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Catfishing : ‘pesce gatto’ vittime ed effetti psicologici

Diverse ricerche hanno esplorato gli effetti psicologici sulle vittime di catfishing, soprattutto nell’ultimo anno in cui le relazioni digitali, per via del Covid, hanno preso il sopravvento.

cos’è il catfishing significato e conseguenze

Su Netflix c’è un reality, The Circle, che racconta bene cosa vuol dire sfruttare la propria identità digitale per piacere al prossimo. Questi ragazzi chiusi ognuno nella propria stanza e monitorati costantemente dalle telecamere possono inventarsi di sana pianta un’immagine di sé per conquistare gli altri del gruppo, oppure scegliere di essere semplicemente chi sono. Nel primo caso, voilà, siamo già nella prima fase di un catfishing ben congeniato.

Hai presente il catfishing, no? Questa parola è entrata nell’uso comune in Italia anche grazie al documentario con Nev Schulman del 2010 e a programmi cult come Catfish – false identità su MTV e identifica relazioni nate principalmente online in cui uno dei due partner finge di essere qualcun altro, non si mostra mai realmente per quello che è, in certi casi fa finta di essere donna anziché uomo (o viceversa). Complice la distanza fisica e la fiducia che le vittime di catfishing rimpongono in queste persone, bugiardi seriali di questo tipo vanno avanti finché si crea una vera e propria co-dipendenza. E sbam, il danno (per chi ne è vittima) è fatto.Related StoryCome smascherare un wokefish al primo appuntamentoNella mente del catfisher, perché si mente sulla propria identitàMa c’è di più. Nell’anno del Covid, nel quale le relazioni si sono giocate principalmente online con parecchie conseguenze sulla libido e sul benessere mentale, finire nella rete di chi mente sapendo di mentire, per tanti, è stato facilissimo. Con parecchie conseguenze sul cervello, sul modo in cui si vive l’amore e si dà fiducia al prossimo. Il significato del catfishing in psicologia, sulla base di diversi studi portati avanti recentemente, sta tutto in queste tre sfere. Nello studio pubblicato su Sexual and Relationship Therapy che si chiama “Adult attachment and online dating deception: a theory modernized” nel 2020, ad esempio si è cercato di capire chi sono le vittime perfette del catfishing. Attenzione: non è una questione di stupidità. Fidarsi di qualcuno, innamorarsene in certi casi, non lo è mai.

Si tratta di fiducia da un lato e di grande capacità manipolatoria dall’altra. L’identikit di chi cade nella rete di queste persone è quello di una donna (in media) che ha anxiety issues, ovvero problemi di ansia. E che tende ad appoggiarsi al partner per trovare sollievo.Related StoryUn anno di terapia mi ha salvata dall’ansiaIn una inchiesta di The Conversation, che ha intervistato dei catfisher seriali, si è invece cercato di capire perché queste persone sono spinte ad approfittare degli altri, mentendo su chi sono, spesso per soldi. Solitudine, tristezza, incapacità diffusa di gestire le relazioni sono le motivazioni di chi diventa catfisher. Non per giustificarli, ma a livello psicologico spesso la sfera mentale di chi viene ingannato e di chi inganna è simile, almeno nelle premesse.catfishing, cos’è e quali sono le conseguenze su relazioni e benessere mentaleFidarsi degli altri a volte è un gran casino.

Nello studio “Managing Impressions Online: Self-Presentation Processes in the Online Dating Environment” si è cercato di capire perché, a volte, mettiamo filtri sulla nostra personalità. Sì, la parola filtro non è casuale soprattutto se la applichi al mondo di Instagram e dei social di oggi, nei quali si possono cambiare i connotati con una facilità disarmante, creando un gap tra ciò che si mostra e come si è realmente. In questo caso, secondo gli esperti, i catfished sono persone (a volte, milioni e milioni) che credono di conoscere una persona in base a come si presenta. In generale però quando ci presentiamo sulle app di dating oppure parliamo con qualcuno conosciuto online, puntiamo a mettere al centro il nostro ideal self. Il modo in cui vorremmo essere, insomma. In certi casi, quella che è tendenza umana e comprensibile diventa patologia. E serialità.Le conseguenze del catfishingIn un approfondimento di Bustle, il neuropsicologo Dr. Sanam Hafeez ha detto che quando capiamo di essere stati manipolati la testa va in tilt per lo stress. Non solo: in quel momento il cervello impara a reagire a certe situazioni che somigliano a quella vissuta, anche se magari prenderanno tutta un’altra strada. Ed ecco che fidarsi degli altri diventa un’impresa.

Lovebombing, cos’è e come riconoscerlo

Gli studi sulle vittime di catfishing – che sono tante, molte di più di quelle che credi – persone che sono state manipolate da una persona a cui avevano dato tutto (dal cuore alla password del conto in banca) confermano che per guarire ci vuole un aiuto esterno, ad esempio un psicoterapeuta. E che è normale sentirsi stupidi, ma non è necessario che questa sensazione duri per sempre. Può evolvere, nel tempo, in qualcosa di positivo. E il cervello può essere allenato a non inserire ogni relazione nella casella “Alert: pericolo”. Conoscere e capire questo tipo di manipolatori è il primo passo per riuscirci.

