DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA UFFICIO DEL CAPO DEL DIPARTIMENTO
Ufficio Studi Ricerche Legislazione e Rapporti Internazionali
Fonte Ministero della Giustizia – A. Paloscia, 2015
DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA UFFICIO DEL CAPO DEL DIPARTIMENTO
Ufficio Studi Ricerche Legislazione e Rapporti Internazionali
Fonte Ministero della Giustizia – A. Paloscia, 2015
A stare peggio sono le donne.
Ogni anno nei 190 istituti penitenziari italiani transitano circa 100mila detenuti.
Circa il 70% di loro ha una malattia cronica (o anche più di una), ma poco meno della metà ne è consapevole. I dati ufficiali del Ministero della Giustizia indicano che oltre il 50% dei soggetti ha meno di quarant’anni e che un detenuto su tre è straniero. E le carceri si confermano un concentrato di malattie infettive, psichiatriche, metaboliche, cardiovascolari e respiratorie.
Di questo tema si parla a Roma, giovedì 4 e venerdì 5 ottobre, al Congresso nazionale della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (SIMSPe onlus), organizzato insieme alla Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (SIMIT). Tra gli argomenti “caldi” la vaccinazione delle persone detenute, integrazione e tutela delle fragilità sanitarie e sociali in carcere, il dolore e la salute mentale in ambito penitenziario, eradicazione del virus dell’epatite C nelle sezioni detentive, esperienze di gestione dei detenuti migranti.
Epatite C, la più diffusa
«Tra le malattie infettive, il virus dell’epatite C (Hcv) è quello più rappresentato, soprattutto a causa del fenomeno della tossicodipendenza – spiega Sergio Babudieri, presidente del Congresso e direttore scientifico SIMSPe onlus -. Un terzo dei detenuti (34%) è detenuto per spaccio di stupefacenti, il che li rende più soggetti a malattie infettive. Dal 30% al 38% dei carcerati ha gli anticorpi del virus dell’epatite C, ma di questi solo il 70% ha il virus attivo. Dai 25 ai 30mila detenuti, quindi uno su tre, avrebbero bisogno di essere trattati con i nuovi farmaci altamente attivi contro il virus C dell’epatite».
Hiv e tubercolosi
Numeri migliori, ma non rassicuranti, per quanto riguarda l’Hiv: la patologia è in diminuzione, ma non riguarda più esclusivamente le categorie a rischio. Oggi si parla del 3/3,5% di sieropositivi nelle carceri, ma è difficile arrivare a nuove diagnosi. I malati di epatite B, invece, sono il 5-6% del totale. Oltre la metà dei detenuti stranieri è invece positivo ai test per la tubercolosi. «Quando parliamo di migranti dobbiamo ricordarci che si tratta di persone che, per più o meno ovvie ragioni, tendono a non curarsi e a non poter approfondire la propria questione sanitaria – dice Babudieri -.
In aumento per loro è soprattutto la tubercolosi, con la possibilità di far crescere la circolazione di ceppi multiresistenti ai farmaci. Un ulteriore problema è intrinseco alla malattia, per sua natura subdola e non facilmente diagnosticabile, perché il peggioramento è lento e graduale.
Ci vorrebbe una maggiore attenzione proprio a partire dai centri migranti, dove spesso ci sono controlli sanitari non adeguati».
La situazione delle donne
Le donne sono circa il 4% della popolazione carceraria. I reati più perseguiti da loro sono quelli contro il patrimonio, contro la persona e in materia di stupefacenti. Ma sono molto frequenti anche i reati di prostituzione.
Si contano poi una sessantina di bambini, da pochi mesi a 6 anni, figli di madri che hanno subito un arresto o una condanna. «Da recenti studi internazionali – spiega Babudieri – emerge che le donne detenute hanno una percentuale di malattie infettive superiore di alcuni punti percentuali rispetto agli uomini.
Una “elite in negativo” in cui si concentrano non solo malattie infettive, ma anche psichiatriche, cardio-respiratorie, metaboliche e degenerative. Eppure occorrerebbe un piccolo sforzo per garantire a loro, e agli eventuali minori, ottimi risultati. Ma, data l’età media della popolazione totale, si potrebbe raggiungere uno stato di salute nettamente superiore per tutti».
Programma di vaccinazione«I responsabili dell’assistenza sanitaria in carcere sono i sistemi sanitari regionali – aggiunge Babudieri – .
