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Valutazione del rischio di recidiva dei condannati per reati sessuali e di mafia

DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA UFFICIO DEL CAPO DEL DIPARTIMENTO

Ufficio Studi Ricerche Legislazione e Rapporti Internazionali

Si tratta di un programma di ricerca scientifico-criminologica proposto da un team di professionisti ed accademici (responsabile scientifico: prof. V. Caretti, Università LUMSA di Roma) articolata in due progetti da svolgere in diverse carceri del territorio nazionale, su un campione di detenuti per reati commessi con violenza sulle persone. Finalità: rispondere alle esigenze di valutazione del rischio in ambito giuridico e psichiatrico-forense e formare gli operatori con indicazioni operative per il trattamento penitenziario più efficace a prevenire la recidiva di questi gravi reati. valutare la validità predittiva di uno strumento diagnostico, l’HCR-20 V3, per i crimini sessuali e la possibilità di utilizzarlo nel contesto italiano. Metodologia: indagine documentale, sulla storia personale, interviste professionali, semistrutturate e di autovalutazione (HCR-20 V3, PCL-R adattamento italiano di Caretti et al., 2011 validato in Italia con la ricerca S.O.Cr.A.TE.S, PID-5), con la partecipazione di detenuti condannati per reati a sfondo sessuale, violenti, nonché su affiliati ad organizzazioni a stampo mafioso. Si presenta in questa sezione una sintesi dei DUE PROGETTI 1. La valutazione del rischio della pericolosità sociale e del rischio di recidiva in soggetti detenuti condannati per reati sessuali. Indagine su un campione di sex offenders e su un gruppo di controllo con reati contro la persona presenti nelle carceri di diverse regioni italiane. Seguirà una fase di follow up per verificare la capacità predittiva dell’ HCR-20 V3 e l’uso di tale strumento per valutare il rischio di crimini sessuali anche nel contesto italiano. Obiettivo: individuare i diversi fattori – storici, clinici attuariali e di personalità – che possono differenziare i sex offenders dagli altri autori violenti e restituire i risultati dando agli operatori penitenziari strumenti più adeguati ed efficaci per la valutazione del detenuto ai fini del trattamento. 2. La valutazione del rischio criminologico in soggetti afferenti a organizzazioni mafiose. Indagine sui detenuti per reati di mafia presenti in due carceri (Palermo e Trapani). Obiettivo: approfondire i tratti di personalità diversi dalla psicopatia e l’incidenza del trattamento penitenziario, al fine di individuare gli elementi di rischio criminologico maggiormente presenti nei soggetti appartenenti ad organizzazioni mafioseperfezionare il sistema di valutazione del rischio criminologico e migliorare i protocolli di trattamento rieducativo rivolti ai detenuti per reati di mafia.

Fonte Ministero della Giustizia – A. Paloscia, 2015

Malattie croniche per 7 detenuti su 10

A stare peggio sono le donne.

Ogni anno nei 190 istituti penitenziari italiani transitano circa 100mila detenuti.

Circa il 70% di loro ha una malattia cronica (o anche più di una), ma poco meno della metà ne è consapevole. I dati ufficiali del Ministero della Giustizia indicano che oltre il 50% dei soggetti ha meno di quarant’anni e che un detenuto su tre è straniero. E le carceri si confermano un concentrato di malattie infettive, psichiatriche, metaboliche, cardiovascolari e respiratorie.

Di questo tema si parla a Roma, giovedì 4 e venerdì 5 ottobre, al Congresso nazionale della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (SIMSPe onlus), organizzato insieme alla Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (SIMIT). Tra gli argomenti “caldi” la vaccinazione delle persone detenute, integrazione e tutela delle fragilità sanitarie e sociali in carcere, il dolore e la salute mentale in ambito penitenziario, eradicazione del virus dell’epatite C nelle sezioni detentive, esperienze di gestione dei detenuti migranti.

Epatite C, la più diffusa

«Tra le malattie infettive, il virus dell’epatite C (Hcv) è quello più rappresentato, soprattutto a causa del fenomeno della tossicodipendenza – spiega Sergio Babudieri, presidente del Congresso e direttore scientifico SIMSPe onlus -. Un terzo dei detenuti (34%) è detenuto per spaccio di stupefacenti, il che li rende più soggetti a malattie infettive. Dal 30% al 38% dei carcerati ha gli anticorpi del virus dell’epatite C, ma di questi solo il 70% ha il virus attivo. Dai 25 ai 30mila detenuti, quindi uno su tre, avrebbero bisogno di essere trattati con i nuovi farmaci altamente attivi contro il virus C dell’epatite».

Hiv e tubercolosi

Numeri migliori, ma non rassicuranti, per quanto riguarda l’Hiv: la patologia è in diminuzione, ma non riguarda più esclusivamente le categorie a rischio. Oggi si parla del 3/3,5% di sieropositivi nelle carceri, ma è difficile arrivare a nuove diagnosi. I malati di epatite B, invece, sono il 5-6% del totale. Oltre la metà dei detenuti stranieri è invece positivo ai test per la tubercolosi. «Quando parliamo di migranti dobbiamo ricordarci che si tratta di persone che, per più o meno ovvie ragioni, tendono a non curarsi e a non poter approfondire la propria questione sanitaria – dice Babudieri -.

In aumento per loro è soprattutto la tubercolosi, con la possibilità di far crescere la circolazione di ceppi multiresistenti ai farmaci. Un ulteriore problema è intrinseco alla malattia, per sua natura subdola e non facilmente diagnosticabile, perché il peggioramento è lento e graduale.

Ci vorrebbe una maggiore attenzione proprio a partire dai centri migranti, dove spesso ci sono controlli sanitari non adeguati».

La situazione delle donne

Le donne sono circa il 4% della popolazione carceraria. I reati più perseguiti da loro sono quelli contro il patrimonio, contro la persona e in materia di stupefacenti. Ma sono molto frequenti anche i reati di prostituzione.

Si contano poi una sessantina di bambini, da pochi mesi a 6 anni, figli di madri che hanno subito un arresto o una condanna. «Da recenti studi internazionali – spiega Babudieri – emerge che le donne detenute hanno una percentuale di malattie infettive superiore di alcuni punti percentuali rispetto agli uomini.