Cosmopolitan di G. GALLO

Sinone. La spia ‘dietro’ al cavallo di Troia

La storia del cavallo di Troia è indubbiamente una delle prime spy-story conosciute. Meno conosciuto è, invece, il nome della spia che mise in piedi l’inganno: Sinone.Sinone è l’antesignano della spia di guerra, il protagonista di un capolavoro di spionaggio divenuto un modello. Mettendo sé stesso al centro di un finto complotto, che sarebbe stato ordito contro di lui dai suoi stessi compagni, riesce astutamente a farsi accogliere dai nemici. Recitando la parte del falso disertore e inventando una storia con fatti e persone reali, riesce ad accreditarsi come attendibile nonostante i passaggi poco logici del suo discorso, oscillanti tra incertezze e ambiguità, e distogliendo continuamente l’attenzione dei personaggi coinvolti dal vero focus della vicenda.

Del suo operato Virgilio fornisce una descrizione nel secondo libro dell’Eneide, dove fa narrare a Enea le ultime ore della città di Troia. Siamo nel XII secolo A.C. circa e sono passati dieci anni ormai dall’inizio della guerra e i greci non riescono a espugnare la città. Fingono di ritirarsi con le navi, ma in realtà si nascondono dietro un’isola, di fronte alla piana di Troia. Hanno lasciato dietro di loro un enorme cavallo di legno con all’interno, nascosti, alcuni valorosi guerrieri. I troiani scorgono l’artefatto e sono indecisi su cosa farne. Tra la folla spunta Laocoonte il quale, nel tentativo di dissuadere la sua gente dall’accettare il cavallo, pronuncia una frase divenuta poi proverbiale anche nel mondo dell’intelligence: «timeo Danaos et dona ferentes», letteralmente «temo i greci anche quando portano doni». In parole più semplici, non fidarti mai dei nemici, anche quando appaiono benevoli.

L’ingresso della spia nella vicenda e il pathos narrativo

È a questo punto che compare sulla scena Sinone. Egli si è fatto catturare da alcuni pastori e, con le mani ancora legate dietro la schiena, lascia che la folla lo insulti, indossando subito i panni della vittima. Si finge perseguitato dai compagni greci per essere rimasto fedele al suo padrone Palamede, falsamente descritto come contrario alla guerra contro Troia. Ulisse, saputa di questa sua fedeltà, gli avrebbe teso un inganno. Avrebbe imposto all’indovino di fare il nome di Sinone come vittima sacrificale di un rito che avrebbe dovuto placare i venti per consentire il rientro in patria alle navi greche in ritirata.

Facendo leva sul desiderio di pace dei troiani, Sinone riesce ad attirare la loro simpatia con un commovente racconto accompagnato da finte lacrime. Abbassata la guardia, e così disarmati, i troiani placano il loro rancore nei confronti del greco. Egli si presenta come vittima di un’ingiustizia, uno sventurato che il destino ha reso sì infelice, ma fedele e mai disonesto o bugiardo. Non appare come un vigliacco traditore in fuga, una condizione che avrebbe potuto insospettire i suoi interlocutori. I troiani, infatti, hanno ben conosciuto la sciagura durante i dieci anni di assedio e, per questo, sono disposti a comprendere quella altrui. Il racconto di Sinone si colora della disperazione per la vendetta che i suoi infidi compagni greci, una volta ritornati in patria, avrebbero perpetrato nei confronti dei suoi familiari. Riesce quindi a far apparire la sua uccisione come gradita ai greci accomunando, così, il suo destino a quello degli stessi troiani. Ed è a questo punto che chiede accoglienza presso Troia.Virgilio, dimostra di essere un fine conoscitore di tecniche di interrogatorio e così, lì dove sarebbe rischioso aggiungere particolari nel discorso, sorvola. Ad esempio quando Sinone racconta la notte passata all’addiaccio dopo il ritiro dei greci, non chiarisce perché la partenza sia avvenuta comunque senza il previsto sacrificio umano, ma cambia rapidamente argomento. In altri casi fa interrompere la narrazione di Sinone con una supplica per distrarre l’attenzione da una narrazione poco lineare. Oppure, nonostante il maestoso cavallo di legno sia costantemente presente sulla scena, nella narrazione viene nominato solo di sfuggita allontanando, così, il sospetto che la finta cattura possa essere simulata al solo scopo di introdurre il cavallo nella città.Il capolavoro della deception.

La narrazione del cavallo di Troia nelle parole di Sinone

La preghiera finale di Sinone per aver salva la vita viene quindi accolta e in cambio gli viene chiesto di spiegare il significato di quel cavallo. Sinone promette di svelarne il segreto e, per aumentarne l’importanza, impegna i troiani a mantenere la promessa di accoglierlo tra le mura della loro città. Inizia così un altro capolavoro di arguzia e sottigliezza. Nelle parole di Sinone, il cavallo sarebbe stato costruito per rimediare al furto del Palladio, una statua posta sulla rocca di Troia a protezione della città. Con una dovizia di particolari non verificabili, Sinone racconta delle sventure che questa ruberia avrebbe portato nell’accampamento greco facendo, così, presagire la sconfitta in guerra. Il cavallo, quindi, è stato costruito per rimediare al sacrilegio compiuto e alle nefaste conseguenze. E aggiunge un particolare. Sarebbe stato appositamente costruito più alto delle porte di accesso a Troia per evitare che i troiani possano introdurlo nella città, guadagnandosene i favori. I ‘poteri’ del cavallo, infatti, avrebbero permesso loro di muovere guerra ai greci oramai in fuga.

