso ogni briciolo di fiducia sei tu, sappi che puoi ripetertele da solo. È vero, ognuno di noi ha bisogno di comprensione dall’esterno ma spesso e volentieri, la vera vicinanza di cui abbiamo bisogno è la nostra! Dobbiamo imparare a entrare in contatto con noi stessi e ascoltarci davvero. La sofferenza che ci portiamo dentro ci sta raccontando una storia che riguarda il nostro passato, oggi tocca a noi scrivere il nostro

«Tutte le storie sono destinate a finire»

Come rispondere a una persona cara: «ma perché, tu le hai provate davvero tutto? Le conosci tutte?»Come rispondere a se stessi: «penso questo solo a causa delle mie esperienze drammatiche, questo mio pensiero è legato più a vissuti emotivi che non a un processi riflessivi. Da oggi, voglio riflettere di più su me stesso e su come mi stanno condizionando i miei vissuti del passato.»«Tanto, tutto è inutile»Come rispondere a una persona cara: «io credo che ce la farai, so che tutto ti sembra nero, ma le cose belle accadono».

Cosa dire a se stessi: «cosa ho provato per cambiare questa situazione? Ho provato davvero tutte le strade o sono prevenuto?

I risultati dipendono solo da me? Io non posso cambiare le condotte altrui ma posso prenderne le distanze, posso costruire la mia isola felice perché la merito».

«Non valgo nulla»Come rispondere a una persona cara: «Beh, io ti voglio bene così come sei»Cosa dire a se stessi: «sento di non valere nulla perché una parte di me mi induce a sentirmi così. Ma «sentirsi» in un certo modo non significa «essere». Le emozioni che provo alterno fortemente le mie percezioni, piuttosto dovrei chiedermi, cosa mi ha fatto sentire così?»

«Ormai» – «Oramai è troppo tardi»

Come rispondere a una persona cara: «Pensaci un po’, se tu iniziassi oggi un corso di cucina tra tre anni potresti anche essere uno chef stellato! Non è mai troppo tardi se si hanno progetti, è la fretta di realizzare che ti tarpa le ali»Cosa dire a se stessi: «Troppo tardi rispetto a cosa? Non sto facendo alcuna competizione! A volte dimentico che sono io il padrone della mia vita, quindi li scandisco io i miei tempi. Posso proseguire a piccoli passi, posso fare pause, perdere tempo, allontanarmi dai miei obiettivi e poi tornarci…! Posso rilassarmi e poi proseguire a piccoli passi.»

«Vorrei tornare quello di prima»Come rispondere a una persona cara: «Va bene, allora cosa possiamo fare oggi per ritornare allo splendore di un tempo? Possiamo farlo insieme!».

Cosa dire a se stessi: «Le mie emozioni mi proiettano al passato, concentrandomi sul presente posso addirittura essere migliore di prima. Ogni giorno voglio dedicare un po’ di tempo a me stesso, cimentandomi in attività che piacciono. Voglio nutrire la mia identità, voglio finalmente prendermi davvero cura di me!». Riscrivi le Pagine della Tua Vita.

Ormai molti già lo conoscono, si tratta del mio libro bestseller: «Riscrivi le Pagine della Tua Vita». Se non lo hai ancora fatto, ti consiglio di leggerlo, lo trovi su amazon e in tutte le librerie. In ogni pagina, ti spiego come ridefinire la tua identità a partire dai tuoi vissuti del passato e dalle emozioni che provi oggi. Potrai finalmente concederti il lusso della politica dei piccoli passi, cioè riuscirai a migliorare la tua vita giorno per giorno, senza pretendere tutto e subito, in ogni capitolo, infatti, ci sono esercizi pratici e nozioni che possono aiutarti fin da subito a migliorare la qualità della tua vita a partire dalla relazione che hai con te stesso e con gli altri. Puoi ripartire ricostruendo quella fiducia perduta. C’è una persona che non dovrebbe deluderti mai: quella persona sei tu! Ricorda: anche tu meriti la tua fetta di felicità in questa vita, abbi il coraggio di allungare la mano per prenderla! È tua, ti spetta di diritto.