Una “elite in negativo” in cui si concentrano non solo malattie infettive, ma anche psichiatriche, cardio-respiratorie, metaboliche e degenerative. Eppure occorrerebbe un piccolo sforzo per garantire a loro, e agli eventuali minori, ottimi risultati. Ma, data l’età media della popolazione totale, si potrebbe raggiungere uno stato di salute nettamente superiore per tutti».

Programma di vaccinazione«I responsabili dell’assistenza sanitaria in carcere sono i sistemi sanitari regionali – aggiunge Babudieri – .

A loro spetterebbe il compito di creare un ponte tra i medici delle carceri e i medici dell’igiene e della prevenzione territoriale. Il responsabile di ogni struttura penitenziaria dovrebbe correlarsi con i responsabili della Sanità pubblica per la realizzazione di un programma di vaccinazione totale. In questo modo tutte le persone detenute saranno sotto controllo, garantendo non solo la loro sicurezza, ma anche quella di chi starà loro accanto, dentro e fuori le strutture penitenziarie. Non è mai stato fatto un registro nazionale per nessuna patologia, non c’è mai stato un coordinamento nazionale.

Da anni la nostra Società ha proposto di affidare all’Istituto Superiore di Sanità la gestione di un Osservatorio nazionale per la tutela della salute in carcere che coordini tutti gli osservatori regionali già costituiti, ma questa nostra richiesta è stata costantemente disattesa».

CONGRESSO A ROMA 2018

Fonte: Corriere della sera

Detenzione al femminile

DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA
UFFICIO DEL CAPO DEL DIPARTIMENTO
Ufficio Studi Ricerche Legislazione e Rapporti Internazionali

  1. La detenzione femminile
    Le donne detenute costituiscono una piccola percentuale della popolazione carceraria nazionale. Nelle nostre carceri oltre il 95% dei detenuti sono maschi e il numero delle donne è poco inferiore al 5%.
    Alla data del 29 dicembre 2014 su 53.732 detenuti, le detenute erano 2.314. Gli istituti penitenziari destinati in modo esclusivo alle donne sono cinque (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli, Venezia Giudecca) e per il resto le donne sono collocate in 52 reparti isolati all’interno di penitenziari maschili. Quindi le donne vivono prevalentemente una realtà che è pensata e realizzata nelle strutture e nelle regole per gli uomini mentre i loro bisogni specifici, in buona parte correlati ai bisogni dei loro figli, sono spesso disattesi. In molti casi esse sono ristrette in carceri che si trovano lontano dalle loro famiglie e comunità di riferimento con i quali i contatti sono difficili e onerosi.
    La detenzione di coloro che sono in attesa di giudizio è molto meno tutelata dal punto di vista del trattamento. Differenziare detenuti definitivi da quelli in attesa di giudizio è già difficile, differenziare ulteriormente all’interno di queste categorie tra uomini e donne è quasi impossibile, così le donne detenute definitive e non si trovano sempre assieme. Le donne mediamente hanno condanne più brevi di quelle degli uomini e hanno minori probabilità di avere qualcuno cui affidare la casa e la famiglia. Così anche una breve condanna per una donna arreca danni e conseguenze a lungo termine. Se le pene detentive brevi come punizione in generale non possono dirsi efficaci, esse lo sono ancora meno per le donne. Molto più efficace in alternativa al carcere, sarebbero misure di probation e di giustizia ripartiva, diffuse in altri Paesi. Concordare il modo migliore per riparare il danno e reintegrare le donne nella società vuol dire sostenere i loro figli, con risultati in termini di abbattimento di recidiva, e con l’ulteriore effetto di ridurre la possibilità che i figli diventino a loro volta delinquenti.
     