I troiani ispirati dall’abile discorso di Sinone, accecati dalla voglia di rivalsa che questi era riuscito a suscitare, decidono di aprire una breccia nella cinta delle mura della città e introdurvi il cavallo. Il piano è poi noto. Col favore della notte, Sinone, dopo aver ricevuto il segnale luminoso dalle navi greche, apre il ventre del cavallo e libera i compagni che spalancano le porte all’esercito greco che metterà a ferro e fuoco la città.

Sinone, cugino e amico di infanzia di Ulisse, seguirà quest’ultimo nel suo viaggio di ritorno morendo però nel porto di Messina, prima di poter giungere a Itaca. Le sue capacità di inganno e manipolazione, tanto celebrate dai suoi compatrioti, convinceranno Dante Alighieri a ‘condannarlo’ all’inferno tra i falsificatori di persona, attribuendo le sue doti alla malizia e alla genialità fraudolenta. Il ‘triste’ destino di una spia

Fonte: sicurezzanazionale.gov.it

Disturbi dell’Umore

La depressione altro non è che uno stato in cui l’individuo vive in totale assenza di speranza, speranza per sé e per il futuro, segnato dall’ineluttabile amarezza della vita. Già, perché la sofferenza è vissuta come qualcosa di ineluttabile, inevitabile, quasi come una caratteristica intrinseca della vita. Questo stato si verifica quando anche l’ultimo baluardo di fiducia viene a mancare.

Con questa introduzione, oggi non voglio parlare di depressione maggiore, cioè di quell’etichetta clinica che è accompagnata da determinati criteri diagnostici. Oggi mi preme parlare di un tipo di depressione nascosta, silente, che accompagna molti di noi e che, purtroppo, non avendo alcuna definizione diagnostica, troppo spesso passa inosservata.

Il risultato? La persona si trascina senza vivere con pienezza la sua vita, senza mai conoscere fiducia e comprensione. In effetti se ci si soffermiamo a rifletterci, come potrebbero essere compresi nella loro sofferenza se nessuno ne parla? Se nessuno dà una spiegazione a quel dolore. Ecco che quelle persone finiranno per convincersi di essere loro inadatte alla vita. Niente di più sbagliato.Imparare a soffrire, un insegnamento difficile da dimenticare.

Alcune persone si muovono nella vita già sconfitte, come se avessero bisogno solo di sofferenza, abbandono e quanto di peggio possano provare. Questo accade perché, nella loro storia personale, non hanno mai conosciuto una reale spensieratezza. Sulle loro spalle, fin dall’infanzia, è sempre gravato un peso enorme: la responsabilità di una persona cara e/o la vergogna o la colpa per un torto subito di cui non hanno alcuna responsabilità. Queste persone non tentano neanche di conquistarsi la loro fetta di felicità perché ormai, è già andata! È stata perduta tanti anni prima e, come premesso, manca la speranza. Osservandole da lontano, non sembrano davvero depresse: si alzano, vanno a lavoro, sono efficienti, propongono soluzioni, si confrontano… Non scaricano la loro frustrazione sugli altri e all’apparenza sembrano forti o insensibili, tutto questo solo perché hanno imparato precocemente a mettere un tappo a certe manifestazioni.Il dolore ha un potere pazzesco. Quando una persona, anzi, un bambino, deve fare i conti con la sofferenza per lungo tempo, senza alcuna consapevolezza e supporto concreto, quel bambino finirà per normalizzare la sofferenza, finirà per renderla parte del suo presente, sempre. Stare male diventa una costante naturale della vita. Chi non ha conosciuto la leggerezza dell’infanzia, solo difficilmente da adulto potrà costruirsi il suo benessere: nessuno gli ha mostrato come si fa. La verità è che, da adulti, tendiamo a ricostruirci una realtà che in qualche modo possa restituirci le emozioni vissute durante l’infanzia.

Beh, se quelle emozioni appesantiscono il cuore e parlano di assenze, omissioni, promesse infrante e fiducia tradita, è chiaro che la speranza inizierà ad affievolirsi fino a sparire.Quella fiducia perdutaSul dizionario «Oxford Language», la speranza è definita come «l’attesa fiduciosa di un evento gradito o favorevole». Alcune persone non hanno mai ricevuto un feedback positivo dall’ambiente esterno. Sono cresciute costantemente frustrate, puntualmente tradite nelle speranze e nei bisogni. Non bisogna aver vissuto traumi eclatanti per sviluppare questa forma depressiva di sottofondo. Modelli genitoriali inadeguati possono arrecare, inconsapevolmente, molti danni allo sviluppo psicoaffettivo del bambino, fino a distruggere quella che in psicologia è definita fiducia epistemica primaria.Nelle relazioni primarie (cioè nei primi legami che stringiamo da bambini con le figure genitoriale) impariamo se possiamo fidarci o meno del prossimo, impariamo a valutare l’altro come una spalla sulla quale poter contare o come qualcuno da cui difendersi. In modo riduzionistico, se i nostri bisogni di accettazione, di vicinanza, di benevolenza e di supporto sono stati soddisfatti in modo opportuno, vedremo nell’altro una risorsa. Al contrario, perderemo ogni speranza, l’apprendimento implicito e precoce è un secco: «nessuno può aiutarmi, devo (e dovrò!) arrangiarmi sempre da solo!» Oppure: «sono un peso! Sono talmente inaccettabile che neanche chi dovrebbe amarmi di più al mondo vuole prendersi cura di me!».

