Il potere della leadership il libro all’università per stranieri di Reggio Calabria

“All’Università per stranieri di Reggio Calabria si parla di leadership”

Anna Luana Tallarita presenta il libro 

“IL POTERE DELLA LEADERSHIP”

Nell’aula magna dell’Università per Stranieri Dante Alighieri di Reggio Calabria

Martedì 22 novembre 2022 alle ore 16.00

Ci saranno a discuterne l’autore 

dottoressa Anna Luana Tallarita. 

Antropologa, Artista e Criminolologa. 

Il Rettore dell’università il Prof. A.Zumbo, 

il giornalista Dr. F.Chindemi che presenterà il testo e porrà dei quesiti alla Tallarita.

E l’intervento sulla gestione del potere 

del Dr. F. Spagnolo e della suggestione che ha avuto dal capitolo VI ‘Come gestire il potere.’

Si analizzeranno, leggendo alcuni passi, i capitoli del testo: I il comportamento nello spazio fisico; II l’aggressività e il potere; III le pulsioni di vita e di morte; IV rappresentazione e volontà; V Azione di potere distrazione e controllo; VI come gestire il potere; VII pratica e teoria.

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Dove acquistare il testo:

https://www.aracneeditrice.eu/it//pubblicazioni/il-potere-della-leadership-anna-luana-tallarita-9791221800005.html

Stress lavorativo e malattia professionale

come gestire le risorse umane

Ferdinando Pellegrino (U.O. Salute Mentale ASL Salerno 1, Costa D’Amalfi)

Patrizia Orsucci (Prato)

Da tempo lo stress lavorativo è, a vario titolo, al centro dell’attenzione di molti operatori sanitari. Ci si è accorti che là dove le risorse umane  non sono ben gestite, i danni, sia per gli operatori stessi che per gli utenti, sono talvolta ingenti e onerosi sotto l’aspetto emotivo per l’operatore e da un punto di vista economico per l’azienda di cui fa parte. Gestire al meglio le risorse professionali diventa quindi un impegno importante e necessario soprattutto in quelle attività professionali, quelle attinenti all’aiuto, dove il carico emotivo è considerevole. Lo stress che deriva da un’attività svolta  sotto pressioni varie ha tutt’altro che un effetto stimolante e motivante come si credeva fino a qualche tempo fa al fine di produrre sempre di più, ma ha un effetto dannoso perché lo stress che ne consegue è insidioso, riduce le performance e può paralizzare un’attività creativa per la massiccia quantità di aggressività che smobilita; alla lunga una situazione lavorativa pesante demotiva, esaspera e suscita difese sterili e ciniche degli operatori sia nei confronti degli utenti che dei colleghi.

Che il più forte la vince è ormai un’utopia perché spesso difese rigide sono motivo di involuzione e di crollo.

Accanto ad abilità tecniche, saper fare, sempre più specifiche e specialistiche, non possono mancare abilità psicologiche legate alla persona e al saper essere,  conoscersi e relazionarsi.

Quando lo stress lavorativo irrompe diventa causa di burnout e le sue conseguenze si ripercuotono  a più livelli con segni clinici che l’ormai ben noto test B.M.I. della Maslach consente di quantificare nelle sue componenti precipue di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e derealizzazione personale di coloro che lo vivono. Le persone che si trovano a sperimentare su se stesse gli effetti di un sovraccarico di stress  passano da una sensazione di inaridimento, di  esaurimento, di disaffezione al proprio lavoro caratterizzata da una risposta fredda ed impersonale nei confronti degli altri; sensazioni vissute come forti frustrazioni  che, la dove non sono riconosciute, trovano espressione anche con la comparsa di somatizzazioni e slatentizzazioni con veri e propri  scompensi soprattutto dove vi siano già patologie in atto. Burnout quindi come sintomo o come malattia e cosa fare per trattarlo e soprattutto prevenirlo? Certamente il malessere  sperimentato può essere un sintomo ma quando il suo perdurare nel tempo cronicizza situazioni e vissuti logoranti diventa una vera e propria malattia che compromette seriamente il benessere dell’individuo rendendolo vulnerabile sotto molti aspetti sia fisici che relazionali.

Ad un entusiasmo idealistico che si colloca, in genere, all’inizio della carriera lavorativa (Edelwich e Brodsky, 1980) e che di solito coincide con la tendenza a sottovalutare le difficoltà e a nutrire solo aspettative ottimistiche rispetto agli obiettivi del proprio intervento può far seguito una fase di stagnazione; se il divario fra competenze e richieste è sproporzionato e nell’impatto con la realtà l’operatore si accorge che i suoi bisogni non trovano la soddisfazione attesa ciò diventa motivo di frustrazione che può alimentare e ingenerare una situazione di logoramento sia fisico che psichico.

L’individuo che si viene a trovare imbrigliato in questa fase sperimenta delle modalità d’uscita dal disagio che, se non ben gestite, lo avviluppano sempre di più ad una fase di esaurimento per arginare il quale scivola in modalità svariate di fuga che innescano un pericoloso circolo vizioso che viene a ritorcersi contro. Nel tentativo di uscire dalla dissonanza emotiva percepita e di liberarsi dalla frustrazione, intesa come modalità intrapsichica di difesa, viene sperimentata una forte apatia che induce un condizionamento dell’attività cognitiva e che travolge la persona con percezioni, atteggiamenti e mete  severamente disfunzionali. Non si tratta di un semplice stato di tensione ma di una vera e propria modificazione cognitiva che condiziona l’assetto emotivo affettivo del soggetto verso la propria attività e che, una volta verificatosi, necessita di un intervento terapeutico che consenta l’instaurarsi o il ripristino di un’adeguatezza del pensiero e del comportamento che lo aiutino a “ridefinire” la situazione penosa sperimentata. A tal fine, parafrasando Grazia Attili (1993), bisogna lavorare per reinterpretare i modelli mentali di attaccamento che, operando al di fuori della consapevolezza ed essendo di difficile accesso alla coscienza,  richiedono un forte impegno per essere ristrutturati. 

Ma quanto dipende dall’organizzazione e quanto dalla struttura di personalità? A questo proposito emerge una stretta correlazione fra i fattori predisponenti dell’individuo, innati o appresi, che colludono con il sistema fino ad agire come fattori scatenanti: bassa autostima, passività, mancanza di assertività, scarsa identità professionale, perfezionismo, idealismo, valori personali incongrui con la reale situazione di vita sono punti di vulnerabilità. E’ anche su questi fattori che bisogna focalizzare l’attenzione per gestire in modo ottimale le risorse umane e professionali in un clima organizzativo disposto a favorire e facilitare un sano ambiente lavorativo.

Produrre un bene di consumo è diverso dal produrre un servizio. Un cliente è diverso da un paziente ma mentre in un caso c’è in gioco la fornitura di un prodotto, con la sua qualità di materiali e di manifattura, nel secondo caso c’è in gioco qualcosa di più importante come lo è la salute e, se l’efficacia dell’operatore è compromessa, il danno è di gran lunga superiore. Come un chirurgo non può operare bene con un bisturi non affilato (Balint), così un professionista che non sia in buona forma è esposto al rischio di non fornire un buon intervento terapeutico. Nelle professioni d’aiuto, lo stress si connette con la presenza di maggiori errori medici, sia di diagnosi che di terapia e con difficoltà nella relazione con il paziente, poiché l’empatia e la sensibilità ridotte condizionano il rapporto fino alla comparsa di modalità ciniche di relazione fino anche ad a situazioni limite di colpevolizzazione del paziente se non si hanno i risultati desiderati. Gli operatori  coinvolti in queste dinamiche, là dove perdurano oltre i sei mesi, sperimentano la comparsa di tensione, ansia e depressione e rischiano una cronicizzazione del disagio seguito talvolta da un allargamento della conflittualità anche nell’ambiente familiare con punte di escalation di aggressività che possono individuare uno spazio di espressione anche dentro la soglia di casa. Una ricerca della Makno in Italia, su 300 medici e 300 paramedici ha quantificato quanto sopra in percentuali verificabili.

Parlare e attuare la prevenzione è indispensabile; dovrebbe essere un imperativo morale di ogni organizzazione ma spesso la promozione di benessere non è sufficiente soprattutto dove la gestione delle risorse umane viene identificata e confusa con l’amministrazione del personale che è invece ben altra cosa. Prevenire il burnout significa occuparsi della gestione libidico-emotiva degli operatori, dei fattori personali, di quelli ambientali, familiari e sociali; dove non c’è un clima armonico, uno spazio d’appartenenza  e dove la gestione delle conflittualità è lasciata al caso o rimossa, anziché impiegata nell’ottica di un confronto costruttivo, senza falsi ottimismi, è difficile evitare situazioni dannose.