  2. Regole sovranazionali per le condizioni detentive delle donne
    Per quanto riguarda le condizioni generali di detenzione le regole minime per il trattamento dei detenuti delle Nazioni Unite affermano (regola 8) che “uomini e donne, per quanto possibile, devono essere ristretti in istituti separati, o in sezioni completamente separate dello stesso istituto”.
    Le Regole penitenziarie europee del 2006 (regola 18.8b) affermano che deve essere dato rilievo alla necessità di tenere separati uomini e donne. Il 21 dicembre 2010, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite[1] ha adottato un nuovo testo di disposizioni volte a colmare una lacuna negli standard internazionali riguardanti le esigenze specifiche delle donne in conflitto con la legge penale. Sono le Regole delle Nazioni Unite per il trattamento delle donne detenute e le misure non detentive per le donne autrici di reati, note come le “Regole di Bangkok” a riconoscimento del ruolo determinante svolto dal Regno di Thailandia nella loro elaborazione.
    Le Regole Minime per il trattamento dei detenuti [2]ed alle Regole Minime standard delle Nazioni Unite per le pene non detentive (Regole di Tokio) adottate quasi 60 anni fa e al momento soggette ad un processo di revisione non prestano particolare attenzione a come si possa ovviare alle pratiche discriminatorie che di fatto impediscono alle donne di beneficiare di tutte le disposizioni che possono rendere più accettabile il regime carcerario.
    Seppure sprovviste di efficacia vincolante, le 70 Regole di Bangkok fanno parte dell’ampia raccolta di principi e linee guida, standard e norme, sviluppate dalle Nazioni Unite nel corso di più di 50 anni. L’Ufficio Studi del DAP ha provveduto a tradurne il testo e a diffonderlo Esse sono divise in due sezioni, una contenente le disposizioni di applicazione generale e l’altra le regole dedicate a categorie speciali quali le madri, le straniere, le giovani . E’ interessante sottolineare che nella parte relativa alla valutazione del rischio le Regole considerano che generalmente le detenute presentano una pericolosità relativamente debole e che le misure di alta sicurezza su di loro hanno un effetto particolarmente negativo. La regola n. l fissa il principio di individualizzazione del trattamento (“bisogna tenere conto delle esigenze peculiari delle donne detenute per l’attuazione delle presenti regole. Le misure adottate per soddisfare tali necessità non devono essere considerate discriminatorie”). E’ necessario prendere in considerazione le esigenze diverse delle donne rispetto a quelle degli uomini: l’attenzione a queste esigenze non è discriminatoria “il concetto di eguaglianza significa ben più che trattare tutte le persone allo stesso modo. Il trattamento uguale di persone in situazioni diseguali contribuirà a perpetuare l’ingiustizia e non a eradicarla”.
    Proprio perché le donne costituiscono una minoranza nell’ambito penitenziario i loro bisogni specifici sono spesso disattesi.
    Tradizionalmente le carceri sono progettate e costruite da uomini per contenere uomini, quindi secondo un modello che mal si adatta alle necessità emotive, familiari, sociali e sanitarie femminili. In molti paesi le donne sono ospitate in sezioni sommariamente separate dalle sezioni maschili, per evitare situazioni di promiscuità ad esse è negato l’accesso alle strutture comuni per le attività sportive, lavorative e formative. Spesso sono ristrette in carceri che si trovano molto lontano dalle loro famiglie e comunità di riferimento, rendendosi così difficili e onerosi i contatti con le loro famiglie.
    Le detenute sono spesso madri. La lontananza dai figli aggiunge sofferenza alla pena detentiva mentre i locali per le visite raramente offrono uno spazio adatto per ritrovare la vicinanza tra madre e figlio. In genere, la mancanza di affetti e i ritmi del carcere sono più difficili da accettare per le donne che per gli uomini e ciò si traduce in un numero maggiore di suicidi e di atti di autolesionismo.
    Uno degli aspetti su cui le Regole di Bangkok mettono più l’accento è l’incidenza dei casi di abuso sessuale e di violenza, anche familiare, delle detenute. Grande attenzione viene dedicata alla necessità di evitare il ripetersi di questo tipo di traumi, introducendo protocolli adeguati nelle relazioni tra le detenute e lo staff, soprattutto maschile, e cautele in materia di colloqui se la violenza può essere di carattere familiare. Le Regole di Bangkok dedicano molto spazio alle specifiche necessità delle donne in materia di salute ginecologica (PAP TEST, screening per il seno…), psicologica, psichiatrica, etc… e raccomandano la possibilità d’accesso a cure equivalenti a quelle disponibili all’esterno. Le Regole di Bangkok sono il primo testo normativo internazionale che si occupa dei bambini che si trovano in carcere con le loro madri, estendendo ad essi il diritto ad una sanitaria adeguata. Ampio spazio è dedicato alle cure prenatali, all’allattamento al seno e alla difficile decisione sul se e fino a quando lasciare il bambino con la madre, nonché a come preparare la separazione nel modo meno traumatico possibile, sempre rispettando l ‘interesse superiore del minore.
    Alcune disposizioni sono dedicate alle detenute straniere con particolare riferimento alle politiche di trasferimento dei detenuti nel loro paese di origine e di rimpatrio dei figli. Nelle Regole di Bangkok troviamo anche un importante capitolo sul personale penitenziario il cui ruolo nell’assistenza delle donne detenute nel loro percorso di reinserimento è più volte sottolineato. La formazione professionale specifica diventa lo strumento principale affinché il personale, a tutti i livelli, possa mettere in atto le misure necessarie a soddisfare le esigenze specifiche di genere e a rimuovere le pratiche discriminatorie contro le donne. Importante la parte delle Regole dedicata alle sanzioni non detentive.
     
  3. Tutela delle detenute madri con i figli in carcere
    La legge 21 aprile 2011, n. 62 tutela il rapporto tra i minori e le madri che si trovano in stato di privazione della libertà personale.
    Secondo la legge le detenute madri (o i detenuti, in mancanza o nell’impossibilità delle madri) devono essere collocate negli istituti a custodia attenuata, ICAM (sul modello di quello che nacque a Milano nel 2007), che hanno caratteristiche strutturali diverse rispetto alle carceri tradizionali e ispirate a quelle di una casa di civile abitazione. In queste strutture è attuato un regime penitenziario di tipo familiare-comunitario incentrato sulla responsabilizzazione del ruolo genitoriale in modo da dare un’adeguata garanzia alla genitorialità e assicurare la crescita armoniosa e senza traumi dei minori. Sono in procinto di aprire nuovi ICAM in Piemonte, Toscana, Lazio e Campania, mentre sono già operativi, oltre a quello di Milano, gli ICAM del Veneto (Venezia-Giudecca, per 12 posti) e della Sardegna (Senorbì, inaugurato da poche settimane). La stessa legge per le donne incinte o con prole di età inferiore ai dieci anni, prevede che le pene detentive non superiori a quattro anni, anche se costituenti parte residua di maggior pena, siano espiate in regime di detenzione domiciliare presso la propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora o presso la nuova figura della casa-famiglia protetta. Queste strutture agevolano l’accesso alla misura cautelare degli arresti domiciliari e alla misura alternativa della detenzione domiciliare e in questo senso rappresentano uno snodo essenziale per l’attuazione delle finalità della predetta legge. Il Ministro della Giustizia, come previsto dall’art. 4 comma 1 della legge, sulla base di un’intesa con la Conferenza Stato-Città ed Autonomie Locali, con decreto 8 marzo 2013 ha individuato le caratteristiche tipologiche delle “case-famiglia protette”.
    Esse, tra l’altro, debbono essere collocate in località vicine ai servizi territoriali, devono consentire un modello di vita comunitario, devono avere spazi interni da poter utilizzare per i colloqui con operatori e familiari e per effettuare eventuali visite mediche, devono prevedere servizi igienici e camere riservate agli uomini.
    La legge ha previsto che lo stesso Ministro della giustizia possa stipulare con gli enti locali convenzioni volte ad individuare le strutture idonee ad essere utilizzate come case famiglia protette, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, ma mentre prevede una provvista finanziaria su specifici capitoli di bilancio per la realizzazione degli istituti a custodia attenuata ICAM, per quanto riguarda le case-famiglia protette non vi è alcuna previsione di investimento.Al fine di consentire l’attuazione della legge alcune Associazioni in varie Regioni del territorio nazionale si sono attivate per mettere a disposizione strutture aventi i requisiti previsti.
    Deve essere segnalato in modo particolare il Progetto Nazionale di Accoglienza delle Donne detenute con figli predisposto dalla Caritas italiana insieme ai Centri diocesani Migrantes e all’Ispettorato dei Cappellani delle carceri italiane che assicura una rete di strutture di accoglienza disponibili su tutto il territorio nazionale e cura con grande impegno un piano di intervento che, tenendo conto della posizione giuridica delle detenute madri, predispone percorsi personalizzati in grado di garantire il reinserimento nella società.
    Il Dipartimento sta fattivamente collaborando con la rete dei Cappellani diramando presso gli istituti penitenziari e gli uffici giudiziari gli elenchi delle strutture disponibili ad accogliere le detenute madri con prole al seguito. Sono stati altresì ripetutamente sensibilizzati i Provveditorati regionali ad intraprendere ogni utile iniziativa di impulso e confronto con gli enti locali. La presenza di detenute madri con prole al seguito che negli ultimi anni è sempre oscillata tra le 60 e le 40 unità è considerevolmente diminuita e il 7 gennaio 2015 le detenute madri erano 26 e i minori 27.
     