A.De Simone, psicologo esperto in neuropsicobiologia

Fonte: Psicoadvisor

Comportamenti tipici dei genitori invadenti

Essere invadenti non ha nulla a che vedere con l’essere premurosi. Un genitore può essere premuroso senza essere invadente. Queste prime due frasi sono doverose perché spesso, i genitori, celano la loro invadenza dietro un eccesso di premura, quasi di preoccupazione spasmodica per il figlio. Diciamolo una volta per tutte: l’invadenza non ha nulla a che fare con la cura, con l’essere premurosi.

So che molti genitori storceranno il naso a leggere queste prime righe ma è così, l’invadenza non è una naturale evoluzione della preoccupazione ma è una chiara mancanza di rispetto, una chiara violazione dei confini psicorelazionali del figlio. Il genitore che vuole gestire la vita di suo figlio.

Più che alla volontà di proteggere il figlio, l’invadenza è meglio associata alla desiderio di voler gestire la vita del figlio. A questo può arrivare un genitore che tratta il figlio come un’estensione di sé, non riconoscendogli una sua identità personale.

Ciò succede quando il genitore proietta nel figlio parti di sé come pure tutte le sue ambizioni mancate, i suoi sogni infranti e le sue ferite. Così il figlio avrà il compito di riscattare la vita del genitore, di prendere in eredità, il carico emotivo del genitore. Lo scotto da pagare? Quel bambino non sarà mai in grado di sviluppare un’identità propria.

Questo andamento lo vediamo spesso in quei genitori che organizzano la vita del figlio, che già gli hanno programmato il percorso di studi, le amicizie da frequentare e le attività extrascolastiche, senza mai interessarsi davvero alle ambizioni del piccolo. Servendosi di sensi di colpa, ricatti emotivi e manipolazione affettiva, alcuni genitori sono capaci di inculcare la propria volontà nel figlio ancora piccolo. Iniziano sostituendo i desideri del bambino, con i propri.

Quel bambino, ben presto, si ritroverà a invalidare se stesso e a negare parti di sé per soddisfare il genitore. Ricordiamoci questo, un bambino vuole giocattoli, vuole dolciumi ma più di tutto vuole vedere nel genitore quel bagliore di fierezza, vuole sentirsi importante ai suoi occhi e, anche se non lo da a vedere apertamente, fa di tutto per riuscirci, anche se questo significa rinunciare a se stesso.

E da adulti?

Se prima, da bambini, era la gestione del tempo, i vestiti da indossare e le attività extra scolastiche, quando i figli sono adulti, quei genitori non smettono e continuano a esercitare la propria invadenza. Ecco che vogliono avere influenza su:

la scelta del partner

la carriera (studio e lavoro)

la stessa relazione genitore-figlio (livello di attaccamento e confini)

Un buon genitore, imperfetto come tutti gli esseri umani ma che riconosce al figlio una sua identità, può provare disappunto verso la scelta del partner esercitata dal figlio, tuttavia riesce ad accettarla. Può fargli presente determinati atteggiamenti del partner ma senza mai rimanere invischiato nelle dinamiche di coppia.

Insomma, riesce a gestire i confini perché, prima di tutto, accette e stima suo figlio.

Un genitore invadente, invece, se il figlio devia dal suo programma e gli presenta un partner non congeniale ai suoi piani, non solo palesa il suo disappunto ma glielo farà pesare. Lo farà a ogni litigio, anzi, non perderà nessuna occasione per sottolineare quanto l’abbia deluso con quella scelta. Già, perché fin da bambino, il genitore ha creato un vincolo. Ha vincolato l’erogazione dell’amore alla condotta del figlio. Un ricatto bruttissimo che i genitori invischianti operano spesso.