L’obiettivo prioritario di ogni Azienda, compresa l’Azienda Sanità, ha da tener conto di una gestione del personale che abbia in considerazione l’evitare i danni da mal funzionamento in una prospettiva che valorizzi gli individui nella loro interezza sia per le competenze professionali ma anche per il benessere personale; fra l’Azienda e l’individuo c’è da considerare l’importanza dell’attivazione di una collaborazione congiunta che  abbia un obiettivo dichiarato ed evidente da perseguire e che contempli una partecipazione  in cui lo sparare alle spalle non serva veramente a nessuno. Ciò è da intendersi non come una delega implicita al professionista di potere decisionale ma come una partecipazione attiva con un potere contrattuale che consenta un lavoro di squadra. Spesso le situazioni di burnout sono più frequenti in quei sistemi lavorativi dove c’è una leadership forte, presa e mantenuta, da dirigenti che tengono insieme  con  la forza qualcosa che non è saputo mantenere con altre qualità: in realtà in queste situazioni  il grosso problema è quello di una vera e propria mancanza di leadership.

E se è pur vero che il potere logora chi non ce l’ha, risposta scontata ad atteggiamenti invidiosi, è altrettanto vero che chi lo gestisce male si espone a sua volta a subire il feedback che deriva dal proprio operato e alla lunga non dà risultati edificanti per nessuno.

Nell’ambito di un progetto preventivo dei danni da stress  le modalità di intervento sono quindi da indirizzarsi su due direzioni principali: verso la struttura organizzativa da un lato e verso l’operatore dall’altro. Fra i requisiti fondamentali della struttura ci deve essere il rispetto per l’operatore e per la sua professionalità, il rispetto delle norme contrattuali, un ambiente confortevole, ma soprattutto la capacità e la volontà di chiarire i propri obiettivi, di coinvolgere tutte le figure professionali nel rispetto dei ruoli, salvaguardando la salute psicofisica dei propri dipendenti e indirettamente dei propri utenti. Gli interventi nei confronti degli operatori sono più difficili da gestire; i tempi sono spesso più lunghi perché ci si confronta con diverse strutture di personalità. In questo ambito sono essenziali le strategie di supervisione permanente e gli interventi sulla motivazione e sull’autostima. A questo scopo uno dei metodi collaudati e più efficaci è il lavoro fatto con i Gruppi Balint. Là dove questa metodologia di lavoro  trova spazio d’accoglienza con serietà e costanza, il rapporto medico-paziente e di conseguenza la compliance, ovvero l’adesione dei pazienti alle terapie indicate, risulta più seguita e maggiori sono i risultati terapeutici.

Quando l’Azienda e il professionista riescono a stringere un rapporto di fedeltà basato sulla trasparenza, tale da generare uno scambio di fiducia reciproca finalizzato al raggiungimento degli obiettivi attraverso la collaborazione, si può finalmente dire di avere un obiettivo comune e ciò, come in ogni rapporto che voglia vivere e crescere, è l’elemento costitutivo..

Riferendoci all’iceberg organizzativo che suggerisce il Dr. Anton Obholzer della Tavistoch Clinic di Londra, dobbiamo considerare che anche nel lavoro con le Aziende abbiamo a che fare con le componenti conscia ed una inconscia di un sistema e che ai meccanismi operativi si affiancano e si intersecano gli atteggiamenti e l’ideologia delle persone. 

Spesso, ma molto meno di qualche anno fa, i giochi di triangolazioni che hanno luogo in certi posti di lavoro anziché assumere una valenza confermante ne assumono una disconfermante sia verso i colleghi  professionisti che verso i pazienti.

Dove non è riconosciuta l’importanza di un linguaggio comune né della necessità di comunicare, ma ha la meglio solo il  bisogno di prevalere sull’altro si riattivano, spesso in maniera collusiva con la patologia o con la situazione trattata, relazioni che portano a mancare l’obiettivo salute e ad innescare escalation distruttive che invece dobbiamo imparare a decodificare.

E così sono molti i personaggi in cerca di spazio e di tempo anche nell’Azienda Sanità che potrebbero trarre beneficio da occasioni di incontro e di discussioni chiarificatrici dove poter esprimere, contenere ed elaborare eventuali difficoltà sul piano della relazione e occasione per trovare un  apprendimento emotivo utile per un diverso approccio. Lo scollamento fra pensare ed agire, se non viene elaborato, anziché produrre  benessere alimenta frustrazioni incongrue ed insoddisfazioni  incompatibili con un buon funzionamento. Nella sanità non si tratta di far diventare i medici o i paramedici degli psicologi, né di inserirli o di sottoporli ad analisi di gruppo, ma  si tratta di dare la possibilità per acquisire quelle conoscenze emotive, di cui la formazione universitaria è carente e che per dirla con Balint, possa consentire al medico di essere lui stesso medicina. Accanto alle competenze mediche e specialistiche  riuscire a collocare una capacità di ascolto di tipo empatico verso chi gli si rivolge con fiducia può essere un elemento posologico e diagnostico in più. Troppo spesso il pregiudizio che il medico deve rimanere lontano e distaccato è solo un giudizio a priori di chi temendo di mal gestire una relazione d’aiuto o non si dà o si dà troppo. Nel lavorare per acquisire competenze emotive partendo dalla discussione in gruppo di un caso clinico è possibile acquisire, nel qui ed ora del racconto di una relazione, competenza emotiva che permetta una nuova modalità di porsi nel rapporto con il paziente, non in maniera teorica sulle relazioni o sulla loro idealizzazione di “come dovrebbero essere” ma riconoscendo il vissuto emotivo sottostante. E’ possibile imparare a capire perché una certa persona è vissuta come “pesante” e cosa c’è dietro al malessere che un’altra continua a lamentare facendo sentire un forte senso d’impotenza, di rabbia, di noia fino a sentimenti molto più complessi di rabbia verso qualcuno. Il paziente più difficile spesso non è quello più grave ma quello con cui non si riesce ad instaurare una relazione. Tutto ciò se viene approfondito ed elaborato in un contesto attento e disponibile al confronto, che consenta anche una restituzione, permette di gran lunga la crescita e l’efficacia professionale.

Chi, come, quando, che cosa è opportuno che intervenga nella gestione delle risorse umane? Una leadership e un team  equilibrati sono quanto di più auspicabile per dar luogo ad un coaching ed ad un empowerment efficaci ed efficienti che abbiano garanzie di saper gestire i conflitti e sappiano negoziare in un’ottica che sappia dosare l’egocentrismo esibizionista di molti moderatori che guardano più ad essere accettati per la loro tolleranza che per le reali capacità dialettiche e dialogiche della gestione. Capacità che consentano di esprimere e far esprimere il potere contrattuale del singolo per finalità e obiettivi condivisi, pianificati e predisposti in un ordine di priorità.

Là dove tutto questo manca o è volutamente sottovalutato ha luogo un grande tradimento.

Gli amanti (1928), l’opera di Renè Magritte, artista surrealista che gioca con gli spostamenti del senso, utilizzando sia accostamenti inconsueti sia deformazioni irreali, si presta bene a rendere l’idea di quanto poco senso ci sia in certe relazioni.

La distanza che separa la realtà dalla sua rappresentazione, una costante nella pittura di questo artista belga, fra certe situazioni reali e come queste vengono rappresentate, offre la possibilità di cogliere l’analogia fra alcune realtà di vita e lavorative  con l’immagine dei due protagonisti dal volto coperto. Alcuni professionisti possono suscitare una grande malinconia per la crudeltà imposta da certe situazioni lavorative, proprio come ai due personaggi dal volto coperto nel quadro di Magritte ai quali viene negata la potenzialità del gesto compiuto proprio mentre stanno compiendo un importante gesto affettivo come il baciarsi.

Ed il tradimento, pur essendo una dinamica di sviluppo e di crescita importantissima là dove è attuato con la consapevolezza di lasciar soli per dare l’opportunità di capire da un possibile errore, se mal gestito, travolge e trascina dietro sé situazioni e persone e può divenire, implicitamente, causa di burnout a vari livelli fra cui quello lavorativo.