  4. Detenute madri con i figli fuori dal carcere Il legislatore tutela, come si è detto, i bambini fino a tre o dieci anni d’età che vivono in carcere con la madre. Ma in realtà sono ancora numerose le madri detenute che non vedono mai i loro figli o li vedono saltuariamente durante le ore di colloquio.
    La legge n°54 del 08/02/2006 “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli” ha introdotto il principio della bigenitorialità, inteso come diritto del minore a mantenere rapporti equilibrati con entrambi i genitori anche dopo la cessazione della loro convivenza. Il decreto legislativo del 28 dicembre 2013, n. 154 “Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219”, entrato in vigore lo scorso 7 febbraio, ha disposto una revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione e all’art. 55 ribadisce che il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori di ricevere cura educazione istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
    La convivenza cessa non soltanto in caso di separazione ma anche in caso di detenzione di uno dei due genitori e anche in questa situazione i figli mantengono il diritto alle relazioni con entrambi i genitori e non devono essere discriminati.
    Non sempre la genitorialità del detenuto è salvaguardata pienamente e ancora si è portati a ritenere, con troppa superficialità, che colui che si trova in carcere possa non essere in grado di occuparsi dei propri figli. L’Amministrazione penitenziaria ha dato disposizione affinchè i colloqui siano organizzati su sei giorni alla settimana prevedendo almeno due pomeriggi, per favorire i figli che vanno a scuola., con la possibilità di cumulare le visite nel mese, qualora non siano state usufruite.
    Il 21 marzo 2014 è stato sottoscritta dal Ministro della Giustizia, dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e dall’Associazione “Bambini senza sbarre” la Carta dei figli dei genitori detenuti, documento unico in Europa, che afferma i diritti fondamentali del minore il cui genitore sia recluso (oltre 100.000 in Italia). La Carta impegna il sistema penitenziario all’accoglienza dei minori e istituisce un Tavolo permanente per il monitoraggio sull’attuazione dei suoi principi.
    Sono molti gli interventi che volontari e associazioni già realizzano in molti istituti italiani: accompagnano i bambini ai colloqui in carcere, rendono più brevi le attese e sostengono i bambini durante le perquisizioni, rendono più gradevoli i locali adibiti al colloquio; danno sostegno al genitore che si rifiuta di condurre il figlio in carcere a visitare il padre o la madre; aiutano ai bambini a mantenere rapporti costanti con il genitore detenuto; danno modo agli stranieri di mettersi in contatto telefonico con la propria famiglia in modo che chi ha problemi di fuso orario possa comunque interloquire con i figli lontani.
     
  5. Attività trattamentali
  6. Vita quotidiana
    I detenuti surrogano la privazione del ruolo di sostegno alla propria famiglia lavorando e mandando soldi a casa. Per le detenute invece essere private di questo ruolo è una sofferenza più grande.
    C’è una sostanziale differenza di genere nel modo di vivere il carcere. Gli uomini hanno una maggiore capacità di adattarsi all’ambiente o di accettare la carcerazione come conseguenza di comportamenti devianti. Le donne subiscono con sofferenza il carcere e per esse il bisogno di aggregazione e socialità è molto più forte che per gli uomini e i loro rapporti interpersonali rispondono pi ù a logiche di espressione di affettività, che a quelle di comparazione della forza, sia essa forza fisica o forza del prestigio criminale.
    Generalmente le donne considerano i reati che le hanno portate in carcere come incidenti di percorso e non scelte di vita consapevoli. Hanno un senso di vergogna e la preoccupazione per il dopo, legata non soltanto alla possibilità di reinserimento lavorativo, ma anche a quella di essere accettate in società e di poter tornare a vivere un’esistenza normale (esse spesso hanno avuto una vita normale e non hanno solide carriere criminali alle spalle).
    Le celle e gli spazi individuali vengono curati dalle donne con attenzione particolare: le stanze sono ordinate e pulite, tenute meglio di quelle maschili ; le donne tendono a riprodurre nella loro stanza l’ambiente familiare e i gesti consuetudinari compresa l’attenzione al proprio corpo.
    E’ stato diffuso dal DAP uno schema di Regolamento interno predisposto per le sezioni femminili che tiene conto delle peculiarità dell’esecuzione penale riguardante il genere femminile al fine di elaborare accorgimenti organizzativi e offerte riabilitative idonei a cogliere e valorizzare la specificità della popolazione detenuta femminile. In esso trovano particolare attenzione la dimensione affettiva, le specifiche necessità sanitarie, il diverso rapporto con le esigenze della propria fisicità, la necessità di offrire pari opportunità di reinserimento sociale e sono accresciuti i momenti di compresenza con i detenuti maschi (scuola e formazione in genere, iniziative culturali, ricreative e sportive, partecipazioni alle commissioni di rappresentanza previste dall’Ordinamento penitenziario, ecc.).
    Nel Regolamento penitenziario della sezione femminile di Vercelli per esempio è previsto espressamente che la detenuta possa tenere con sé la fede, catenine, orecchini e oggetti di bigiotteria (di modico valore); creme depilatorie, deodoranti, creme, smalto, cosmetici, pinze per le ciglia, depilatore elettrico, extention, tinta per i capelli , crema lisciante per capelli crespi; lenti a contatto, ferri per lana con punta arrotondata, kit per cucito. All’atto dell’ingresso la detenuta riceve anche un kit per l’igiene personale tra cui assorbenti igienici. L’arredo della cella comprende uno specchio, infine sono disponibili una lavatrice e un servizio di parrucchiera.
     