La sintesi è questa: se vuoi il mio amore, devi essere ciò che voglio io e negare chi sei veramente. È così che i genitori innescano nei figli, fin da piccoli, il seme dei conflitti interiori. Ancora peggio, gli insegnano l’amore condizionato, cioè un amore senza accettazione, senza stima… cioè un amore che in realtà, non è affatto amore dato che accettazione e stima sono alla base!

Il genitore invadente sfrutta impropriamente il suo potere

Quando un bambino viene al mondo è indifeso e bisognoso di cure. Il genitore si fa carico del figlio e, man mano che egli cresce, innesca un’insana dinamica di potere che suona così:

Io ti ho nutrito

Ti ho cresciuto

Io ti ho mantenuto economicamente

Ho investito le mie energie su di te

Ora tu mi appartieni, sei in debito!

Ovviamente, tale dinamica di potere sarà ben nascosta e mascherata da parole come “sacrificio”, “amore”, “preoccupazione” ma inevitabilmente emergerà mediante frasi quali: «per tutto quello che ho fatto per te», «me lo devi», «non puoi farmi questo», «tu puoi fare quello che vuoi ma poi non contare su di me» (che quindi, significa, puoi fare solo ciò che voglio io, perché il bambino ha solo i genitori su cui contare).

Questa dinamica, innesca una serie di ricatti morali nel figlio che si sentirà obbligato ad accondiscendere ai bisogni genitoriali, in lui emergeranno sensi di colpa, vergogna, sensazione di non essere abbastanza, rabbia repressa, ferita del rifiuto (…). In determinate situazioni, nel figlio emerge una rabbia più esplicita, accompagnata da condotte ribelli.Purtroppo la mentalità gerarchica e priva di amore che ho descritto nei 5 punti elencati in precedenza, è molto più comune di quanto si possa immaginare. Chi decide di mettere al mondo un figlio dovrebbe farlo mosso dal desiderio di donare amore incondizionato. Non è quel bambino che ha chiesto di venire al mondo. È dunque dovere del genitore supportare, nutrire e assicurare al figlio un’istruzione. Nel farlo, non guadagna alcun credito, non dovrebbe maturare alcuna pretesa! E questo non è affatto triste. Sapete perché? Perché un legame solido e ben nutrito, ripaga più di qualsiasi ricatto morale, ripaga più di qualsiasi pretesa.

Quando il genitore non riconosce al figlio il diritto di esistere

Un genitore invadente, non riconosce al figlio il diritto di esistere perché sistematicamente gli nega l’opportunità di pensare con la sua testa. Il figlio finisce per interiorizzare completamente il punto di vista genitoriale oppure per detestarlo. Un figlio che viene costantemente invalidato, in realtà, non ha la consapevolezza di ciò che sta subendo, si sente solo oppresso e non riuscendo a dare un significato a quei sentimenti di oppressione, potrebbe ripercuoterli su tutto (genitori, compagni di scuola…), oppure potrebbe annullare completamente se stesso.In entrambi i casi, un genitore invadente non si rende conto che con le sue pretese nascoste, con i suoi obblighi morali, finirà per: seminare il risentimento a lungo termine fomentare rabbia

creare un attaccamento disfunzionale e precario

negare al figlio autonomia e individuazione

creare un legame del tutto fasullo

Un genitore che riconosce al figlio il diritto di esistere in proprio, senza dipendenza e oppressione, gli consente di sviluppare idee, preferenze, bisogni propri e un pensiero personale che potrebbe anche essere divergente da quello genitoriale. Ci sta!Quando l’invadenza è solo legata alla preoccupazione

Vi sono forme di invadenza più innocenti che possono rimandare alla mera e fisiologica preoccupazione. Queste forme, sono più caratteristiche dei genitori ansiosi. In questo caso, l’invadenza si fa sentire quando il figlio passa molto tempo fuori casa. Il genitore sente il bisogno di rassicurarsi costantemente sullo stato di benessere del figlio e così può essere più pressante con telefonate e dettare regole di rientro più rigide .

Potrebbe capitare che il genitore diviene più presente nella vita del bambino prima e dell’adolescente dopo. In forme più complesse, il genitore potrebbe involontariamente non incoraggiare un’indipendenza adeguata allo sviluppo (la classica mamma chioccia).