Si tratta sempre e comunque  di un cambiamento di rotta sia che riguardi i rapporti sentimentali, affettivi, amicali che quelli lavorativi. Un cambiamento di direzione che talvolta è incomprensibile per il cambiamento che comporta alle norme stabilite e ai valori riconosciuti; non comprensibile al di fuori, ma che ha sempre una coerenza interna che se non riconosciuta ed elaborata può fare molti danni. Coerenza che risulta essere composta da ingredienti vari, alcuni di prima qualità, altri volutamente scadenti o avariati fra i quali, da un lato, un giusto desiderio di riuscire e di far bene e dall’altro la paura, la noia, la vulnerabilità ad illudersi, le ambivalenze e il protagonismo. L’importante è, nel tradire, “essere fedeli a se stessi”; spesso una conflittualità interna fra bisogni e desideri consci e quelli inconsci di chi tradisce fa invece seguire un percorso mentale di fedeltà ai propri valori e alle proprie convinzioni, o a quelle di un sistema,  che porta a fare quello che sembra più giusto, nel momento che sembra più giusto, annullando completamente quello spazio e quel tempo mentale per il formarsi di risposte più congrue. E in un contesto anche lavorativo dove a fare da sfondo ci sono impulsi istintuali ecco che l’ambizione, la vendetta, la leggerezza, il bisogno di verificare la propria identità, sia professionale che talvolta sessuale, trovano il proscenio adatto. Quali gli attori? quali i contesti, le istigazioni, gli agiti di chi e di quale sistema? Questi sono elementi che non possono essere lasciati al caso, né mistificati. 

Spesso il bisogno di arrivare di alcuni, quello di prevalere di altri, la presenza in un professionista di una competizione insana e di insicurezze interne legate al sé e nelle proprie capacità, portano all’attivazione di comportamenti e all’esplicarsi di agiti che non rispettano la reciprocità. Avvalendomi delle considerazioni della Arrigoni Scortecci (1987) che si è occupata di reazioni terapeutiche negative, proponendone una revisione del concetto (in Tradimento e paranoia, G.C.Zapparoli ,Bollati Boringhieri,1992), viene piuttosto da rilevare in molti casi la presenza di una dinamica  simile  a quella che si ripresenta nel trattamento dei pazienti paranoici dove “un intervento basato sull’analisi delle resistenze può far emergere una modalità distruttiva volta ad attaccare il buon rapporto stabilito come espressione di distruttività combinata con una forte componente invidiosa”.

Organizzazioni lavorative che presentano sintomi o malattie riconoscibili dalla presenza di questi segni clinici di tipo psicopatologico sono organizzazioni  che non hanno ancora messo a punto l’utilizzo al meglio delle proprie risorse. Spesso si tratta di riconoscere l’importanza per un medico di saper essere anche manager di se stesso, di concepire la disponibilità  di imparare a porre maggiore attenzione al proprio modo di operare soprattutto rispetto alla presenza di proprie difese versus figure del passato. L’importanza di questo riconoscimento, cosa certo né banale né semplice, evita l’insorgere di una sorta di staffetta, con caratteristiche transferali, ad un contesto di gruppo che riproponga vissuti analoghi. Quando si verifica ciò,  tutto il contesto risente della mancanza di risposte adeguate che anziché favorire la crescita e il sano  sviluppo aziendale e professionale, vanno a sabotare gli obiettivi dell’Azienda stessa per effetto della collusione. Tutto quello che viene fatto è impostato  in maniera tale da non cambiare niente,  fino a sacrificare così, sull’altare dell’orgoglio, o meglio dell’hybris, ogni miglioramento.

Concludendo possiamo dire che il burnout, se riconosciuto, è da intendersi come uno stimolo forte e un segnale importante per definire strategie di difesa dallo stress lavorativo. E’ uno spunto per riflettere sia sul sistema Azienda che sugli individui che ne prendono parte, stando attenti a riconoscere i rischi del mestiere per evitarli grazie ad una conoscenza  delle dinamiche che sottendono alle relazioni e per ottimizzare le risorse disponibili. Il Noi formato da individui impegnati nella stessa attività, anche professionale, può implicare la condivisione di competenze, ritualità, obiettivi, segreti professionali; ci possono essere, come nei rapporti di coppia, lealtà particolari e settoriali (Boszormenyi – Nagy) ma questo non implica la condivisione di valori e sentimenti.

Discernere quali valori escludere, quali stili di vita comuni accettare, quali complicità affettive condividere o quali scelte ideologiche rispettare serve per impostare una collaborazione che non consenta identificazioni patologiche con l’insieme con cui ci si trova ad interagire delimitando, in tal modo, il rischio di dover entrare ed uscire da diversi ruoli rispondendo alle aspettative del gruppo piuttosto che ad un obiettivo. E su questi punti il lavoro di Bion, con l’indagine sulle dinamiche di gruppo e con i suoi assunti di base, diventa supporto indispensabile per un lavoro mirato al raggiungimento di una migliore qualità di vita e professionale. In quei contesti lavorativi dove questo avviene ed è integrato con una modalità operativa come quella proposta da Balint le cose funzionano, per dirla con Winnicott, sufficientemente bene.

I seminari formativi di CAFISC

Cafisc

Idea e promuove” Tre Appuntamenti seminariali

Promossi da CAFISC

Tenuti dalla Dr.sa Al. Tallarita PhD Criminolologa, Antropologa, Scrittrice, Artista. Presidente Cafisc. Direttore PCAPolitical.

Ed altri ospiti : avvocato, giornalista, psicologo, esperto di sicurezza.

Tematiche dei tre seminari:

-La situazione femminile nelle carceri

-I giovani e la dipendenza da social

-Cyber bullismo e istigazione al suicidio “

I seminari sono aperti a tutti.

Le date saranno comunicate agli iscritti per email con il link a cui collegarsi per seguirli.

Sezioni di novembre , dicembre , gennaio.

Per informazioni e Iscrizioni scrivere a: info@cafisc.it

Lasciando nome cognome e contatti numero e email Interesse ai tre seminari o a ciascuno.

Verrà rilasciato un attestato di partecipazione per gli usi consentiti dalla legge.

I 6 tratti principali della personalità sociopatica rivelati da un esperto dei disturbi del comportamento

Come riconoscere un sociopatico? David J. Lieberman, ricercatore nel campo comportamentale e autore di un nuovo libro sull’argomento, ha spiegato quali sono le caratteristiche più comuni e come gestire il disturbo antisociale della personalità in una relazione

Riconoscere un individuo che soffre di sociopatia, termine che indica il disturbo antisociale di personalità, può essere molto più complicato che riconoscere uno psicopatico. Lo sostiene lo psicoterapeuta David J. Lieberman, ricercatore nel campo comportamentale e delle relazioni interpersonali e autore del libro Mindreader: The New Science of Deciphering What People Really Think, What They Really Want, and Who They Really Are, che affronta l’argomento in un articolo pubblicato su CNBC.

Secondo Lieberman, che non solo ha trascorso gran parte della sua carriera studiando i disturbi della personalità, ma ha anche addestrato il personale delle forze armate statunitensi, nell’FBI e nella CIA, i sociopatici possono distruggere la vita di una persona e sono molto più difficili da individuare rispetto a uno psicopatico. Perché, mentre quest’ultimo tende a essere più manipolatore e riduce al minimo il rischio nelle attività criminali, il sociopatico è in genere più irregolare e incline alla rabbia e, di conseguenza, più pericoloso.

Sono sei, in particolare, i tratti caratteriali più comuni che, a detta di Lieberman, definiscono un sociopatico.

difficoltà a calibrare la sua gestione delle impressioni che si danno.Come gestire il disturbo antisociale della personalità in una relazioneRiconoscere un soggetto con disturbo antisociale di personalità è complicato.

Gli indicatori di cui sopra possono essere utili, ma difficilmente sono definitivi. Se ci si trova in ​​una relazione con un sociopatico, Lieberman suggerisce alcuni comportamenti che possono rivelarsi utili per gestire in linea generale la situazione, ricordando tuttavia l’importanza di prendere le distanze. Non sempre possiamo cambiare il comportamento di qualcuno, ma è possibile trovare il modo per stabilire dei confini e farcela, poiché il nostro benessere emotivo è indissolubilmente legato alla qualità delle nostre relazioni. Ecco quindi i tre passi fondamentali da adottare se si vive una relazione con una persona affetta da disturbo antisociale della personalità:

1.Evita di essere in disaccordo con lui pubblicamente: il senso di umiliazione e qualsiasi parola o azione che possa farli vergognare incide molto in profondità e può innescare reazioni pericolose.

2.Non accusarlo direttamente di essere sociopatico: lavora lentamente per disimpegnarti dalla relazione.

3.Avere un sociopatico nella propria vita può essere molto impegnativo e alienante, una buona soluzione è vedere un terapeuta o unirsi a un gruppo di supporto. Avere qualcuno con cui parlare può essere molto utile.

fonte:vanityfair.it, A Politi

Bullismo e violenza di gruppo

Spesso aggrediscono per il gusto di far male, di umiliare, per rimarcare una superiorità. Sottrarre un oggetto non è tanto una rapina fine a sé stessa, ma un modo per punire, spogliando la vittima dei suoi beni.