  7. Tutela della salute delle donne detenute
    Le donne in carcere hanno esigenze di salute molto diverse rispetto agli uomini.La normativa di riordino della sanità penitenziaria prende in considerazione in modo specifico il tema della detenzione femminile. Il d.lgs. 230/1999 nell’art. 1, comma 2, lettere e) e f) stabilisce che il servizio sanitario nazionale assicura appropriate, efficaci ed essenziali prestazioni di prevenzione, diagnosi precoce e cura per le donne detenute e internate, l’assistenza sanitaria della gravidanza e della maternità, nonché l’assistenza pediatrica e i servizi di puericultura per i figli delle recluse.
    Le “Linee di indirizzo per gli interventi del Servizio Sanitario Nazionale a tutela della salute dei detenuti e degli internati negli istituti penitenziari e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale” allegate al D.P.C.M. 1.4.2008 dedicano attenzione alla detenzione femminile: l’allegato A contiene un apposito piano di interventi dedicato alla condizione detentiva femminile. Pur costituendo una netta minoranza rispetto alla popolazione maschile, alle detenute si riconoscono specifiche e particolari esigenze legate ad una situazione sanitaria preoccupante.
    Tra le azioni programmatiche, si ricordano in particolare:
    • il monitoraggio dei bisogni assistenziali delle recluse con particolare riguardo ai controlli di carattere ostetrico-ginecologico
    • gli interventi di prevenzione e di profilassi delle malattie a trasmissione sessuale e dei tumori dell’apparato genitale femminile
    • corsi di informazione sulla salute per le detenute e le minorenni sottoposte a provvedimento penale e di formazione per il personale dedicato, che forniscano anche utili indicazioni sui servizi offerti dalla Azienda sanitaria al momento della dismissione dal carcere o dalle comunità (consultori, punti nascita, ambulatori ecc.)
    • potenziamento delle attività di preparazione al parto svolte dai Consultori familiari
    • espletamento del parto in ospedale o in altra struttura diversa dal luogo di reclusione sostegno e accompagnamento al normale processo di sviluppo psico-fisico del neonato
    Problemi di salute mentale originano per le donne dal loro stato di detenzione e dallo stress per la necessità di essere lontane dai figli Una percentuale non trascurabile degli atti di autolesionismo è compiuta dalle donne.

Roma, 7 gennaio 2015

IL DIRETTORE DELL’UFFICIO
Roberta Palmisano

[1] Risoluzione 65/229, United Nations Rules for the Treatment of Women Prisoners and Non-cu stodia) Measures for Women Offenders (The Bangkok Rules)

[2] Adottate dal Primo Congresso delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Delitto ed i l Trattamento dei Delinquenti , svoltosi a Ginevra nel 1955, e approvate dal Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite con le risoluzioni 663C (XXIV)del 31 luglio 1957 e 2076 (LXIl) del 13 maggio 1977.

Fonte Ministero della Giustizia di R.Palmisano

Donne e carcere

DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA UFFICIO DEL CAPO DEL DIPARTIMENTO

Ufficio Studi Ricerche

Nelle nostre carceri oltre il 95% dei detenuti sono maschi e il numero delle donne è poco inferiore al 5%. Gli istituti penitenziari destinati in modo esclusivo alle donne sono cinque (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli, Venezia Giudecca) e per il resto le donne sono collocate in 52 reparti isolati all’interno di penitenziari maschili. Quindi le donne vivono prevalentemente una realtà che è pensata e realizzata nelle strutture e nelle regole per gli uomini mentre i loro bisogni specifici, in buona parte correlati ai bisogni dei loro figli, sono spesso disattesi. In molti casi esse sono ristrette in carceri che si trovano lontano dalle loro famiglie e comunità di riferimento con i quali i contatti sono difficili e onerosi La detenzione di coloro che sono in attesa di giudizio è molto meno tutelata dal punto di vista del trattamento.

Differenziare detenuti definitivi da quelli in attesa di giudizio è già difficile, differenziare ulteriormente all’interno di queste categorie tra uomini e donne è quasi impossibile, così le donne detenute definitive e non, si trovano sempre assieme. Le donne mediamente hanno condanne più brevi di quelle degli uomini e hanno minori probabilità di avere qualcuno cui affidare la casa e la famiglia.

Così anche una breve condanna per una donna arreca danni e conseguenze a lungo termine. Se le pene detentive brevi come punizione in generale non possono dirsi efficaci, esse lo sono ancora meno per le donne. Molto più efficace in alternativa al carcere, sarebbero misure di probation e di giustizia ripartiva, diffuse in altri Paesi. Concordare il modo migliore per riparare il danno e reintegrare le donne nella società vuol dire sostenere i loro figli, con risultati in termini di abbattimento di recidiva, e con l’ulteriore effetto di ridurre la possibilità che i figli diventino a loro volta delinquenti .

Regole sovranazionali per le condizioni detentive delle donne

Le Regole penitenziarie europee del 2006 (regola 18.8b) affermano che deve essere dato rilievo alla necessità di tenere separati uomini e donne. Le Regole Minime per il trattamento dei detenuti delle Nazioni Unite [1] adottate quasi 70 anni fa e al momento soggette ad un processo di revisione, affermano (regola 8) che “uomini e donne, per quanto possibile, devono essere ristretti in istituti separati, o in sezioni completamente separate dello stesso istituto”, ma non prestano particolare attenzione a come si possa ovviare alle pratiche discriminatorie che di fatto impediscono alle donne di beneficiare di tutte le disposizioni che possono rendere più accettabile il regime carcerario.

Il 21 dicembre 2010, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite[2] ha adottato un nuovo testo di disposizioni volte a colmare una lacuna negli standard internazionali riguardanti le esigenze specifiche delle donne in conflitto con la legge penale. Sono le Regole delle Nazioni Unite per il trattamento delle donne detenute e le misure non detentive per le donne autrici di reati, note come le “Regole di Bangkok” a riconoscimento del ruolo determinante svolto dal Regno di Tailandia nella loro elaborazione. Seppure sprovviste di efficacia vincolante, le 70 Regole di Bangkok fanno parte dell’ampia raccolta di principi e linee guida, standard e norme, sviluppate dalle Nazioni Unite nel corso di più di 50 anni. L’Ufficio Studi del DAP ha provveduto a tradurne il testo e a diffonderlo. Esse sono divise in due sezioni, una contenente le disposizioni di applicazione generale e l’altra le regole dedicate a categorie speciali quali le madri, le straniere, le giovani.

interessante sottolineare che nella parte relativa alla valutazione del rischio le Regole considerano che generalmente le detenute presentano una pericolosità relativamente debole e che le misure di alta sicurezza su di loro hanno un effetto particolarmente negativo.