A loro spetterebbe il compito di creare un ponte tra i medici delle carceri e i medici dell’igiene e della prevenzione territoriale. Il responsabile di ogni struttura penitenziaria dovrebbe correlarsi con i responsabili della Sanità pubblica per la realizzazione di un programma di vaccinazione totale. In questo modo tutte le persone detenute saranno sotto controllo, garantendo non solo la loro sicurezza, ma anche quella di chi starà loro accanto, dentro e fuori le strutture penitenziarie. Non è mai stato fatto un registro nazionale per nessuna patologia, non c’è mai stato un coordinamento nazionale.
Da anni la nostra Società ha proposto di affidare all’Istituto Superiore di Sanità la gestione di un Osservatorio nazionale per la tutela della salute in carcere che coordini tutti gli osservatori regionali già costituiti, ma questa nostra richiesta è stata costantemente disattesa».
CONGRESSO A ROMA 2018
Fonte: Corriere della sera
DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA
UFFICIO DEL CAPO DEL DIPARTIMENTO
Ufficio Studi Ricerche Legislazione e Rapporti Internazionali
Roma, 7 gennaio 2015
IL DIRETTORE DELL’UFFICIO
Roberta Palmisano
[1] Risoluzione 65/229, United Nations Rules for the Treatment of Women Prisoners and Non-cu stodia) Measures for Women Offenders (The Bangkok Rules)
[2] Adottate dal Primo Congresso delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Delitto ed i l Trattamento dei Delinquenti , svoltosi a Ginevra nel 1955, e approvate dal Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite con le risoluzioni 663C (XXIV)del 31 luglio 1957 e 2076 (LXIl) del 13 maggio 1977.
Fonte Ministero della Giustizia di R.Palmisano
DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA UFFICIO DEL CAPO DEL DIPARTIMENTO
Ufficio Studi Ricerche
Differenziare detenuti definitivi da quelli in attesa di giudizio è già difficile, differenziare ulteriormente all’interno di queste categorie tra uomini e donne è quasi impossibile, così le donne detenute definitive e non, si trovano sempre assieme. Le donne mediamente hanno condanne più brevi di quelle degli uomini e hanno minori probabilità di avere qualcuno cui affidare la casa e la famiglia.
Così anche una breve condanna per una donna arreca danni e conseguenze a lungo termine. Se le pene detentive brevi come punizione in generale non possono dirsi efficaci, esse lo sono ancora meno per le donne. Molto più efficace in alternativa al carcere, sarebbero misure di probation e di giustizia ripartiva, diffuse in altri Paesi. Concordare il modo migliore per riparare il danno e reintegrare le donne nella società vuol dire sostenere i loro figli, con risultati in termini di abbattimento di recidiva, e con l’ulteriore effetto di ridurre la possibilità che i figli diventino a loro volta delinquenti .
Regole sovranazionali per le condizioni detentive delle donne
Le Regole penitenziarie europee del 2006 (regola 18.8b) affermano che deve essere dato rilievo alla necessità di tenere separati uomini e donne. Le Regole Minime per il trattamento dei detenuti delle Nazioni Unite [1] adottate quasi 70 anni fa e al momento soggette ad un processo di revisione, affermano (regola 8) che “uomini e donne, per quanto possibile, devono essere ristretti in istituti separati, o in sezioni completamente separate dello stesso istituto”, ma non prestano particolare attenzione a come si possa ovviare alle pratiche discriminatorie che di fatto impediscono alle donne di beneficiare di tutte le disposizioni che possono rendere più accettabile il regime carcerario.
Il 21 dicembre 2010, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite[2] ha adottato un nuovo testo di disposizioni volte a colmare una lacuna negli standard internazionali riguardanti le esigenze specifiche delle donne in conflitto con la legge penale. Sono le Regole delle Nazioni Unite per il trattamento delle donne detenute e le misure non detentive per le donne autrici di reati, note come le “Regole di Bangkok” a riconoscimento del ruolo determinante svolto dal Regno di Tailandia nella loro elaborazione. Seppure sprovviste di efficacia vincolante, le 70 Regole di Bangkok fanno parte dell’ampia raccolta di principi e linee guida, standard e norme, sviluppate dalle Nazioni Unite nel corso di più di 50 anni. L’Ufficio Studi del DAP ha provveduto a tradurne il testo e a diffonderlo. Esse sono divise in due sezioni, una contenente le disposizioni di applicazione generale e l’altra le regole dedicate a categorie speciali quali le madri, le straniere, le giovani.