Le ragazzine sono talvolta più violente dei coetanei maschi perché hanno un modo di attaccare sofisticato, usano l’arma psicologica, puntano a colpire il lato fragile». Andreana Pettrone è una psicologa specializzata in psicoterapia sistemica relazionale. Fa parte del pool di medici che partecipano al progetto Informa a Napoli: con un camper fanno la spola davanti a tre istituti tecnici di Napoli che abbracciano una vasta area urbana.

«È un errore pensare che la violenza sia solo nei ceti più disagiati, che si sviluppi in famiglie che vivono in condizioni di marginalità sociale. L’aggressività unita alla spavalderia la troviamo anche tra i ragazzi benestanti». Pettrone dice che il fenomeno più dilagante è quello delle gang rosa: «Sono gruppetti di adolescenti che iniziano con piccoli atti di bullismo e poi in un crescendo di violenza, organizzano veri e propri raid contro loro coetanee.

Di solito agiscono in branchi tutti al femminile. I pretesti sono i più disparati: da ritorsioni sentimentali, alla punizione per una presunta maldicenza o semplicemente il gusto di umiliare chi è isolata, chi non riconoscono come una loro pari».

Secondo la psicologa vale molto l’omologazione fisica: «Chi non condivide un look, un atteggiamento dominante, è esclusa e bullizzata». Le frasi che ricorrono spesso a spiegare gli attacchi violenti – «non risparmiano alla vittima calci, pugni, graffi, sputi» – sono: «Meritava solo di essere picchiata» e «se l’è andata a cercare». Ma se poi viene chiesto loro di dare una spiegazione ulteriore, «non sanno cosa dire, c’è un vuoto linguistico disarmante», spiega Pettrone.

A differenza dei coetanei maschi, le ragazze usano con compiacimento narcisistico i video che mettono sulle reti sociali. «Si compiacciono non solo di aver umiliato la vittima, ma anche di avere un riconoscimento pubblico, tramite i like, delle loro bravate. Cercano spesso una platea maschile come a dimostrare di essere più dure degli uomini. Il piacere maggiore lo traggono dal consenso dei coetanei maschi. Si scambiano tra loro nelle chat i commenti e li rilanciano alla ricerca di una approvazione più ampia possibile».

Le modalità di aggressione, dice la psicologa, sono ripetitive. «Circondano la vittima, che di solito ha l’apparenza debole. L’aggrediscono e la filmano. L’obiettivo è totalizzare più like possibili sui social. La loro speranza è che i video diventino virali». Talvolta si formano gang miste. «Le ragazzine vengono accettate perché fidanzate di uno del branco, c’è una sorta di iniziazione sessuale. Ma una volta entrate nel gruppo tendono in breve tempo a uscirne per creare una loro gang. Mentre tra i maschi la gerarchia è più marcata, tra le femmine è sfumata, sono quasi tutte sullo stesso piano, non ci sono leader.

Sono sfacciate, audaci e la maggior parte abituate alla violenza in famiglia, per loro l’aggressività è naturale. Quelle che vengono da famiglie benestanti, spesso emulano i video». E la reazione dei ragazzi? Pettrone commenta che «tendono a minimizzare gli atteggiamenti violenti delle coetanee, a sminuirne il valore perché si sentono in competizione e in un certo senso le temono. Talvolta sono divertiti dalla tipologia delle ragazze cattive e questo non fa che accrescere il loro compiacimento.

Si sentono al centro dell’attenzione maschile e la loro smania di protagonismo è soddisfatta.Fanno a gara sul social Tiktok per le bravate. Acquisiscono una parità distorta nella violenza. Imitano molto le eroine dei film che hanno tratti mascolini e ostentano forza e aggressività». Pettrone, raccogliendo le esperienze dei ragazzi, ha rilevato che ci sono videogiochi e film diventati modelli «cult» di violenza. Come il Gta, in cui vince chi ruba e violenta le donne.

È vietato ai minori ma dilaga proprio tra di loro. «Lo spaccio di droga, lo sfruttamento della prostituzione e l’incitamento alla violenza non dovrebbero costituire la principale trama di un videogioco per adolescenti. Eppure alcuni di questi videogiochi che si basano proprio su una serie di attività criminali finalizzate a conseguire i punti sono molto vendute tra i giovani», spiega la psicologa.

Più si spara, più si uccide e più si sale nella graduatoria. La classifica si scala facilmente se tra le vittime ci sono i poliziotti. In ragazzi già predisposti all’aggressività, film e giochi forniscono modelli, lanciano messaggi negativi che trovano terreno fertile tra le baby gang». Nel camper del progetto Informa arrivano anche i genitori. Pettrone sottolinea che tali fenomeni di violenza di gruppo sono radicati soprattutto lì dove le famiglie sono assenti: «I genitori non sanno più mettere un limite, stabilire regole.

Il che consente di scrollarsi di dosso le responsabilità. C’è la cultura dell’adolescente che deve essere libero. Così accade che difendono i figli anche di fronte ad atti gravi. Cercano di addossare la colpa all’esterno, agli insegnanti, agli amici».

Fonte: L.D.P. per “la Verità”

Legami tra cartografia e l’intelligence

Fitti legami intrecciano la cartografia con l’intelligence.

Non è un caso, infatti, che l’ulissidea vocazione dell’uomo a sondare e superare i confini della conoscenza abbia animato gli esploratori di mare e di terra al pari degli agenti segreti. Essi si ritrovano in una narrazione avventurosa che ancora oggi, in termini diversi ma non meno affascinanti, li pone ai confini delle colonne d’Ercole della conoscenza.

Dopo il tradizionale appuntamento con Sergio Romano, che offre spunti di riflessione su fattori competitivi e criticità legate alla leadership americana, da cui dipende il riposizionamento delle grandi potenze sullo scacchiere del mondo, Michele Castelnovi presenta il profilo cinquecentesco di Giovanni da Verrazzano in cui si colgono i segni dell’ibridazione tra scienza e spionaggio, sia statuale che lobbistico-finanziario, come dimostrano le eresie cartografiche funzionali a partigiane posizioni politiche. È un’intelligence pronta a cogliere le sfide della modernità – in una visione olistica del controllo geografico, geopolitico e sociale – quella che Alessandro Guerra rievoca ricordando, con la voce di Carlo Ginzburg, la necessaria vocazione predatoria umana a «fiutare, interpretare, classificare tracce infinitesimali come fili di bava».

L’emancipazione dello statuto della spia al servizio di un’idea di Stato, indotta dalla rivoluzione francese, ha profondamente mutato modelli e fini informativi dell’epoca e non averne compreso l’impatto internazionale più che interno – secondo il saggio di Federico Moro – è uno dei motivi del definitivo crollo della Serenissima a fine Settecento.

Nell’accelerazione della storia, la cartografia diventa spazio privilegiato di studio e di confronto politico e molti, che a essa si dedicano, svolgono un ruolo significativo anche sul piano informativo; esemplari i casi dell’apertura del Giappone all’Occidente, nella seconda metà dell’Ottocento (Philip Roudanovski) e del Grande Gioco nell’Asia centrale, in cui il confronto anglo-russo fa emergere l’ambiguo intrico di fervore scientifico, spirito d’avventura, spionaggio e patriottismo (Dario Citati). Non è un caso che anche i manuali di istruzione scientifica per i viaggiatori a cavallo del XX secolo – tra cui spiccano autori italiani e tedeschi – offrano spunti d’intelligence (Michele Castelnovi) e rappresentino occasioni di approfondimento per la conoscenza dei contesti.

La cartografia diventa sintesi e strumento per fini militari, logistici o politici, come attestano le esperienze scientifiche e irredentiste di Cesare Battisti (Matteo Marconi); le missioni segrete delle “navi civetta” antisommergibile nell’Egeo e nel Canale d’Otranto durante il Primo conflitto mondiale (Claudio Rizza); l’intensa attività in Medio Oriente della “terribile archeologa” Gertrude Bell – creatrice dello Stato iracheno e agente dell’Arab Bureau, istituito al Cairo dall’Intelligence Service – a riprova di come lo spionaggio sia arte comprensiva di molte altre (Marco Ventura).

A seguire, Gianluca Pastori approfondisce il ruolo delle missioni archeologiche e della diplomazia culturale a sostegno dell’attività di spionaggio e di promozione degli interessi italiani in Medio Oriente tra le due guerre; mentre Giacomo Pace Gravina consegna al lettore la memoria dell’archeologo Biagio Pace che, grazie alla sua profonda conoscenza dello spazio greco-anatolico, contribuì allo sbarco italiano ad Adalia nel 1919 e osservò, durante l’occupazione bolscevica della Georgia del 1921, le conseguenze economiche e sociali del regime comunista. Interessanti sono anche i contributi sul versante della storia dell’intelligence. Enrico Silverio, attraverso la biografia di uno dei vertici degli apparati informativi della media età imperiale romana, restituisce inalterata la complessità delle dinamiche di potere e del ruolo degli agenti segreti dell’epoca. Gianluca Falanga dagli archivi della Stasi trae elementi di valutazione sulla vocazione sovietica, durante la Guerra fredda, a destabilizzare un’area all’interno del blocco occidentale, come testimonia il caso del terrorismo secessionista altoatesino.