In termini pratici, se un giorno un bambino è spaventato dall’abbaiare di un cane e, nel genitore, non trova un rifugio sicuro ma trova parole sprezzanti del tipo: «smettila di frignare come una femminuccia! È solo un cane!». Quello seguente, il bambino piange perché si è sbucciato il ginocchio e invece di trovare rassicurazioni il genitore parte con un «te l’ho detto che non dovevi correre! Sei stupido, tu non mi ascolti!». Poi ancora, se fa i capricci, parte subito un «Se continui la mamma si arrabbia»… Un modello genitoriale svilente, che invalida costantemente tutte le manifestazioni emotive del bambino, giorno dopo giorno, eliminerà ogni forma di speranza. Il bambino non imparerà che, se ha paura, può contare sull’altro, anzi, imparerà che l’altro può essere altrettanto spaventoso. Non capirà che, se si fa male, può guarire e rialzarsi, anzi, apprenderà che non può, anzi, non deve sbagliare mai! Imparerà che le emozioni non vanno espresse perché queste innescano reazioni avverse.

Alla base di quella malinconia di sottofondo.

Alla base di tutta quella malinconia di sottofondo che ci portiamo dentro, c’è la fiducia violata di un bambino spaventato che non voleva altro che essere rassicurato. I bambini sono esseri emotivi, non razionali, hanno bisogno di rassicurazioni, attenzioni, ascolto empatico e vicinanza affettiva, non hanno bisogno di giocattoli costosi contornati da prediche e offese!

Abbiamo detto che chi sperimenta questa malinconia di sottofondo, talvolta appare molto forte, quasi invincibile. Allora come fare per capire queste persone? Vediamo insieme alcune frasi che possono essere un indicatore di un vissuto difficile, di una sofferenza di sottofondo.

Frasi tipiche delle persone depresse che non sembrano depresse.

Vediamo quali sono le frasi tipiche delle persone senza speranza e ti darò anche qualche suggerimento per rispondere. Se quella persona che ha perso ogni briciolo di fiducia sei tu, sappi che puoi ripetertele da solo. È vero, ognuno di noi ha bisogno di comprensione dall’esterno ma spesso e volentieri, la vera vicinanza di cui abbiamo bisogno è la nostra! Dobbiamo imparare a entrare in contatto con noi stessi e ascoltarci davvero. La sofferenza che ci portiamo dentro ci sta raccontando una storia che riguarda il nostro passato, oggi tocca a noi scrivere il nostro

«Tutte le storie sono destinate a finire»

Come rispondere a una persona cara: «ma perché, tu le hai provate davvero tutto? Le conosci tutte?»Come rispondere a se stessi: «penso questo solo a causa delle mie esperienze drammatiche, questo mio pensiero è legato più a vissuti emotivi che non a un processi riflessivi. Da oggi, voglio riflettere di più su me stesso e su come mi stanno condizionando i miei vissuti del passato.»«Tanto, tutto è inutile»Come rispondere a una persona cara: «io credo che ce la farai, so che tutto ti sembra nero, ma le cose belle accadono».

Cosa dire a se stessi: «cosa ho provato per cambiare questa situazione? Ho provato davvero tutte le strade o sono prevenuto?

I risultati dipendono solo da me? Io non posso cambiare le condotte altrui ma posso prenderne le distanze, posso costruire la mia isola felice perché la merito».

«Non valgo nulla»Come rispondere a una persona cara: «Beh, io ti voglio bene così come sei»Cosa dire a se stessi: «sento di non valere nulla perché una parte di me mi induce a sentirmi così. Ma «sentirsi» in un certo modo non significa «essere». Le emozioni che provo alterno fortemente le mie percezioni, piuttosto dovrei chiedermi, cosa mi ha fatto sentire così?»

«Ormai» – «Oramai è troppo tardi»

Come rispondere a una persona cara: «Pensaci un po’, se tu iniziassi oggi un corso di cucina tra tre anni potresti anche essere uno chef stellato! Non è mai troppo tardi se si hanno progetti, è la fretta di realizzare che ti tarpa le ali»Cosa dire a se stessi: «Troppo tardi rispetto a cosa? Non sto facendo alcuna competizione! A volte dimentico che sono io il padrone della mia vita, quindi li scandisco io i miei tempi. Posso proseguire a piccoli passi, posso fare pause, perdere tempo, allontanarmi dai miei obiettivi e poi tornarci…! Posso rilassarmi e poi proseguire a piccoli passi.»

«Vorrei tornare quello di prima»Come rispondere a una persona cara: «Va bene, allora cosa possiamo fare oggi per ritornare allo splendore di un tempo? Possiamo farlo insieme!».

Cosa dire a se stessi: «Le mie emozioni mi proiettano al passato, concentrandomi sul presente posso addirittura essere migliore di prima. Ogni giorno voglio dedicare un po’ di tempo a me stesso, cimentandomi in attività che piacciono. Voglio nutrire la mia identità, voglio finalmente prendermi davvero cura di me!». Riscrivi le Pagine della Tua Vita.