La regola n. l fissa il principio di individualizzazione del trattamento (“bisogna tenere conto delle esigenze peculiari delle donne detenute per l’attuazione delle presenti regole. Le misure adottate per soddisfare tali necessità non devono essere considerate discriminatorie”). E’ necessario prendere in considerazione le esigenze diverse delle donne rispetto a quelle degli uomini: l’attenzione a queste esigenze non è discriminatoria “il concetto di eguaglianza significa ben più che trattare tutte le persone allo stesso modo. Il trattamento uguale di persone in situazioni diseguali contribuirà a perpetuare l’ingiustizia e non a eradicarla”. Proprio perché le donne costituiscono una minoranza nell’ambito penitenziario i loro bisogni specifici sono spesso disattesi.
Tradizionalmente le carceri sono progettate e costruite da uomini per contenere uomini, quindi secondo un modello che mal si adatta alle necessità emotive, familiari, sociali e sanitarie femminili. In molti paesi le donne sono ospitate in sezioni sommariamente separate dalle sezioni maschili, per evitare situazioni di promiscuità ad esse è negato l’accesso alle strutture comuni per le attività sportive, lavorative e formative.
Spesso sono ristrette in carceri che si trovano molto lontano dalle loro famiglie e comunità di riferimento, rendendosi così difficili e onerosi i contatti con le loro famiglie. Le detenute sono spesso madri. La lontananza dai figli aggiunge sofferenza alla pena detentiva mentre i locali per le visite raramente offrono uno spazio adatto per ritrovare la vicinanza tra madre e figlio. In genere, la mancanza di affetti e i ritmi del carcere sono più difficili da accettare per le donne che per gli uomini e ciò si traduce in un numero maggiore di suicidi e di atti di autolesionismo. Uno degli aspetti su cui le Regole di Bangkok mettono più l’accento è l’incidenza dei casi di abuso sessuale e di violenza, anche familiare, delle detenute. Grande attenzione viene dedicata alla necessità di evitare il ripetersi di questo tipo di traumi, introducendo protocolli adeguati nelle relazioni tra le detenute e lo staff, soprattutto maschile, e cautele in materia di colloqui se la violenza può essere di carattere familiare. Le Regole di Bangkok dedicano molto spazio alle specifiche necessità delle donne in materia di salute ginecologica (PAP TEST, screening per il seno…), psicologica, psichiatrica, etc… e raccomandano la possibilità d’accesso a cure equivalenti a quelle disponibili all’esterno.
Le Regole di Bangkok sono il primo testo normativo internazionale che si occupa dei bambini che si trovano in carcere con le loro madri, estendendo ad essi il diritto ad una assistenza sanitaria adeguata. Ampio spazio è dedicato alle cure prenatali, all’allattamento al seno e alla difficile decisione sul se e fino a quando lasciare il bambino con la madre, nonché a come preparare la separazione nel modo meno traumatico possibile, sempre rispettando l ‘interesse superiore del minore. Sono molto interessanti le Regole 68, 69 e 70 che riguardano la promozione di lavori di ricerca sul numero di minori la cui madre è detenuta e sull’impatto che questa situazione ha su di essi, allo scopo di contribuire alla formulazione delle politiche e programmi che tengano conto dell’interesse superiore dei bambini e al fine di promuovere il reinserimento sociale delle donne autrici di reato e conseguentemente ridurre l’impatto negativo su di essi. Alcune disposizioni sono dedicate alle detenute straniere con particolare riferimento alle politiche di trasferimento dei detenuti nel loro paese di origine e di rimpatrio dei figli.
Nelle Regole di Bangkok troviamo anche un importante capitolo sul personale penitenziario il cui ruolo nell’assistenza delle donne detenute nel loro percorso di reinserimento è più volte sottolineato. La formazione professionale specifica diventa lo strumento principale affinché il personale, a tutti i livelli, possa mettere in atto le misure necessarie a soddisfare le esigenze specifiche di genere e a rimuovere le pratiche discriminatorie contro le donne. Importante la parte delle Regole dedicata alle sanzioni non detentive. Tutela delle detenute madri con i figli in carcere La legge 21 aprile 2011, n. 62 tutela il rapporto tra i minori e le madri che si trovano in stato di privazione della libertà personale. Secondo la legge le detenute madri (o i detenuti, in mancanza o nell’impossibilità delle madri) devono essere collocate negli istituti a custodia attenuata, ICAM (sul modello di quello che nacque a Milano nel 2007), che hanno caratteristiche strutturali diverse rispetto alle carceri tradizionali e ispirate a quelle di una casa di civile abitazione. In queste strutture è attuato un regime penitenziario di tipo familiare-comunitario incentrato sulla responsabilizzazione del ruolo genitoriale in modo da dare un’adeguata garanzia alla genitorialità e assicurare la crescita armoniosa e senza traumi dei minori.