Paolo Bertinetti passa poi in rassegna la galassia delle detective e spy stories confermando come il clamoroso successo, spesso contingente, veicoli interessi transitori e sovente non corrisponda al valore letterario delle opere. Carlo Bordoni propone quindi la prometeica visione della scienza e della tecnica, sempre più legate da un rapporto ambiguo, concorrente e competitivo, in cui l’attuale primazia della tecnologia sembra il frutto della perdita di valore e d’intermediazione dei poli della conoscenza.

Enrica Simonetti, infine, svela la magia di alcune lingue minori rinvenibili sul territorio nazionale che rivelano di custodirne i valori tradizionali e la natura plurale da preservare. Le consuete rubriche si affidano ai contributi di Roberto Ganganelli per la numismatica sulla necessità, sin dall’antichità, di batter moneta anche durante i periodi di assedio; di Elisa Battistini sull’intreccio tra storia, realtà e rappresentazione cinematografica relativa alla morte di Osama Bin Laden; di Melanton per l’humour sulla sofisticazione semantica dell’agente segreto “Sapiens Sapiens”.

Fonte: AGENZIA INFORMAZIONI E SICUREZZA INTERNA gnosis.aisi.gov.it

Disturbi dell’Umore

La depressione altro non è che uno stato in cui l’individuo vive in totale assenza di speranza, speranza per sé e per il futuro, segnato dall’ineluttabile amarezza della vita. Già, perché la sofferenza è vissuta come qualcosa di ineluttabile, inevitabile, quasi come una caratteristica intrinseca della vita. Questo stato si verifica quando anche l’ultimo baluardo di fiducia viene a mancare.

Con questa introduzione, oggi non voglio parlare di depressione maggiore, cioè di quell’etichetta clinica che è accompagnata da determinati criteri diagnostici. Oggi mi preme parlare di un tipo di depressione nascosta, silente, che accompagna molti di noi e che, purtroppo, non avendo alcuna definizione diagnostica, troppo spesso passa inosservata.

Il risultato? La persona si trascina senza vivere con pienezza la sua vita, senza mai conoscere fiducia e comprensione. In effetti se ci si soffermiamo a rifletterci, come potrebbero essere compresi nella loro sofferenza se nessuno ne parla? Se nessuno dà una spiegazione a quel dolore. Ecco che quelle persone finiranno per convincersi di essere loro inadatte alla vita. Niente di più sbagliato.Imparare a soffrire, un insegnamento difficile da dimenticare.

Alcune persone si muovono nella vita già sconfitte, come se avessero bisogno solo di sofferenza, abbandono e quanto di peggio possano provare. Questo accade perché, nella loro storia personale, non hanno mai conosciuto una reale spensieratezza. Sulle loro spalle, fin dall’infanzia, è sempre gravato un peso enorme: la responsabilità di una persona cara e/o la vergogna o la colpa per un torto subito di cui non hanno alcuna responsabilità. Queste persone non tentano neanche di conquistarsi la loro fetta di felicità perché ormai, è già andata! È stata perduta tanti anni prima e, come premesso, manca la speranza. Osservandole da lontano, non sembrano davvero depresse: si alzano, vanno a lavoro, sono efficienti, propongono soluzioni, si confrontano… Non scaricano la loro frustrazione sugli altri e all’apparenza sembrano forti o insensibili, tutto questo solo perché hanno imparato precocemente a mettere un tappo a certe manifestazioni.Il dolore ha un potere pazzesco. Quando una persona, anzi, un bambino, deve fare i conti con la sofferenza per lungo tempo, senza alcuna consapevolezza e supporto concreto, quel bambino finirà per normalizzare la sofferenza, finirà per renderla parte del suo presente, sempre. Stare male diventa una costante naturale della vita. Chi non ha conosciuto la leggerezza dell’infanzia, solo difficilmente da adulto potrà costruirsi il suo benessere: nessuno gli ha mostrato come si fa. La verità è che, da adulti, tendiamo a ricostruirci una realtà che in qualche modo possa restituirci le emozioni vissute durante l’infanzia.

Beh, se quelle emozioni appesantiscono il cuore e parlano di assenze, omissioni, promesse infrante e fiducia tradita, è chiaro che la speranza inizierà ad affievolirsi fino a sparire.Quella fiducia perdutaSul dizionario «Oxford Language», la speranza è definita come «l’attesa fiduciosa di un evento gradito o favorevole». Alcune persone non hanno mai ricevuto un feedback positivo dall’ambiente esterno. Sono cresciute costantemente frustrate, puntualmente tradite nelle speranze e nei bisogni. Non bisogna aver vissuto traumi eclatanti per sviluppare questa forma depressiva di sottofondo. Modelli genitoriali inadeguati possono arrecare, inconsapevolmente, molti danni allo sviluppo psicoaffettivo del bambino, fino a distruggere quella che in psicologia è definita fiducia epistemica primaria.Nelle relazioni primarie (cioè nei primi legami che stringiamo da bambini con le figure genitoriale) impariamo se possiamo fidarci o meno del prossimo, impariamo a valutare l’altro come una spalla sulla quale poter contare o come qualcuno da cui difendersi. In modo riduzionistico, se i nostri bisogni di accettazione, di vicinanza, di benevolenza e di supporto sono stati soddisfatti in modo opportuno, vedremo nell’altro una risorsa. Al contrario, perderemo ogni speranza, l’apprendimento implicito e precoce è un secco: «nessuno può aiutarmi, devo (e dovrò!) arrangiarmi sempre da solo!» Oppure: «sono un peso! Sono talmente inaccettabile che neanche chi dovrebbe amarmi di più al mondo vuole prendersi cura di me!».

In termini pratici, se un giorno un bambino è spaventato dall’abbaiare di un cane e, nel genitore, non trova un rifugio sicuro ma trova parole sprezzanti del tipo: «smettila di frignare come una femminuccia! È solo un cane!». Quello seguente, il bambino piange perché si è sbucciato il ginocchio e invece di trovare rassicurazioni il genitore parte con un «te l’ho detto che non dovevi correre! Sei stupido, tu non mi ascolti!». Poi ancora, se fa i capricci, parte subito un «Se continui la mamma si arrabbia»… Un modello genitoriale svilente, che invalida costantemente tutte le manifestazioni emotive del bambino, giorno dopo giorno, eliminerà ogni forma di speranza. Il bambino non imparerà che, se ha paura, può contare sull’altro, anzi, imparerà che l’altro può essere altrettanto spaventoso. Non capirà che, se si fa male, può guarire e rialzarsi, anzi, apprenderà che non può, anzi, non deve sbagliare mai! Imparerà che le emozioni non vanno espresse perché queste innescano reazioni avverse.

Alla base di quella malinconia di sottofondo.

Alla base di tutta quella malinconia di sottofondo che ci portiamo dentro, c’è la fiducia violata di un bambino spaventato che non voleva altro che essere rassicurato. I bambini sono esseri emotivi, non razionali, hanno bisogno di rassicurazioni, attenzioni, ascolto empatico e vicinanza affettiva, non hanno bisogno di giocattoli costosi contornati da prediche e offese!

Abbiamo detto che chi sperimenta questa malinconia di sottofondo, talvolta appare molto forte, quasi invincibile. Allora come fare per capire queste persone? Vediamo insieme alcune frasi che possono essere un indicatore di un vissuto difficile, di una sofferenza di sottofondo.

Frasi tipiche delle persone depresse che non sembrano depresse.

Vediamo quali sono le frasi tipiche delle persone senza speranza e ti darò anche qualche suggerimento per rispondere. Se quella persona che ha perso ogni briciolo di fiducia sei tu, sappi che puoi ripetertele da solo. È vero, ognuno di noi ha bisogno di comprensione dall’esterno ma spesso e volentieri, la vera vicinanza di cui abbiamo bisogno è la nostra! Dobbiamo imparare a entrare in contatto con noi stessi e ascoltarci davvero. La sofferenza che ci portiamo dentro ci sta raccontando una storia che riguarda il nostro passato, oggi tocca a noi scrivere il nostro

«Tutte le storie sono destinate a finire»

Come rispondere a una persona cara: «ma perché, tu le hai provate davvero tutto? Le conosci tutte?»Come rispondere a se stessi: «penso questo solo a causa delle mie esperienze drammatiche, questo mio pensiero è legato più a vissuti emotivi che non a un processi riflessivi. Da oggi, voglio riflettere di più su me stesso e su come mi stanno condizionando i miei vissuti del passato.»«Tanto, tutto è inutile»Come rispondere a una persona cara: «io credo che ce la farai, so che tutto ti sembra nero, ma le cose belle accadono».