Ormai molti già lo conoscono, si tratta del mio libro bestseller: «Riscrivi le Pagine della Tua Vita». Se non lo hai ancora fatto, ti consiglio di leggerlo, lo trovi su amazon e in tutte le librerie. In ogni pagina, ti spiego come ridefinire la tua identità a partire dai tuoi vissuti del passato e dalle emozioni che provi oggi. Potrai finalmente concederti il lusso della politica dei piccoli passi, cioè riuscirai a migliorare la tua vita giorno per giorno, senza pretendere tutto e subito, in ogni capitolo, infatti, ci sono esercizi pratici e nozioni che possono aiutarti fin da subito a migliorare la qualità della tua vita a partire dalla relazione che hai con te stesso e con gli altri. Puoi ripartire ricostruendo quella fiducia perduta. C’è una persona che non dovrebbe deluderti mai: quella persona sei tu! Ricorda: anche tu meriti la tua fetta di felicità in questa vita, abbi il coraggio di allungare la mano per prenderla! È tua, ti spetta di diritto.

A.De Simone, psicologo esperto in neuropsicobiologia

Fonte: Psicoadvisor

L’educazione familiare tra assenteismo e accanimento

Se sul piano teorico l’accordo è comune nel concepire l’educazione come un processo di promozione e valorizzazione di tutte le sue facoltà, processo che il bambino non può compiere senza la guida dell’adulto, sul piano pratico emergono numerose difficoltà, di carattere sia personale che culturale.

Sul piano personale sembra ormai sufficientemente acquisita l’importanza della relazione di attaccamento tra madre e bambino in ordine alla positività e all’efficacia di tutte le altre relazioni, quindi a maggior ragione di quelle educative; ma approfondendo questa prima acquisizione (Bowlby, 1982), studi successivi hanno posto in evidenza come la qualità dell’attaccamento primario sia a sua volta strettamente correlato alla qualità dell’attaccamento che la madre ha vissuto a suo tempo, tanto che l’esperienza dell’attaccamento materno, rivisitato attraverso opportune tecniche, può giungere ad avere carattere predittivo sul successivo attaccamento che la donna riuscirà a stabilire con il proprio figlio (Crittenden, 1994).

Al di là, comunque, dei dati relativi alla storia personale della madre, è indubbio che il compito dell’educazione comporti complicazioni emotive, prodotte non solo dalla ricordata asimmetria, ma anche da un’ampia gamma di fattori, che vanno dall’accordo esistente nella coppia genitoriale sull’immagine di figlio, fino all’effettiva complessità della vita quotidiana della fami- glia, complessità che, rendendo spesso difficile la vita all’adulto, può provocargli reazioni incontrollate nei momenti in cui si rende necessaria l’applicazione delle regole.

Di qui il ricorso frequente alla “sberla”, alla minaccia di punizioni esagerate e comunque sproporzionate all’entità della “colpa” o alla possibilità di comprensione del bambino, il tutto suggerito non da un progetto educativo ma dalla possibilità momentanea dell’adulto di pazientare o meno e di comprendere o meno i momenti difficili del figlio.

Spesso poi, nei dialoghi tra coppie di genitori e addirittura nelle trasmissioni televisive o nei consigli ai genitori, il ricorso “moderato” alle mani viene considerato educativo, e in un certo senso peggiorativo è vero, in quanto educa con l’esempio il bambino a non elaborare sul piano del pensiero e della parola le proprie emozioni, inducendolo a comportamenti a sua volta violenti nei confronti dei coetanei e non di rado degli adulti stessi. La violenza dei bambini appartiene infatti alla categoria dei comportamenti appresi, quando non è espressione di profondi disagi relazionali (De Zulueta, 1999; Kindlon e Thompson, 1999).

Frequentemente i comportamenti esasperati dei genitori derivano non solo dalle loro oggettive difficoltà esistenziali, ma anche dal livello eccessivo di attese che la cultura familiare diffusa li induce a investire sui figli, giungendo a un non infrequente accanimento educativo, che li porta a riempire le gior- nate dei figli di insegnamenti programmati, impegnativi e costosi (nuoto, ballo, tennis, equitazione, lingua straniera…), inserendoli in una sorta di “catena di montaggio” quotidiana che i figli si trovano a subire senza trarne soddisfazione.

Al polo opposto dei comportamenti educativi eccessivamente impegnati- vi, quando non punitivi e minacciosi fino alla violenza, si trova il comporta- mento remissivo, assenteista, quello che induce l’adulto a concedere pur di non essere disturbato, ma anche qui con concessioni prive di soddisfazione per il bambino, perché accompagnate da messaggi di esasperata sopportazione.

Queste due diverse posizioni quasi sempre coesistono, creando nel bambi- no la confusione che tutti i comportamenti incoerenti provocano anche negli adulti, con l’aggravante che in questo caso la persona coinvolta in questi comportamenti non ha gli strumenti cognitivi ed espressivi per manifestare adeguatamente la confusione, e l’adulto può non rendersene conto, attribuendo a disturbi individuali quello che è invece il risultato di una relazione educativa non sufficientemente pensata. In termini clinici, questo comportamento incoerente viene definito “patologia delle cure”, una patologia che, se appare nella sua maggiore gravità in ambito medico, di fatto può invadere numerosi ambiti dell’esperienza educa- tiva (Montecchi, 2002).