Sono in procinto di aprire nuovi ICAM in Piemonte, Toscana, Lazio e Campania, mentre è già operativo, oltre a quello di Milano, l’ICAM del Veneto (Venezia-Giudecca, per 12 posti) ed è stato di recente inaugurato quello della Sardegna (Senorbì). La stessa legge per le donne incinte o con prole di età inferiore ai dieci anni, prevede che le pene detentive non superiori a quattro anni, anche se costituenti parte residua di maggior pena, siano espiate in regime di detenzione domiciliare presso la propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora o presso la nuova figura della casa-famiglia protetta. Queste strutture agevolano l’accesso alla misura cautelare degli arresti domiciliari e alla misura alternativa della detenzione domiciliare e in questo senso rappresentano uno snodo essenziale per l’attuazione delle finalità della predetta legge. Il Ministro della Giustizia, come previsto dall’art. 4 comma 1 della legge, sulla base di un’intesa con la Conferenza Stato-Città ed Autonomie Locali, con decreto 8 marzo 2013 ha individuato le caratteristiche tipologiche delle “case-famiglia protette”. Esse, tra l’altro, debbono essere collocate in località vicine ai servizi territoriali, devono consentire un modello di vita comunitario, devono avere spazi interni da poter utilizzare per i colloqui con operatori e familiari e per effettuare eventuali visite mediche, devono prevedere servizi igienici e camere riservate agli uomini. La legge ha previsto che lo stesso Ministro della giustizia possa stipulare con gli enti locali convenzioni volte ad individuare le strutture idonee ad essere utilizzate come case famiglia protette, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, ma mentre prevede una provvista finanziaria su specifici capitoli di bilancio per la realizzazione degli istituti a custodia attenuata ICAM, per quanto riguarda le case-famiglia protette non vi è alcuna previsione di investimento. Al fine di consentire l’attuazione della legge alcune Associazioni in varie Regioni del territorio nazionale si sono attivate per mettere a disposizione strutture aventi i requisiti previsti. Deve essere segnalato in modo particolare il Progetto Nazionale di Accoglienza delle Donne detenute con figli predisposto dalla Caritas italiana insieme ai Centri diocesani Migrantes e all’Ispettorato dei Cappellani delle carceri italiane che assicura una rete di strutture di accoglienza disponibili su tutto il territorio nazionale e cura con grande impegno un piano di intervento che, tenendo conto della posizione giuridica delle detenute madri, predispone percorsi personalizzati in grado di garantire il reinserimento nella società. La presenza di detenute madri con prole al seguito che negli ultimi anni è sempre oscillata tra le 60 e le 40 unità è considerevolmente diminuita e il 7 gennaio 2015 le detenute madri erano 26 e i minori 27.
Non sempre la genitorialità del detenuto è salvaguardata pienamente e ancora si è portati a ritenere, con troppa superficialità, che colui che si trova in carcere possa non essere in grado di occuparsi dei propri figli. Per tutelare i bambini e gli adolescenti che vivono la condizione di avere padre, madre o entrambi i genitori in carcere, il 21 marzo 2014 è stata sottoscritta dal Ministro della Giustizia, dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e dall’Associazione
Tra i punti fondamentali è sancito che di fronte all’arresto di uno o di entrambi i genitori, il mantenimento della relazione familiare costituisce un diritto del bambino, al quale va garantita la continuità di un legame affettivo fondante la sua stessa identità e un dovere/diritto del genitore di mantenere la responsabilità e continuità del proprio stato. La preservazione dei vincoli familiari svolge un ruolo importante per il genitore detenuto anche nella sua reintegrazione sociale e nella prevenzione della recidiva. L’impegno per l’Amministrazione penitenziaria è quello di creare un ambiente che accolga adeguatamente i bambini trovando il giusto equilibrio tra le esigenze di sicurezza e i necessari contatti familiari e grande rilevanza è data alla formazione del personale che sappia accogliere i bambini e i loro familiari.
INTRODUZIONE
La sospensione del processo e messa alla prova, ai sensi dell’art. 28 del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 “Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni”, rappresenta un’innovazione nel processo penale minorile in quanto, contrariamente alle ipotesi di probation applicate in altri Paesi, non presuppone la pronuncia di una sentenza di condanna.
Con il provvedimento di messa alla prova il processo è sospeso e il minore è affidato ai Servizi della Giustizia Minorile che, anche in collaborazione con i Servizi degli Enti locali, svolgono nei suoi confronti attività di osservazione, sostegno e controllo.