La regola n. l fissa il principio di individualizzazione del trattamento (“bisogna tenere conto delle esigenze peculiari delle donne detenute per l’attuazione delle presenti regole. Le misure adottate per soddisfare tali necessità non devono essere considerate discriminatorie”). E’ necessario prendere in considerazione le esigenze diverse delle donne rispetto a quelle degli uomini: l’attenzione a queste esigenze non è discriminatoria “il concetto di eguaglianza significa ben più che trattare tutte le persone allo stesso modo. Il trattamento uguale di persone in situazioni diseguali contribuirà a perpetuare l’ingiustizia e non a eradicarla”. Proprio perché le donne costituiscono una minoranza nell’ambito penitenziario i loro bisogni specifici sono spesso disattesi.

Tradizionalmente le carceri sono progettate e costruite da uomini per contenere uomini, quindi secondo un modello che mal si adatta alle necessità emotive, familiari, sociali e sanitarie femminili. In molti paesi le donne sono ospitate in sezioni sommariamente separate dalle sezioni maschili, per evitare situazioni di promiscuità ad esse è negato l’accesso alle strutture comuni per le attività sportive, lavorative e formative.

Spesso sono ristrette in carceri che si trovano molto lontano dalle loro famiglie e comunità di riferimento, rendendosi così difficili e onerosi i contatti con le loro famiglie. Le detenute sono spesso madri. La lontananza dai figli aggiunge sofferenza alla pena detentiva mentre i locali per le visite raramente offrono uno spazio adatto per ritrovare la vicinanza tra madre e figlio. In genere, la mancanza di affetti e i ritmi del carcere sono più difficili da accettare per le donne che per gli uomini e ciò si traduce in un numero maggiore di suicidi e di atti di autolesionismo. Uno degli aspetti su cui le Regole di Bangkok mettono più l’accento è l’incidenza dei casi di abuso sessuale e di violenza, anche familiare, delle detenute. Grande attenzione viene dedicata alla necessità di evitare il ripetersi di questo tipo di traumi, introducendo protocolli adeguati nelle relazioni tra le detenute e lo staff, soprattutto maschile, e cautele in materia di colloqui se la violenza può essere di carattere familiare. Le Regole di Bangkok dedicano molto spazio alle specifiche necessità delle donne in materia di salute ginecologica (PAP TEST, screening per il seno…), psicologica, psichiatrica, etc… e raccomandano la possibilità d’accesso a cure equivalenti a quelle disponibili all’esterno.

Le Regole di Bangkok sono il primo testo normativo internazionale che si occupa dei bambini che si trovano in carcere con le loro madri, estendendo ad essi il diritto ad una assistenza sanitaria adeguata. Ampio spazio è dedicato alle cure prenatali, all’allattamento al seno e alla difficile decisione sul se e fino a quando lasciare il bambino con la madre, nonché a come preparare la separazione nel modo meno traumatico possibile, sempre rispettando l ‘interesse superiore del minore. Sono molto interessanti le Regole 68, 69 e 70 che riguardano la promozione di lavori di ricerca sul numero di minori la cui madre è detenuta e sull’impatto che questa situazione ha su di essi, allo scopo di contribuire alla formulazione delle politiche e programmi che tengano conto dell’interesse superiore dei bambini e al fine di promuovere il reinserimento sociale delle donne autrici di reato e conseguentemente ridurre l’impatto negativo su di essi. Alcune disposizioni sono dedicate alle detenute straniere con particolare riferimento alle politiche di trasferimento dei detenuti nel loro paese di origine e di rimpatrio dei figli.

Nelle Regole di Bangkok troviamo anche un importante capitolo sul personale penitenziario il cui ruolo nell’assistenza delle donne detenute nel loro percorso di reinserimento è più volte sottolineato. La formazione professionale specifica diventa lo strumento principale affinché il personale, a tutti i livelli, possa mettere in atto le misure necessarie a soddisfare le esigenze specifiche di genere e a rimuovere le pratiche discriminatorie contro le donne. Importante la parte delle Regole dedicata alle sanzioni non detentive. Tutela delle detenute madri con i figli in carcere La legge 21 aprile 2011, n. 62 tutela il rapporto tra i minori e le madri che si trovano in stato di privazione della libertà personale. Secondo la legge le detenute madri (o i detenuti, in mancanza o nell’impossibilità delle madri) devono essere collocate negli istituti a custodia attenuata, ICAM (sul modello di quello che nacque a Milano nel 2007), che hanno caratteristiche strutturali diverse rispetto alle carceri tradizionali e ispirate a quelle di una casa di civile abitazione. In queste strutture è attuato un regime penitenziario di tipo familiare-comunitario incentrato sulla responsabilizzazione del ruolo genitoriale in modo da dare un’adeguata garanzia alla genitorialità e assicurare la crescita armoniosa e senza traumi dei minori.