Da: Prevenzione del disagio e dell’abuso all’infanzia , M. T. Pedrocco Biancardi*Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali

Tavolo Interistituzionale sul fenomeno della violenza sulle donne

DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA
UFFICIO DEL CAPO DEL DIPARTIMENTO
Ufficio Studi Ricerche Legislazione e Rapporti Internazionali

Abstract – L’Ufficio Studi del Dap ha partecipato ad alcuni tavoli della Task Force interministeriale sulla violenza di genere, coordinata dal Dipartimento per le PP.OO. della PCM, per elaborare il Piano straordinario previsto dalla cd legge sul femminicidio (art. 5 del DL 93/13 convertito nella L. 119/13). Ha contribuito quindi alla elaborazione delle LINEE GUIDA sulla valutazione del rischio ponendo l’attenzione sul modello interdisciplinare di osservazione scientifica della personalità previsto in ambito penitenziario. La enucleazione e la valutazione dei fattori di rischio, da parte degli autori, di commettere violenza verso le donne è un’attività necessaria per individuare le misure penali ed il trattamento più adeguato a prevenire la recidiva e assicurare così una tutela delle vittime davvero efficace e duratura. Le indicazioni proposte dal gruppo di lavoro si rivolgono a tutti gli operatori coinvolti sul territorio (forze di polizia, pronto soccorso, centri antiviolenza e per i maltrattanti, magistrati e servizi penitenziari) che dovranno coordinarsi e mettere in comune dati, saperi ed esperienze maturate sul campo. Si presenta qui un estratto dal documento finale 2014, poi recepito nel DPCM 7 luglio 2015 “Piano straordinario d’azione contro la violenza sessuale e di genere“, in particolare all’Allegato d) sulle Linee Guida.

LA VALUTAZIONE DEL RISCHIO NEL SISTEMA PENITENZIARIO

GRUPPO DI LAVORO PER LA REDAZIONE DELLE:
“LINEE GUIDA PER LA VALUTAZIONE DEI FATTORI DI  RISCHIO”


A fronte dei vincoli normativi riguardo al giudizio sulla capacità di intendere e volere e quindi sull’imputabilità giuridica dell’autore accertato o sospettato, nel sistema penale italiano e l’Ordinamento penitenziario[1]; formano un insieme organico di norme fondate sul principio costituzionale della funzione rieducativa della pena che prevedono, oltre ai diritti e doveri dei detenuti, l’organizzazione degli istituti, un complesso di attività di accertamento e valutazione delle caratteristiche della personalità dei soggetti condannati ed internati. Attività organizzate che coinvolgono la Magistratura di Sorveglianza e l’Amministrazione penitenziaria  (DAP) in due distinti momenti:

  1. per evidenziare uno degli elementi  necessari all’Autorità giudiziaria al fine di stabilire la pericolosità sociale del condannato e internato, deducibile anche dai “motivi a delinquere e dal carattere del reo” (artt. 133-comma 2,n.1  e  203  C.p.),  al fine di decidere sull’applicazione o meno delle misure di sicurezza e la loro eventuale proroga, con il procedimento di riesame della pericolosità a cura della Magistratura di Sorveglianza;
  2. come elemento dell’Osservazione scientifica della personalità (OSP), quale attività tipica condotta dagli operatori penitenziari, per rilevare fin dal primo ingresso i bisogni, le carenze fisiopsichiche e le altre cause di disadattamento sociale che hanno portato alla condotta criminale (art 13 O.p. e 27,28 e 29 R.d’E.) ;  sulla base di questi risultati viene formulato il  programma individualizzato di trattamento, con gli interventi, immediati e in itinere, più adeguati al recupero sociale e quindi alla prevenzione della recidiva e forniti i pareri e le osservazioni a supporto delle decisioni della Magistratura di Sorveglianza per la concessione dei benefici penitenziari (permessi, detenzione domiciliare, affidamento in prova, semilibertà ecc).

Per gli autori dei più gravi reati a sfondo sessuale (fra cui la violenza di gruppo art. 609-octies C.P.) l’O.P. prescrive, fra l’altro, almeno un anno di osservazione anche da parte degli esperti ex art. 80 (psicologi, criminologi) quale condicio sine qua non per poter accedere ai benefici. Se la vittima è minorenne l’autore può inoltre sottoporsi per almeno un anno ad un trattamento psicologico di recupero e sostegno.
L’OSP è condotta in equipe dal Gruppo di osservazione e trattamento (GOT) composta dagli operatori penitenziari (educatori, assistenti sociali, medici, esperti psicologi o criminologi, polizia penitenziaria ed altri che conoscono il detenuto es.  insegnanti, volontari ecc ), sulla base di un contatto diretto col detenuto in una relazione costruttiva. Si procede, ognuno secondo l’area di competenza, con  la raccolta sistematica e l’esame  di tutte le informazioni (giuridiche, familiari, sanitarie, psicologiche, sulla carriera criminale, situazione socio-familiare, lavorativa, istruzione, sul vissuto e le relazioni interpersonali dentro e fuori dal carcere, il comportamento auto lesivo, tossicodipendenza, ecc). Si segue quindi un approccio di tipo multifattoriale per arrivare ad una visione unitaria della persona espressa nella relazione di sintesi redatta dal GOT con la supervisione del direttore del carcere.
Nel sistema penale italiano, storicamente ancorato al fatto, ma attento ai contributi della Scuola positiva sulle tipologie di autore, tale approccio attraverso l’OSP consente, se non una illusoria esatta predizione della condotta criminale, la conoscenza approfondita degli aspetti della vita e della personalità dell’autore rilevanti che hanno influito sulla commissione del reato.
Le complesse dinamiche personologiche che investono i reati legati alla violenza di genere e la gravità della escalation esigono che il sistema penitenziario possa elaborare, recepire , sperimentare e fare affidamento anche  su strumenti e metodiche di assessment per la valutazione del rischio facilmente fruibili dai suoi operatori, in modo che la scelta del tipo di trattamento sia quella più adatta a favorire nel singolo caso gli interventi di recupero,  da intendere come sviluppo degli aspetti positivi della personalità e modifica del comportamento lesivo (consapevolezza del suo agito, auto-responsabilizzazione ed azioni risarcitorie della vittima) con la partecipazione attiva e non meramente utilitaristica dell’autore al progetto educativo.
Gli operatori penitenziari, grazie alla presa in carico e alla conoscenza diretta degli autori entrati nel circuito penale, possono mettere a frutto il tempo della pena e delle misure alternative o di comunità e svolgere quindi, dentro e fuori dal carcere, un ruolo importante nell’ambito del territorio per l’integrazione degli interventi, la condivisione delle informazioni (non ostative sotto il profilo giudiziario e di sicurezza) e dei risultati delle verifiche sul trattamento nella prospettiva di prevenire la ricaduta nel reato da parte del singolo autore. Inoltre, gli studi e le ricerche finora condotte sulla popolazione detenuta italiana con la collaborazione del DAP hanno rappresentato e rappresentano occasioni importanti anche ai fini della maggiore conoscenza del fenomeno,  per la validazione di strumenti scientifici e la sperimentazione di diversi approcci metodologici per la valutazione dei livelli di rischio[2] ; ed il perfezionamento di altri già sperimentati positivamente. 