Ma in questi casi, mancano tutte le componenti di repressione, obbligo, mancano i ricatti morali (…) e soprattutto, il figlio non è vissuto come uno strumento di realizzazione personale ma solo come un destinatario di amore e cure. Non solo, con la crescita del figlio anche il genitore inizia a sentirsi più sicuro così da superare insieme i timori e le incertezze legate al futuro .

Alla ricerca di uno scopo

Il genitore diviene invadente e bramoso di gestire la vita del figlio quando la sua stessa identità è coinvolta nella realizzazione del figlio. Il successo del figlio fa sentire i genitori migliori, realizzati, come se la loro vita (percepita come priva di senso) avesse finalmente uno scopo, una direzione chiara! Il figlio non è vissuto come una persona a sé ma un mezzo mediante il quale soddisfarsi. Fare il genitore è sicuramente difficile ma talvolta manca proprio l’ABC. In fondo, per essere un buon genitore, basterebbe riconoscere al bambino il suo diritto d’esistere come individuo a sé, degno di stima e di amore.

A.De Simone, psicologo esperto in neuropsicobiologia. Autore del bestseller «Riscrivi le pagine della tua vita» edito Rizzoli

Fonte: psicoadvisor.com

Le strutture d’interazione madre-bambino e le rappresentazioni presimboliche del sé e dell’oggetto

SOMMARIO

Gli autori prendono in esame i modelli d’interazione madre-bambino e la loro rilevanza per le origini presimboliche delle rappresentazioni del sé e dell’oggetto, prestando una particolare attenzione alla rappresentazione dell’interfaccia tra il sé e l’oggetto. Nella prospettiva dei sistemi diadici, secondo la quale il sistema é definito dai processi di autoregolazione e di regolazione interattiva, gli schemi alla base di questo sistema di regolazione danno origine a strutture d’interazione precoci, che costituiscono la base per le rappresentazioni del sé e dell’oggetto. Poiché i partner si influenzano reciprocamente momento per momento, ciò che viene rappresentato presimbolicamente è il processo interattivo e dinamico (l’interscambio). È questo un punto di vista dinamico e processuale delle rappresentazioni “interattive” e “diadiche”. L’idea che strutture d’interazione precoci organizzino l’esperienza si basa su un modello trasformazionale all’interno del quale hanno luogo continue trasformazioni e ristrutturazioni e che identifica sviluppo e riorganizzazione. Allo scopo di definire le abilità sulle quali si basa la capacità di rappresentazione presimbolica, viene proposta una panoramica delle ricerche effettuate negli ultimi dieci anni sulla memoria e la percezione infantile, i cui risultati hanno cambiato radicalmente il nostro concetto di rappresentazione. Attraverso le strutture d’interazione descritte si rileva l’importanza dell’arousal, dell’emozione, dello spazio e del tempo nell’organizzazione precoce dell’esperienza: 1) la trasformazione dello stato: l’aspettativa che l’arousal possa essere modificato attraverso l’influenza esercitata dal partner; 2) l’esperienza del faccia a faccia: l’aspettativa di corrispondenza positiva nello scambio affettivo; 3) la disgiunzione e la riparazione: l’aspettativa di una facile e rapida riparazione interattiva a seguito di un mancato rispecchiamento visivo- facciale; (4) la sequenza “avvicinamento-evitamento”: l’aspettativa di una mancata regolazione e di un disimpegno dell’orientamento spaziale, senza riparazione; (5) la regolazione interpersonale: l’aspettativa di una coincidenza del ritmo vocale.