Cosa dire a se stessi: «cosa ho provato per cambiare questa situazione? Ho provato davvero tutte le strade o sono prevenuto?

I risultati dipendono solo da me? Io non posso cambiare le condotte altrui ma posso prenderne le distanze, posso costruire la mia isola felice perché la merito».

«Non valgo nulla»Come rispondere a una persona cara: «Beh, io ti voglio bene così come sei»Cosa dire a se stessi: «sento di non valere nulla perché una parte di me mi induce a sentirmi così. Ma «sentirsi» in un certo modo non significa «essere». Le emozioni che provo alterno fortemente le mie percezioni, piuttosto dovrei chiedermi, cosa mi ha fatto sentire così?»

«Ormai» – «Oramai è troppo tardi»

Come rispondere a una persona cara: «Pensaci un po’, se tu iniziassi oggi un corso di cucina tra tre anni potresti anche essere uno chef stellato! Non è mai troppo tardi se si hanno progetti, è la fretta di realizzare che ti tarpa le ali»Cosa dire a se stessi: «Troppo tardi rispetto a cosa? Non sto facendo alcuna competizione! A volte dimentico che sono io il padrone della mia vita, quindi li scandisco io i miei tempi. Posso proseguire a piccoli passi, posso fare pause, perdere tempo, allontanarmi dai miei obiettivi e poi tornarci…! Posso rilassarmi e poi proseguire a piccoli passi.»

«Vorrei tornare quello di prima»Come rispondere a una persona cara: «Va bene, allora cosa possiamo fare oggi per ritornare allo splendore di un tempo? Possiamo farlo insieme!».

Cosa dire a se stessi: «Le mie emozioni mi proiettano al passato, concentrandomi sul presente posso addirittura essere migliore di prima. Ogni giorno voglio dedicare un po’ di tempo a me stesso, cimentandomi in attività che piacciono. Voglio nutrire la mia identità, voglio finalmente prendermi davvero cura di me!». Riscrivi le Pagine della Tua Vita.

Ormai molti già lo conoscono, si tratta del mio libro bestseller: «Riscrivi le Pagine della Tua Vita». Se non lo hai ancora fatto, ti consiglio di leggerlo, lo trovi su amazon e in tutte le librerie. In ogni pagina, ti spiego come ridefinire la tua identità a partire dai tuoi vissuti del passato e dalle emozioni che provi oggi. Potrai finalmente concederti il lusso della politica dei piccoli passi, cioè riuscirai a migliorare la tua vita giorno per giorno, senza pretendere tutto e subito, in ogni capitolo, infatti, ci sono esercizi pratici e nozioni che possono aiutarti fin da subito a migliorare la qualità della tua vita a partire dalla relazione che hai con te stesso e con gli altri. Puoi ripartire ricostruendo quella fiducia perduta. C’è una persona che non dovrebbe deluderti mai: quella persona sei tu! Ricorda: anche tu meriti la tua fetta di felicità in questa vita, abbi il coraggio di allungare la mano per prenderla! È tua, ti spetta di diritto.

A.De Simone, psicologo esperto in neuropsicobiologia

Fonte: Psicoadvisor

Comportamenti tipici dei genitori invadenti

Essere invadenti non ha nulla a che vedere con l’essere premurosi. Un genitore può essere premuroso senza essere invadente. Queste prime due frasi sono doverose perché spesso, i genitori, celano la loro invadenza dietro un eccesso di premura, quasi di preoccupazione spasmodica per il figlio. Diciamolo una volta per tutte: l’invadenza non ha nulla a che fare con la cura, con l’essere premurosi.

So che molti genitori storceranno il naso a leggere queste prime righe ma è così, l’invadenza non è una naturale evoluzione della preoccupazione ma è una chiara mancanza di rispetto, una chiara violazione dei confini psicorelazionali del figlio. Il genitore che vuole gestire la vita di suo figlio.

Più che alla volontà di proteggere il figlio, l’invadenza è meglio associata alla desiderio di voler gestire la vita del figlio. A questo può arrivare un genitore che tratta il figlio come un’estensione di sé, non riconoscendogli una sua identità personale.

Ciò succede quando il genitore proietta nel figlio parti di sé come pure tutte le sue ambizioni mancate, i suoi sogni infranti e le sue ferite. Così il figlio avrà il compito di riscattare la vita del genitore, di prendere in eredità, il carico emotivo del genitore. Lo scotto da pagare? Quel bambino non sarà mai in grado di sviluppare un’identità propria.

Questo andamento lo vediamo spesso in quei genitori che organizzano la vita del figlio, che già gli hanno programmato il percorso di studi, le amicizie da frequentare e le attività extrascolastiche, senza mai interessarsi davvero alle ambizioni del piccolo. Servendosi di sensi di colpa, ricatti emotivi e manipolazione affettiva, alcuni genitori sono capaci di inculcare la propria volontà nel figlio ancora piccolo. Iniziano sostituendo i desideri del bambino, con i propri.

Quel bambino, ben presto, si ritroverà a invalidare se stesso e a negare parti di sé per soddisfare il genitore. Ricordiamoci questo, un bambino vuole giocattoli, vuole dolciumi ma più di tutto vuole vedere nel genitore quel bagliore di fierezza, vuole sentirsi importante ai suoi occhi e, anche se non lo da a vedere apertamente, fa di tutto per riuscirci, anche se questo significa rinunciare a se stesso.

E da adulti?

Se prima, da bambini, era la gestione del tempo, i vestiti da indossare e le attività extra scolastiche, quando i figli sono adulti, quei genitori non smettono e continuano a esercitare la propria invadenza. Ecco che vogliono avere influenza su:

la scelta del partner

la carriera (studio e lavoro)

la stessa relazione genitore-figlio (livello di attaccamento e confini)

Un buon genitore, imperfetto come tutti gli esseri umani ma che riconosce al figlio una sua identità, può provare disappunto verso la scelta del partner esercitata dal figlio, tuttavia riesce ad accettarla. Può fargli presente determinati atteggiamenti del partner ma senza mai rimanere invischiato nelle dinamiche di coppia.

Insomma, riesce a gestire i confini perché, prima di tutto, accette e stima suo figlio.

Un genitore invadente, invece, se il figlio devia dal suo programma e gli presenta un partner non congeniale ai suoi piani, non solo palesa il suo disappunto ma glielo farà pesare. Lo farà a ogni litigio, anzi, non perderà nessuna occasione per sottolineare quanto l’abbia deluso con quella scelta. Già, perché fin da bambino, il genitore ha creato un vincolo. Ha vincolato l’erogazione dell’amore alla condotta del figlio. Un ricatto bruttissimo che i genitori invischianti operano spesso.

La sintesi è questa: se vuoi il mio amore, devi essere ciò che voglio io e negare chi sei veramente. È così che i genitori innescano nei figli, fin da piccoli, il seme dei conflitti interiori. Ancora peggio, gli insegnano l’amore condizionato, cioè un amore senza accettazione, senza stima… cioè un amore che in realtà, non è affatto amore dato che accettazione e stima sono alla base!

Il genitore invadente sfrutta impropriamente il suo potere

Quando un bambino viene al mondo è indifeso e bisognoso di cure. Il genitore si fa carico del figlio e, man mano che egli cresce, innesca un’insana dinamica di potere che suona così:

Io ti ho nutrito

Ti ho cresciuto

Io ti ho mantenuto economicamente

Ho investito le mie energie su di te

Ora tu mi appartieni, sei in debito!

Ovviamente, tale dinamica di potere sarà ben nascosta e mascherata da parole come “sacrificio”, “amore”, “preoccupazione” ma inevitabilmente emergerà mediante frasi quali: «per tutto quello che ho fatto per te», «me lo devi», «non puoi farmi questo», «tu puoi fare quello che vuoi ma poi non contare su di me» (che quindi, significa, puoi fare solo ciò che voglio io, perché il bambino ha solo i genitori su cui contare).

Questa dinamica, innesca una serie di ricatti morali nel figlio che si sentirà obbligato ad accondiscendere ai bisogni genitoriali, in lui emergeranno sensi di colpa, vergogna, sensazione di non essere abbastanza, rabbia repressa, ferita del rifiuto (…). In determinate situazioni, nel figlio emerge una rabbia più esplicita, accompagnata da condotte ribelli.Purtroppo la mentalità gerarchica e priva di amore che ho descritto nei 5 punti elencati in precedenza, è molto più comune di quanto si possa immaginare. Chi decide di mettere al mondo un figlio dovrebbe farlo mosso dal desiderio di donare amore incondizionato. Non è quel bambino che ha chiesto di venire al mondo. È dunque dovere del genitore supportare, nutrire e assicurare al figlio un’istruzione. Nel farlo, non guadagna alcun credito, non dovrebbe maturare alcuna pretesa! E questo non è affatto triste. Sapete perché? Perché un legame solido e ben nutrito, ripaga più di qualsiasi ricatto morale, ripaga più di qualsiasi pretesa.