Il  ruolo e le risorse professionali  dell’Amministrazione penitenziaria vanno  quindi orientati : 

  • attrezzando i suoi operatori, attraverso la formazione congiunta con gli altri destinatari  di Primo e Secondo Livello, di conoscenze e competenze specifiche sul fenomeno della violenza di genere e sugli strumenti scientifici convalidati e fruibili per la valutazione dei livelli di rischio di condotte violente, aggressive, anche a lungo termine, mettendo a frutto i risultati delle più acclarate ricerche scientifiche, criminologiche e sociologiche riguardo alla prevenzione della violenza di genere e nelle relazioni interpersonali;
  • sviluppando gli interventi sugli autori con la partecipazione anche della comunità esterna, in un approccio integrato con le reti del territorio istituzionali e non, e in particolare con i Centri di recupero per i maltrattanti;
  • favorendo gli studi e le ricerche scientifiche sulla popolazione detenuta dei sex offenders e sulla qualità della valutazione del rischio in collaborazione con le Università, le Forze dell’Ordine, i Servizi sanitari, gli Enti e Istituzioni, Associazioni e Organismi del territorio e la Comunità scientifica internazionale, e la sperimentazione di protocolli e metodiche convalidate, utili e fruibili, sia ai fini delle indagini investigative da parte delle FF.OO.  sia  per mettere a punto specifiche modalità di gestione e trattamento (risk management) ai fini del recupero di tali autori nella comune prospettiva di prevenirne la recidiva e quindi tutelare le vittime reali e potenziali.

Roma, 7 Luglio 2015

Redatto da Antonella Paloscia
   Dirigente Penitenziario

IL DIRETTORE DELL’UFFICIO
Roberta Palmisano

[1] Legge 26 luglio 1975, n. 354 “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” e il suo Regolamento d’Esecuzione (DPR 30 giugno 2000, n. 230). Tali norme, recepiscono le regole minime dell’ ONU e le regole penitenziarie europee sul trattamento dei detenuti

[2]Al riguardo si cita la ricerca S.O.Cr.A.Te.S. dell’Arma dei Carabinieri e del DAP con il prof. Caretti dell’Università di Palermo, sulla validazione in Italia della PCL-R, proseguito poi con i risultati positivi raggiunti in alcuni istituti con il progetto Stalking (prof. A. Baldry Università di Napoli 2) che ha utilizzato, fra gli altri, il metodo S.A.R.A. (per quest’ultimo si rinvia al Report conclusivo inviato al DPO nel 2011). Inoltre il DAP sta valutando, in collaborazione con l’Università di Sassari, l’adozione da parte degli UEPE (Uffici locali di esecuzione penale esterna) di un Modello di valutazione scientifica dei livelli di rischio di tenuta di comportamenti devianti per i soggetti che chiedono di essere ammessi ad una misura o sanzione alternativa alla detenzione o di comunità, in modo da adempiere a quanto previsto dalle Regole europee sul Probation (2010)1 ed uniformarsi alle realtà più avanzate presenti in Europa. Tale modello, comprensivo di item sia di natura sociale che psicologica, è stato elaborato nell’ambito dell’attività internazionale del DAP ispirandosi ampiamente soprattutto all’esperienza maturata da alcuni paesi europei (Regno Unito e Irlanda). Vedi anche alcune esperienze significative di trattamento intensificato per i sex offenders in carcere con la collaborazione del territorio (Carcere di Milano Bollate con il Centro di Mediazione Penale di Milano) anche dopo la scarcerazione. Altri progetti e ricerche condotti dal DAP, fra cui WOLF e For-Wolf sui rei pedofili (vedi a cura di L. Mariotti Culla, G.De Leo “Attendi al lupo”, ed. Giuffrè, Milano 2005), ed interventi specifici sul trattamento dei sex offenders, sono illustrati nella rivista ufficiale del DAP La rassegna penitenziaria e criminologica consultabile sul sito www.rassegnapenitenziaria.it e su www.Giustizia.it