Sono in procinto di aprire nuovi ICAM in Piemonte, Toscana, Lazio e Campania, mentre è già operativo, oltre a quello di Milano, l’ICAM del Veneto (Venezia-Giudecca, per 12 posti) ed è stato di recente inaugurato quello della Sardegna (Senorbì). La stessa legge per le donne incinte o con prole di età inferiore ai dieci anni, prevede che le pene detentive non superiori a quattro anni, anche se costituenti parte residua di maggior pena, siano espiate in regime di detenzione domiciliare presso la propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora o presso la nuova figura della casa-famiglia protetta. Queste strutture agevolano l’accesso alla misura cautelare degli arresti domiciliari e alla misura alternativa della detenzione domiciliare e in questo senso rappresentano uno snodo essenziale per l’attuazione delle finalità della predetta legge. Il Ministro della Giustizia, come previsto dall’art. 4 comma 1 della legge, sulla base di un’intesa con la Conferenza Stato-Città ed Autonomie Locali, con decreto 8 marzo 2013 ha individuato le caratteristiche tipologiche delle “case-famiglia protette”. Esse, tra l’altro, debbono essere collocate in località vicine ai servizi territoriali, devono consentire un modello di vita comunitario, devono avere spazi interni da poter utilizzare per i colloqui con operatori e familiari e per effettuare eventuali visite mediche, devono prevedere servizi igienici e camere riservate agli uomini. La legge ha previsto che lo stesso Ministro della giustizia possa stipulare con gli enti locali convenzioni volte ad individuare le strutture idonee ad essere utilizzate come case famiglia protette, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, ma mentre prevede una provvista finanziaria su specifici capitoli di bilancio per la realizzazione degli istituti a custodia attenuata ICAM, per quanto riguarda le case-famiglia protette non vi è alcuna previsione di investimento. Al fine di consentire l’attuazione della legge alcune Associazioni in varie Regioni del territorio nazionale si sono attivate per mettere a disposizione strutture aventi i requisiti previsti. Deve essere segnalato in modo particolare il Progetto Nazionale di Accoglienza delle Donne detenute con figli predisposto dalla Caritas italiana insieme ai Centri diocesani Migrantes e all’Ispettorato dei Cappellani delle carceri italiane che assicura una rete di strutture di accoglienza disponibili su tutto il territorio nazionale e cura con grande impegno un piano di intervento che, tenendo conto della posizione giuridica delle detenute madri, predispone percorsi personalizzati in grado di garantire il reinserimento nella società. La presenza di detenute madri con prole al seguito che negli ultimi anni è sempre oscillata tra le 60 e le 40 unità è considerevolmente diminuita e il 7 gennaio 2015 le detenute madri erano 26 e i minori 27.

Detenute madri con i figli fuori dal carcere Il legislatore tutela, come si è detto, i bambini fino a tre o dieci anni d’età che vivono in carcere con la madre. Ma in realtà sono ancora numerose le madri detenute che non vedono mai i loro figli o li vedono saltuariamente durante le ore di colloquio. La legge n°54 del 08/02/2006 “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli” ha introdotto il principio della bigenitorialità, inteso come diritto del minore a mantenere rapporti equilibrati con entrambi i genitori anche dopo la cessazione della loro convivenza.

Il decreto legislativo del 28 dicembre 2013, n. 154 “Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219”, entrato in vigore lo scorso 7 febbraio, ha disposto una revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione e all’art. 55 ribadisce che il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori di ricevere cura educazione istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale. La convivenza cessa non soltanto in caso di separazione ma anche in caso di detenzione di uno dei due genitori e anche in questa situazione i figli mantengono il diritto alle relazioni con entrambi i genitori e non devono essere discriminati.

Non sempre la genitorialità del detenuto è salvaguardata pienamente e ancora si è portati a ritenere, con troppa superficialità, che colui che si trova in carcere possa non essere in grado di occuparsi dei propri figli. Per tutelare i bambini e gli adolescenti che vivono la condizione di avere padre, madre o entrambi i genitori in carcere, il 21 marzo 2014 è stata sottoscritta dal Ministro della Giustizia, dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e dall’Associazione

Bambinisenzasbarre la Carta dei figli dei genitori detenuti, documento unico in Europa, che afferma i diritti fondamentali del minore il cui genitore sia recluso (oltre 100.000 in Italia). La Carta impegna il sistema penitenziario all’accoglienza dei minori e istituisce un Tavolo permanente per il monitoraggio sull’attuazione dei suoi principi.

Tra i punti fondamentali è sancito che di fronte all’arresto di uno o di entrambi i genitori, il mantenimento della relazione familiare costituisce un diritto del bambino, al quale va garantita la continuità di un legame affettivo fondante la sua stessa identità e un dovere/diritto del genitore di mantenere la responsabilità e continuità del proprio stato. La preservazione dei vincoli familiari svolge un ruolo importante per il genitore detenuto anche nella sua reintegrazione sociale e nella prevenzione della recidiva. L’impegno per l’Amministrazione penitenziaria è quello di creare un ambiente che accolga adeguatamente i bambini trovando il giusto equilibrio tra le esigenze di sicurezza e i necessari contatti familiari e grande rilevanza è data alla formazione del personale che sappia accogliere i bambini e i loro familiari.

Nel recente passato si è dato corso alla sperimentazione dell’uso di una scheda unica per acquisti al sopravitto e telefonate. Recentemente sono state date disposizioni agli istituti penitenziari affinchè i colloqui siano organizzati su sei giorni alla settimana, prevedendo almeno due pomeriggi ed è stata data la possibilità di cumulare le visite nel mese, qualora non siano state usufruite, e questo per favorire i minori che vanno a scuola. Anche l’eliminazione del bancone divisorio nelle sale colloqui, la realizzazione di spazi verdi, un sistema di visite su prenotazione, l’introduzione della tessera telefonica e l’utilizzo di skype (anche se non realizzati in tutti gli istituti) vanno sicuramente nella giusta direzione. Sono molti gli interventi che volontari e associazioni già realizzano in molti istituti italiani: accompagnano i bambini ai colloqui in carcere, rendono più brevi le attese e sostengono i bambini durante le perquisizioni, rendono più gradevoli i locali adibiti al colloquio; danno sostegno al genitore che si rifiuta di condurre il figlio in carcere a visitare il padre o la madre; aiutano ai bambini a mantenere rapporti costanti con il genitore detenuto; danno modo agli stranieri di mettersi in contatto telefonico con la propria famiglia in modo che chi ha problemi di fuso orario possa comunque interloquire con i figli lontani.

Attività trattamentali Le donne hanno una minore possibilità di accesso alle attività trattamentali. E’ una discriminazione involontaria dovuta al loro numero limitato e all’impossibilitàdi condividere con gli uomini le strutture. Alle donne sono però affidate molte lavorazioni d’eccellenza, anche se queste opportunità sono ancora destinate soltanto ad una parte di loro. Nell‘istituto di Bollate le sezioni femminili sono coinvolte nel lavoro di imprese di scenografia, cucina e catering, esperti di controllo qualità, giardinieri e laboratorio di cosmetici.