L’applicabilità della misura non è compromessa né dall’eventuale esistenza di precedenti penali né dalla tipologia di reato né da precedenti applicazioni; molto importanti sono, invece, le caratteristiche di personalità del ragazzo che inducono a ritenere possibile il suo recupero; in una personalità in crescita, quale è quella del minorenne, il singolo atto trasgressivo non può, infatti, essere considerato indicativo di una scelta di vita deviante.
I Servizi sociali elaborano il progetto di messa alla prova sulla base delle risorse personali, familiari e ambientali del ragazzo ed è fondamentale che il ragazzo accetti e condivida il contenuto del progetto.
In caso di esito positivo della prova il giudice con sentenza «dichiara estinto il reato»; l’esito negativo comporta invece la prosecuzione del procedimento (art.29 DPR 448/88).
Proprio per l’importanza e la specificità di questo provvedimento, l’allora Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile, oggi Dipartimento per la Giustizia Minorile, avviò nell’ottobre del 1991 un monitoraggio ad hoc sulla sua applicazione, attraverso schede nominative compilate per ciascun provvedimento emesso nei confronti dei minori in carico agli Uffici di servizio sociale per i minorenni; la rilevazione cartacea è stata effettuata fino a tutto l’anno 2011.
A partire dall’anno 2012 i dati sono acquisiti dal Sistema Informativo dei Servizi Minorili (SISM), che gestisce i dati di tutti i minori che costituiscono l’utenza dei Servizi minorili. I dati analizzati sono riferiti alla situazione dell’archivio alla data dell’elaborazione, ovvero a conclusione delle attività di convalida da parte dei Centri per la Giustizia Minorile.
A partire dall’anno 2016 i dati si riferiscono anche ai provvedimenti di messa alla prova relativi ai minori seguiti dall’ente locale.
L’analisi statistica di seguito presentata si articola in tre parti in cui sono considerati i dati rispettivamente dei provvedimenti, dei minori messi alla prova e degli esiti.
Roma, 9 marzo 2022
Fonte: Giustizia.it Ministero della Giustizia
L’analisi statistica di seguito presentata riguarda i minorenni e giovani adulti dell’area penale in carico ai Servizi della Giustizia Minorile ospitati nelle strutture residenziali (Centri di prima accoglienza (CPA), Istituti penali per i minorenni (IPM) e Comunità) e in area penale esterna, in carico agli Uffici di servizio sociale per i minorenni (USSM).
Il lavoro riguarda in particolare l’utenza straniera dei Servizi minorili ed è sviluppata sui dati dell’anno 2020; contiene inoltre un’analisi storica basata sui dati ottenuti dalle rilevazioni statistiche cartacee in uso fino all’anno 2009 e sui dati del Sistema Informativo dei Servizi Minorili (SISM) a partire dal 2010.
Le principali aree geografiche di provenienza dei minorenni e giovani adulti stranieri che costituiscono l’utenza dei Servizi della Giustizia Minorile continuano ad essere l’Est europeo e il Nord Africa. Tra le provenienze comunitarie prevalgono la Romania e la Croazia, mentre tra le altre nazionalità si distinguono l’Albania, maggiormente nell’area penale esterna, la Bosnia Erzegovina, la Serbia. Tra le provenienze africane, invece, prevalgono i minorenni e i giovani adulti del Marocco, dell’Egitto, della Tunisia e si osserva un aumento negli ultimi anni degli utenti provenienti dal Gambia e dal Senegal.
Dall’analisi dei dati si evince, inoltre, come alle nazionalità tipiche della criminalità minorile ormai da anni si siano affiancate altre provenienze, singolarmente poco rilevanti in termini numerici, ma che hanno contribuito a rendere multietnico e più complesso il quadro complessivo dell’utenza.
La presenza degli stranieri è maggiormente evidente nei Servizi residenziali; in particolare, dai dati dell’anno 2020 si osserva che sono dovuti a soggetti stranieri:
• il 23% dell’utenza degli USSM (4.348 su 19.019) soggetti complessivamente in carico nell’anno, compresi quelli già in carico da periodi precedenti).
• il 43% degli ingressi nei CPA (257 ingressi su un totale di 599);
• il 34% dei collocamenti nelle Comunità (506 collocamenti su un totale di 1.486) e il 30% della presenza media giornaliera nelle stesse (294 su 992 soggetti mediamente presenti ogni giorno dell’anno);
• il 50% degli ingressi negli IPM (358 su un totale di 713) ed il 45% della presenza media giornaliera negli stessi (144 su 320 minorenni e giovani adulti mediamente presenti ogni giorno dell’anno);
Roma, 9 aprile 2021
Fonte: Giustizia.it Ministero della Giustizia