SUMMARY MOTHER-INFANT INTERACTION STRUCTURES AND PRESYMBOLIC SELF-AND OBJECT REPRESENTATIONS

Using research on the purely social face-to-face exchange, we examine patterns of mother-infant interaction and their relevance for the presymbolic origins of self and object representations, focusing on representation of inter-relatedness between self and object. Based on a dyadic system view in which the system is defined by both self-and interactive-regulation processes, we argue that characteristic patterns of self and interactive regulation form early interaction structures, which provide an important basis for emerging self and object representations. What will be represented, presymbolically, is the dynamic interactive process itself, the interplay, as each partner influences the other from moment to moment. This is a dynamic, process view of “interactive” or “dyadic” representations. The argument that early interaction structures organize experience is based on a transformational model in which there are continuous transformations and restructurings, where development is in a constant state of active reorganization. To define the capacities on which a presymbolic representational capacity is based, we review the last decadès research on infant perception and memory, which has radically changed our concepts of representation. The interaction structures we describe illustrate the salience of arousal, affect, space and time in the early organization of experience: 1) state transforming, the expectation that an arousal state can be transformed through the contribution of the partner; 2) facial mirroring, the expectation of matching and being matched in the direction of affective change; 3) disruption and repair, the expectation of degree of ease and rapidity of interactive repair following facial-visual mismatches; 4) “chase and dodge”, the expectation of the misregulation and derailment of spatial-orientation patterns, without repair; 5) interpersonal timing, the expectation of degree of vocal rhythm matching.

Nel considerare le origini delle rappresentazioni del sé e dell’oggetto, ci basiamo sulla premessa che la madre (o il padre o il caretaker) e il bambino generano le modalità attraverso le quali fanno esperienza l’una dell’altro. Ci interessa comprendere come viene organizzata e rappresentata questa esperienza da parte del bambino. Non ci occuperemo del modo in cui viene rappresentata l’interazione da parte del genitore. Esamineremo la rilevanza degli schemi precoci di interazione propri del primo anno di vita, considerando le rappresentazioni del sé e dell’oggetto dal punto di vista della loro origine presimbolica. Facendo riferimento allo schema evolutivo di Piaget (1954), collochiamo alla fine del primo anno di vita l’emergere del pensiero simbolico, che si riorganizza profondamente nel periodo tra i sedici e i diciotto mesi e si consolida nel corso del terzo anno di vita. La simbolizzazione viene definita come la capacità di rievocare un oggetto fisicamente assente e di riferirsi ad esso secondo una modalità che non è determinata dalla sua configurazione reale, ma attraverso un simbolo convenzionale (linguistico) (Piaget, 1937; Werner e Kaplan, 1963). Affronteremo un aspetto particolare delle origini presimboliche delle rappresentazioni del sé e dell’oggetto, cioè la rappresentazione dell’interconnessione tra il sé e l’oggetto, limitando il discorso allo scambio faccia a faccia di natura squisitamente sociale. Non rientrano, invece, nei fini della nostra trattazione gli studi, per altro importanti, sulla regolazione degli stati di pianto, sull’alternarsi del ritmo sonno-veglia, sulla nutrizione e sugli stati di solitudine, anch’essi alle origini delle rappresentazioni del sé e dell’oggetto (per un’elaborazione di questi temi cfr. Sander, 1977, 1983, 1985). Ciò che sosteniamo è che le strutture precoci di interazione rappresentano un’importante base per l’emersione delle rappresentazioni del sé e dell’oggetto (cfr. Beebe e Stern, 1977; Stern, 1977, 1985, 1989;