Quando il genitore non riconosce al figlio il diritto di esistere

Un genitore invadente, non riconosce al figlio il diritto di esistere perché sistematicamente gli nega l’opportunità di pensare con la sua testa. Il figlio finisce per interiorizzare completamente il punto di vista genitoriale oppure per detestarlo. Un figlio che viene costantemente invalidato, in realtà, non ha la consapevolezza di ciò che sta subendo, si sente solo oppresso e non riuscendo a dare un significato a quei sentimenti di oppressione, potrebbe ripercuoterli su tutto (genitori, compagni di scuola…), oppure potrebbe annullare completamente se stesso.In entrambi i casi, un genitore invadente non si rende conto che con le sue pretese nascoste, con i suoi obblighi morali, finirà per: seminare il risentimento a lungo termine fomentare rabbia

creare un attaccamento disfunzionale e precario

negare al figlio autonomia e individuazione

creare un legame del tutto fasullo

Un genitore che riconosce al figlio il diritto di esistere in proprio, senza dipendenza e oppressione, gli consente di sviluppare idee, preferenze, bisogni propri e un pensiero personale che potrebbe anche essere divergente da quello genitoriale. Ci sta!Quando l’invadenza è solo legata alla preoccupazione

Vi sono forme di invadenza più innocenti che possono rimandare alla mera e fisiologica preoccupazione. Queste forme, sono più caratteristiche dei genitori ansiosi. In questo caso, l’invadenza si fa sentire quando il figlio passa molto tempo fuori casa. Il genitore sente il bisogno di rassicurarsi costantemente sullo stato di benessere del figlio e così può essere più pressante con telefonate e dettare regole di rientro più rigide .

Potrebbe capitare che il genitore diviene più presente nella vita del bambino prima e dell’adolescente dopo. In forme più complesse, il genitore potrebbe involontariamente non incoraggiare un’indipendenza adeguata allo sviluppo (la classica mamma chioccia).

Ma in questi casi, mancano tutte le componenti di repressione, obbligo, mancano i ricatti morali (…) e soprattutto, il figlio non è vissuto come uno strumento di realizzazione personale ma solo come un destinatario di amore e cure. Non solo, con la crescita del figlio anche il genitore inizia a sentirsi più sicuro così da superare insieme i timori e le incertezze legate al futuro .

Alla ricerca di uno scopo

Il genitore diviene invadente e bramoso di gestire la vita del figlio quando la sua stessa identità è coinvolta nella realizzazione del figlio. Il successo del figlio fa sentire i genitori migliori, realizzati, come se la loro vita (percepita come priva di senso) avesse finalmente uno scopo, una direzione chiara! Il figlio non è vissuto come una persona a sé ma un mezzo mediante il quale soddisfarsi. Fare il genitore è sicuramente difficile ma talvolta manca proprio l’ABC. In fondo, per essere un buon genitore, basterebbe riconoscere al bambino il suo diritto d’esistere come individuo a sé, degno di stima e di amore.

A.De Simone, psicologo esperto in neuropsicobiologia. Autore del bestseller «Riscrivi le pagine della tua vita» edito Rizzoli

Fonte: psicoadvisor.com

Tavolo Interistituzionale sul fenomeno della violenza sulle donne

DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA
UFFICIO DEL CAPO DEL DIPARTIMENTO
Ufficio Studi Ricerche Legislazione e Rapporti Internazionali

Abstract – L’Ufficio Studi del Dap ha partecipato ad alcuni tavoli della Task Force interministeriale sulla violenza di genere, coordinata dal Dipartimento per le PP.OO. della PCM, per elaborare il Piano straordinario previsto dalla cd legge sul femminicidio (art. 5 del DL 93/13 convertito nella L. 119/13). Ha contribuito quindi alla elaborazione delle LINEE GUIDA sulla valutazione del rischio ponendo l’attenzione sul modello interdisciplinare di osservazione scientifica della personalità previsto in ambito penitenziario. La enucleazione e la valutazione dei fattori di rischio, da parte degli autori, di commettere violenza verso le donne è un’attività necessaria per individuare le misure penali ed il trattamento più adeguato a prevenire la recidiva e assicurare così una tutela delle vittime davvero efficace e duratura. Le indicazioni proposte dal gruppo di lavoro si rivolgono a tutti gli operatori coinvolti sul territorio (forze di polizia, pronto soccorso, centri antiviolenza e per i maltrattanti, magistrati e servizi penitenziari) che dovranno coordinarsi e mettere in comune dati, saperi ed esperienze maturate sul campo. Si presenta qui un estratto dal documento finale 2014, poi recepito nel DPCM 7 luglio 2015 “Piano straordinario d’azione contro la violenza sessuale e di genere“, in particolare all’Allegato d) sulle Linee Guida.

LA VALUTAZIONE DEL RISCHIO NEL SISTEMA PENITENZIARIO

GRUPPO DI LAVORO PER LA REDAZIONE DELLE:
“LINEE GUIDA PER LA VALUTAZIONE DEI FATTORI DI  RISCHIO”


A fronte dei vincoli normativi riguardo al giudizio sulla capacità di intendere e volere e quindi sull’imputabilità giuridica dell’autore accertato o sospettato, nel sistema penale italiano e l’Ordinamento penitenziario[1]; formano un insieme organico di norme fondate sul principio costituzionale della funzione rieducativa della pena che prevedono, oltre ai diritti e doveri dei detenuti, l’organizzazione degli istituti, un complesso di attività di accertamento e valutazione delle caratteristiche della personalità dei soggetti condannati ed internati. Attività organizzate che coinvolgono la Magistratura di Sorveglianza e l’Amministrazione penitenziaria  (DAP) in due distinti momenti:

  1. per evidenziare uno degli elementi  necessari all’Autorità giudiziaria al fine di stabilire la pericolosità sociale del condannato e internato, deducibile anche dai “motivi a delinquere e dal carattere del reo” (artt. 133-comma 2,n.1  e  203  C.p.),  al fine di decidere sull’applicazione o meno delle misure di sicurezza e la loro eventuale proroga, con il procedimento di riesame della pericolosità a cura della Magistratura di Sorveglianza;
  2. come elemento dell’Osservazione scientifica della personalità (OSP), quale attività tipica condotta dagli operatori penitenziari, per rilevare fin dal primo ingresso i bisogni, le carenze fisiopsichiche e le altre cause di disadattamento sociale che hanno portato alla condotta criminale (art 13 O.p. e 27,28 e 29 R.d’E.) ;  sulla base di questi risultati viene formulato il  programma individualizzato di trattamento, con gli interventi, immediati e in itinere, più adeguati al recupero sociale e quindi alla prevenzione della recidiva e forniti i pareri e le osservazioni a supporto delle decisioni della Magistratura di Sorveglianza per la concessione dei benefici penitenziari (permessi, detenzione domiciliare, affidamento in prova, semilibertà ecc).