Fonte: Ministero della Giustizia A.Paloscia report 2015

Valutazione del rischio di recidiva dei condannati per reati sessuali e di mafia

DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA UFFICIO DEL CAPO DEL DIPARTIMENTO

Ufficio Studi Ricerche Legislazione e Rapporti Internazionali

Si tratta di un programma di ricerca scientifico-criminologica proposto da un team di professionisti ed accademici (responsabile scientifico: prof. V. Caretti, Università LUMSA di Roma) articolata in due progetti da svolgere in diverse carceri del territorio nazionale, su un campione di detenuti per reati commessi con violenza sulle persone. Finalità: rispondere alle esigenze di valutazione del rischio in ambito giuridico e psichiatrico-forense e formare gli operatori con indicazioni operative per il trattamento penitenziario più efficace a prevenire la recidiva di questi gravi reati. valutare la validità predittiva di uno strumento diagnostico, l’HCR-20 V3, per i crimini sessuali e la possibilità di utilizzarlo nel contesto italiano. Metodologia: indagine documentale, sulla storia personale, interviste professionali, semistrutturate e di autovalutazione (HCR-20 V3, PCL-R adattamento italiano di Caretti et al., 2011 validato in Italia con la ricerca S.O.Cr.A.TE.S, PID-5), con la partecipazione di detenuti condannati per reati a sfondo sessuale, violenti, nonché su affiliati ad organizzazioni a stampo mafioso. Si presenta in questa sezione una sintesi dei DUE PROGETTI 1. La valutazione del rischio della pericolosità sociale e del rischio di recidiva in soggetti detenuti condannati per reati sessuali. Indagine su un campione di sex offenders e su un gruppo di controllo con reati contro la persona presenti nelle carceri di diverse regioni italiane. Seguirà una fase di follow up per verificare la capacità predittiva dell’ HCR-20 V3 e l’uso di tale strumento per valutare il rischio di crimini sessuali anche nel contesto italiano. Obiettivo: individuare i diversi fattori – storici, clinici attuariali e di personalità – che possono differenziare i sex offenders dagli altri autori violenti e restituire i risultati dando agli operatori penitenziari strumenti più adeguati ed efficaci per la valutazione del detenuto ai fini del trattamento. 2. La valutazione del rischio criminologico in soggetti afferenti a organizzazioni mafiose. Indagine sui detenuti per reati di mafia presenti in due carceri (Palermo e Trapani). Obiettivo: approfondire i tratti di personalità diversi dalla psicopatia e l’incidenza del trattamento penitenziario, al fine di individuare gli elementi di rischio criminologico maggiormente presenti nei soggetti appartenenti ad organizzazioni mafioseperfezionare il sistema di valutazione del rischio criminologico e migliorare i protocolli di trattamento rieducativo rivolti ai detenuti per reati di mafia.

Fonte Ministero della Giustizia – A. Paloscia, 2015

Presidio Criminologico con la Dr.sa Al. Tallarita

La rete regionale Centri di Ascolto Antiviolenza e Fragilità si dota di un Presidio Criminologico

La rete regionale Centri di Ascolto Antiviolenza e Fragilità si dota di un Presidio Criminologico 16 settembre 2022 19:03Il CDA Calabria odv, oltre a offrire gratuitamente ai cittadini un supporto professionale per affrontare i casi di disagio familiare legati alle dipendenze, al bullismo e alla violenza di genere, si è dotato di una sezione di Criminologia Dinamica, il Presidio Criminologico gestito dalla Dott.ssa Anna Luana Tallarita Criminologa antropologa, esperta in comunicazione strategica.

Il Presidio Criminologico interverrà sulla mediazione familiare, penale e nelle situazioni di conflittualità con attività clinica e di trattamento mirate alla prevenzione.

A vantaggio delle famiglie, spesso isolate e dei singoli soggetti in difficoltà. Per quei soggetti che avendo compiuto reato sono a rischio di recidiva o a rischio di condotte antisociali. Intervenendo in ambito criminologico e psicologico, educativo sulla legalità. Un’attenzione particolare ai comportamenti antisociali e violenti.

Pensato per le fasce più deboli. I soggetti ascoltati e accolti, in base alle varie necessità, saranno accompagnati presso altri centri specifici e/o si indirizzeranno per i conseguenti provvedimenti giuridici, in assidua collaborazione con le Forze dell’Ordine e con la Magistratura.

Gli utenti possono essere segnalati da altre strutture (settore giudiziario, le forze dell’ordine, la magistratura di sorveglianza, le aree educative delle carceri, la magistratura ordinaria, gli avvocati, i servizi del territorio e psico terapeuti) o contattarci spontaneamente.

La Presidente Regionale del CDA Calabria odv- Dott.ssa Graziella Catozza riferisce che il Presidio Criminologico, servizio innovativo in Italia, nasce nell’ambito delle iniziative di Criminologia Dinamica e Formativa (CAFISC) che oltre alla formazione specialistica forma gratuitamente nelle scuole contro il bullismo e cyber bullismo e previene la delinquenza minorile ed è operativo in tutti i 18 centri di ascolto del CDA Calabria odv-anche Centro Studi Sociali.