Beebe, 1986; Beebe e Lachman, 1988a, 1988b). Le strutture d’interazione sono schemi caratteristici di reciproco influenzamento tra madre e bambino attraverso i quali si manifesta l’interazione. Esse includono sia il modo in cui il bambino regola il suo arousal (autoregolazione) sia la regolazione interattiva. Le strutture d’interazione sono organizzate attraverso le dimensioni del tempo, dello spazio, delle emozioni e dell’arousal, costituendo gli schemi ricorrenti che il bambino impara a riconoscere, prevedere e ricordare. Man mano che si ripetono diventano strutture generalizzate e cominciano ad organizzare l’esperienza del bambino. Poiché i partner si influenzano l’un l’altro momento per momento, ciò che viene rappresentato a livello presimbolico è il processo interattivo e dinamico, l’interfaccia. Definiamo queste rappresentazioni “diadiche” o “interattive”, poiché ciò che viene rappresentato è l’esperienza che il bambino ha della diade. Benché il sé e l’oggetto siano stati ampiamente concettualizzati in psicoanalisi, la diade non ha avuto la stessa sorte. I concetti del sé e dell’oggetto, come entità individuali, discrete e statiche, non riflettono la natura dinamica dell’interazione generata dalla diade (cfr. Modell, 1984, 1992). Abbiamo quindi bisogno di una teoria della diade come sistema all’interno del quale i rapporti tra sé e oggetto possano essere meglio concettualizzati. Molti filosofi concordano ampiamente nel descrivere le interazioni come diadicamente strutturate. Mead (1934), Lashley (1951), Habermas (1979), Bruner (1977) hanno offerto descrizioni in linea con la prospettiva dei sistemi di interazione diadici. Questi autori fanno riferimento ad un sistema di mutualità (un sistema di relazioni reciproche), di mutuo riconoscimento e di regole condivise (cfr. Tronick, 1980). Sander (1977, 1983, 1985) è stato uno dei più autorevoli sostenitori del modello dei sistemi diadici nella ricerca infantile. Egli suggerisce che l’organizzazione del comportamento nell’infanzia dovrebbe essere considerata una proprietà del sistema madre-bambino, piuttosto che una proprietà dell’individuo (cfr. Weiss, 1973). Se l’unità di organizzazione è la diade, e non l’individuo, e se gli individui sono le componenti del sistema, il sistema è definito sia da processi di autoregolazione, sia da processi di regolazione interattiva (cfr. Hofer, 1987). La prospettiva dei sistemi diadici si rifà ad un modello in cui l’informazione è ricevuta ed emessa simultaneamente da entrambi i partner (cfr. Beebe, Jaffe e Lachman, 1992). Nel 1970 ha avuto luogo un’importante svolta nel campo della ricerca infantile: fino allora la maggior parte della ricerca sullo sviluppo del bambino aveva preso in considerazione l’influenza del genitore sul bambino. La ricerca, preceduta da una critica di Bell (1968) e da un’attenzione crescente alle capacità del bambino, ha cominciato ad indirizzarsi verso un modello di mutua influenza (cfr. Lewis e Rosenblum, 1974), in cui entrambi i partner contribuiscono alla regolazione dello scambio, anche se non necessariamente allo stesso modo o nello stesso grado. Negli ultimi vent’anni il punto centrale della ricerca sull’interazione sociale infantile si è incentrato sul modo in cui valutare il sistema diadico e su come provarne statisticamente la bidirezionalità. Gli studi qui riportati utilizzano la prospettiva dei sistemi diadici di comunicazione e descrivono le prove sperimentali della presenza di regolazioni interattive bidirezionali. La tesi che strutture d’interazione precoci organizzino l’esperienza si basa sull’ipotesi che la continuità dello sviluppo si situi al livello degli schemi di relazione, cioè delle strutture d’interazione generalizzate (Zeanah et al., 1990). Riteniamo che la continuità non si basi su un modello lineare di sviluppo (cfr. Reese e Overtorn, 1970), ma su un modello trasformazionale all’interno del quale avvengono continue trasformazioni e ristrutturazioni. Come ha sostenuto Sameroff (Sameroff e Chandler, 1976; Sameroff, 1983), lo sviluppo è caratterizzato da uno stato di costante riorganizzazione attiva. Inoltre, non è possibile fare previsioni se si prende in considerazione solo il bambino o solo l’ambiente: per poter essere predittivi bisogna considerare le transazioni tra il bambino e l’ambiente e la regolarità delle loro ristrutturazioni (Sameroff e Chandler, 1976). A questo proposito riteniamo che, dopo il primo anno, avvengano molteplici trasformazioni e ristrutturazioni dei modelli di relazione…

(continua)

Traduzione dall’americano di Daniela De Robertis e Maria Luisa Tricoli.