Per gli autori dei più gravi reati a sfondo sessuale (fra cui la violenza di gruppo art. 609-octies C.P.) l’O.P. prescrive, fra l’altro, almeno un anno di osservazione anche da parte degli esperti ex art. 80 (psicologi, criminologi) quale condicio sine qua non per poter accedere ai benefici. Se la vittima è minorenne l’autore può inoltre sottoporsi per almeno un anno ad un trattamento psicologico di recupero e sostegno.
L’OSP è condotta in equipe dal Gruppo di osservazione e trattamento (GOT) composta dagli operatori penitenziari (educatori, assistenti sociali, medici, esperti psicologi o criminologi, polizia penitenziaria ed altri che conoscono il detenuto es.  insegnanti, volontari ecc ), sulla base di un contatto diretto col detenuto in una relazione costruttiva. Si procede, ognuno secondo l’area di competenza, con  la raccolta sistematica e l’esame  di tutte le informazioni (giuridiche, familiari, sanitarie, psicologiche, sulla carriera criminale, situazione socio-familiare, lavorativa, istruzione, sul vissuto e le relazioni interpersonali dentro e fuori dal carcere, il comportamento auto lesivo, tossicodipendenza, ecc). Si segue quindi un approccio di tipo multifattoriale per arrivare ad una visione unitaria della persona espressa nella relazione di sintesi redatta dal GOT con la supervisione del direttore del carcere.
Nel sistema penale italiano, storicamente ancorato al fatto, ma attento ai contributi della Scuola positiva sulle tipologie di autore, tale approccio attraverso l’OSP consente, se non una illusoria esatta predizione della condotta criminale, la conoscenza approfondita degli aspetti della vita e della personalità dell’autore rilevanti che hanno influito sulla commissione del reato.
Le complesse dinamiche personologiche che investono i reati legati alla violenza di genere e la gravità della escalation esigono che il sistema penitenziario possa elaborare, recepire , sperimentare e fare affidamento anche  su strumenti e metodiche di assessment per la valutazione del rischio facilmente fruibili dai suoi operatori, in modo che la scelta del tipo di trattamento sia quella più adatta a favorire nel singolo caso gli interventi di recupero,  da intendere come sviluppo degli aspetti positivi della personalità e modifica del comportamento lesivo (consapevolezza del suo agito, auto-responsabilizzazione ed azioni risarcitorie della vittima) con la partecipazione attiva e non meramente utilitaristica dell’autore al progetto educativo.
Gli operatori penitenziari, grazie alla presa in carico e alla conoscenza diretta degli autori entrati nel circuito penale, possono mettere a frutto il tempo della pena e delle misure alternative o di comunità e svolgere quindi, dentro e fuori dal carcere, un ruolo importante nell’ambito del territorio per l’integrazione degli interventi, la condivisione delle informazioni (non ostative sotto il profilo giudiziario e di sicurezza) e dei risultati delle verifiche sul trattamento nella prospettiva di prevenire la ricaduta nel reato da parte del singolo autore. Inoltre, gli studi e le ricerche finora condotte sulla popolazione detenuta italiana con la collaborazione del DAP hanno rappresentato e rappresentano occasioni importanti anche ai fini della maggiore conoscenza del fenomeno,  per la validazione di strumenti scientifici e la sperimentazione di diversi approcci metodologici per la valutazione dei livelli di rischio[2] ; ed il perfezionamento di altri già sperimentati positivamente. 

Il  ruolo e le risorse professionali  dell’Amministrazione penitenziaria vanno  quindi orientati : 

  • attrezzando i suoi operatori, attraverso la formazione congiunta con gli altri destinatari  di Primo e Secondo Livello, di conoscenze e competenze specifiche sul fenomeno della violenza di genere e sugli strumenti scientifici convalidati e fruibili per la valutazione dei livelli di rischio di condotte violente, aggressive, anche a lungo termine, mettendo a frutto i risultati delle più acclarate ricerche scientifiche, criminologiche e sociologiche riguardo alla prevenzione della violenza di genere e nelle relazioni interpersonali;
  • sviluppando gli interventi sugli autori con la partecipazione anche della comunità esterna, in un approccio integrato con le reti del territorio istituzionali e non, e in particolare con i Centri di recupero per i maltrattanti;
  • favorendo gli studi e le ricerche scientifiche sulla popolazione detenuta dei sex offenders e sulla qualità della valutazione del rischio in collaborazione con le Università, le Forze dell’Ordine, i Servizi sanitari, gli Enti e Istituzioni, Associazioni e Organismi del territorio e la Comunità scientifica internazionale, e la sperimentazione di protocolli e metodiche convalidate, utili e fruibili, sia ai fini delle indagini investigative da parte delle FF.OO.  sia  per mettere a punto specifiche modalità di gestione e trattamento (risk management) ai fini del recupero di tali autori nella comune prospettiva di prevenirne la recidiva e quindi tutelare le vittime reali e potenziali.

Roma, 7 Luglio 2015

Redatto da Antonella Paloscia
   Dirigente Penitenziario

IL DIRETTORE DELL’UFFICIO
Roberta Palmisano

[1] Legge 26 luglio 1975, n. 354 “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” e il suo Regolamento d’Esecuzione (DPR 30 giugno 2000, n. 230). Tali norme, recepiscono le regole minime dell’ ONU e le regole penitenziarie europee sul trattamento dei detenuti

[2]Al riguardo si cita la ricerca S.O.Cr.A.Te.S. dell’Arma dei Carabinieri e del DAP con il prof. Caretti dell’Università di Palermo, sulla validazione in Italia della PCL-R, proseguito poi con i risultati positivi raggiunti in alcuni istituti con il progetto Stalking (prof. A. Baldry Università di Napoli 2) che ha utilizzato, fra gli altri, il metodo S.A.R.A. (per quest’ultimo si rinvia al Report conclusivo inviato al DPO nel 2011). Inoltre il DAP sta valutando, in collaborazione con l’Università di Sassari, l’adozione da parte degli UEPE (Uffici locali di esecuzione penale esterna) di un Modello di valutazione scientifica dei livelli di rischio di tenuta di comportamenti devianti per i soggetti che chiedono di essere ammessi ad una misura o sanzione alternativa alla detenzione o di comunità, in modo da adempiere a quanto previsto dalle Regole europee sul Probation (2010)1 ed uniformarsi alle realtà più avanzate presenti in Europa. Tale modello, comprensivo di item sia di natura sociale che psicologica, è stato elaborato nell’ambito dell’attività internazionale del DAP ispirandosi ampiamente soprattutto all’esperienza maturata da alcuni paesi europei (Regno Unito e Irlanda). Vedi anche alcune esperienze significative di trattamento intensificato per i sex offenders in carcere con la collaborazione del territorio (Carcere di Milano Bollate con il Centro di Mediazione Penale di Milano) anche dopo la scarcerazione. Altri progetti e ricerche condotti dal DAP, fra cui WOLF e For-Wolf sui rei pedofili (vedi a cura di L. Mariotti Culla, G.De Leo “Attendi al lupo”, ed. Giuffrè, Milano 2005), ed interventi specifici sul trattamento dei sex offenders, sono illustrati nella rivista ufficiale del DAP La rassegna penitenziaria e criminologica consultabile sul sito www.rassegnapenitenziaria.it e su www.Giustizia.it

Fonte: Ministero della Giustizia A.Paloscia report 2015

Valutazione del rischio di recidiva dei condannati per reati sessuali e di mafia

DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA UFFICIO DEL CAPO DEL DIPARTIMENTO

Ufficio Studi Ricerche Legislazione e Rapporti Internazionali

Si tratta di un programma di ricerca scientifico-criminologica proposto da un team di professionisti ed accademici (responsabile scientifico: prof. V. Caretti, Università LUMSA di Roma) articolata in due progetti da svolgere in diverse carceri del territorio nazionale, su un campione di detenuti per reati commessi con violenza sulle persone. Finalità: rispondere alle esigenze di valutazione del rischio in ambito giuridico e psichiatrico-forense e formare gli operatori con indicazioni operative per il trattamento penitenziario più efficace a prevenire la recidiva di questi gravi reati. valutare la validità predittiva di uno strumento diagnostico, l’HCR-20 V3, per i crimini sessuali e la possibilità di utilizzarlo nel contesto italiano. Metodologia: indagine documentale, sulla storia personale, interviste professionali, semistrutturate e di autovalutazione (HCR-20 V3, PCL-R adattamento italiano di Caretti et al., 2011 validato in Italia con la ricerca S.O.Cr.A.TE.S, PID-5), con la partecipazione di detenuti condannati per reati a sfondo sessuale, violenti, nonché su affiliati ad organizzazioni a stampo mafioso. Si presenta in questa sezione una sintesi dei DUE PROGETTI 1. La valutazione del rischio della pericolosità sociale e del rischio di recidiva in soggetti detenuti condannati per reati sessuali. Indagine su un campione di sex offenders e su un gruppo di controllo con reati contro la persona presenti nelle carceri di diverse regioni italiane. Seguirà una fase di follow up per verificare la capacità predittiva dell’ HCR-20 V3 e l’uso di tale strumento per valutare il rischio di crimini sessuali anche nel contesto italiano. Obiettivo: individuare i diversi fattori – storici, clinici attuariali e di personalità – che possono differenziare i sex offenders dagli altri autori violenti e restituire i risultati dando agli operatori penitenziari strumenti più adeguati ed efficaci per la valutazione del detenuto ai fini del trattamento. 2. La valutazione del rischio criminologico in soggetti afferenti a organizzazioni mafiose. Indagine sui detenuti per reati di mafia presenti in due carceri (Palermo e Trapani). Obiettivo: approfondire i tratti di personalità diversi dalla psicopatia e l’incidenza del trattamento penitenziario, al fine di individuare gli elementi di rischio criminologico maggiormente presenti nei soggetti appartenenti ad organizzazioni mafioseperfezionare il sistema di valutazione del rischio criminologico e migliorare i protocolli di trattamento rieducativo rivolti ai detenuti per reati di mafia.

Fonte Ministero della Giustizia – A. Paloscia, 2015