Vi è pure una sartoria per la realizzazione anche di abiti d’epoca; nel laboratorio si lavora su ordinazioni ricevute presso il negozio a Castello “Banco IO”, dove lavora la coordinatrice del progetto). Nella Casa Circondariale della Giudecca a Venezia lavora una lavanderia e l’azienda agricola con un orto, che misura 6000 metri quadri ed è provvisto di grandi serre; al suo interno si coltiva un po’ di tutto, compresi numerosi ortaggi regionali: i radicchi di Treviso, Verona e Castelfranco, il broccolo padovano e quello di Creazzo, il carciofo violetto di Sant’Erasmo.

Nell’orto c’è spazio anche per un oliveto, un frutteto, la zona per il compost, il tunnel con i semenzai e una sezione denominata “aromantica”, dedicata alle officinali e ai peperoncini. La produzione è abbondante e i frutti e gli ortaggi raccolti vengono venduti al mercatino che si tiene fuori dal carcere ogni giovedì mattina (Fondamenta delle Convertite, Giudecca 712). Quelli in eccedenza finiscono in borse assortite di verdure vendute e distribuite dai gruppi di acquisto solidale della zona, mentre le erbe aromatiche e medicinali vengono usate dal laboratorio di cosmetica per la preparazione di prodotti di bellezza e di cortesia richiesti da alcuni alberghi della laguna.

L’officina Creativa degli istituti di Lecce e Trani che produce e distribuisce borse, accessori e capi di abbigliamento realizzati con materiale di riciclo (in vendita anche presso il negozio Eataly di New York) e ha un’importante scuola di cucina. A S. Vittore a Milano vi è una sartoria che lavora tra l’altro anche le toghe per avvocati e magistrati riuscendo a spezzare il meccanismo giudiziario. Sono attuati anche il progetto “parole in libertà nel quale le donne scrivono un libro e il progetto flamenco nel quale le detenute gitane raccontano la loro esperienza nonché il giornale “Oltre gli occhi”.

A Vercelli la sartoria “Codice a sbarre” produce camici per i medici dei reparti di pediatria, abiti da lavoro, divise scolastiche e capi di abbigliamento commercializzati in numerose boutique. Nella Casa circondariale di Monza vi sono la produzione di assemblaggio giocattoli e la revisione merce con un punto vendita di elettrodomestici che sono stati revisionati dalle detenute come funzionanti ed integri anche se hanno le confezioni deteriorate. A Pozzuoli la produzione di caffè “Lazzarelle” ottenuto da una pregiata miscela di chicchi provenienti da Brasile, Costa Rica, Colombia, Guatemala, India, Uganda. A Rebibbia l’azienda agricola e la produzione di borse realizzate in pvc riciclato (ogni borsa è un pezzo unico); vi è pure il laboratorio di sartoria “Ricuciamo” che recentemente ha cucito un abito per Miss Italia.

A Torino nella Casa Circondariale Lorusso e Cutugno le detenute inventano accessori femminili con i materiali che normalmente vengono buttati o dimenticati , li lavorano come se fossero rari e preziosi . Il marchio è “Fumne” (donne in torinese) ha prodotto di recente anche un profumo. A Bologna la sartoria “Gomito a gomito” confeziona generi di abbigliamento e accessori. Nella sezione femminile della Casa circondariale di Benevento vi sono il laboratorio di oreficeria e le ceramiche. A Latina cappelli, sciarpe, borse sono realizzati dalle detenute. Nel carcere vi è pure un teatro come in tanti altri istituti.

Vita quotidiana C’è una sostanziale differenza di genere nel modo di vivere il carcere. Gli uomini hanno una maggiore capacità di adattarsi all’ambiente o di accettare la carcerazione come conseguenza di comportamenti devianti. Le donne subiscono con sofferenza il carcere e per esse il bisogno di aggregazione e socialità è molto più forte che per gli uomini e i loro rapporti interpersonali rispondono più a logiche di espressione di affettività, che a quelle di comparazione della forza, sia essa forza fisica o forza del prestigio criminale. Generalmente le donne considerano i reati che le hanno portate in carcere come incidenti di percorso e non scelte di vita consapevoli. Hanno un senso di vergogna e la preoccupazione per il dopo, legata non soltanto alla possibilità di reinserimento lavorativo, ma anche a quella di essere accettate in società e di poter tornare a vivere un’esistenza normale (esse spesso hanno avuto una vita normale e non hanno solide carriere criminali alle spalle).

Le celle e gli spazi individuali vengono curati dalle donne con attenzione particolare: le stanze sono ordinate e pulite, tenute meglio di quelle maschili; le donne tendono a riprodurre nella loro stanza l’ambiente familiare e i gesti consuetudinari compresa l’attenzione al proprio corpo. E’ stato diffuso dal DAP uno schema di Regolamento interno predisposto per le sezioni femminili che tiene conto delle peculiarità dell’esecuzione penale riguardante il genere femminile al fine di elaborare accorgimenti organizzativi e offerte riabilitative idonei a cogliere e valorizzare la specificità della popolazione detenuta femminile. In esso trovano particolare attenzione la dimensione affettiva, le specifiche necessità sanitarie, il diverso rapporto con le esigenze della propria fisicità, la necessità di offrire pari opportunità di reinserimento sociale e sono accresciuti i momenti di compresenza con i detenuti maschi (scuola e formazione in genere, iniziative culturali, ricreative e sportive, partecipazioni alle commissioni di rappresentanza previste dall’Ordinamento penitenziario, ecc.).

Nel Regolamento penitenziario della sezione femminile di Vercelli per esempio è previsto espressamente che la detenuta possa tenere con sé la fede, catenine, orecchini e oggetti di bigiotteria (di modico valore); creme depilatorie, deodoranti, creme, smalto, cosmetici, pinze per le ciglia, depilatore elettrico, extention, tinta per i capelli, crema lisciante per capelli crespi; lenti a contatto, ferri per lana con punta arrotondata, kit per cucito. All’atto dell’ingresso la detenuta riceve anche un kit per l’igiene personale tra cui assorbenti igienici. L’arredo della cella comprende uno specchio, infine sono disponibili una lavatrice e un servizio di parrucchiera. Tutela della salute delle donne detenute Le donne in carcere hanno esigenze di salute molto diverse rispetto agli uomini . La normativa di riordino della sanità penitenziaria prende in considerazione in modo specifico il tema della detenzione femminile. Il d.lgs. 230/1999 nell’art. 1, comma 2, lettere e) e f) stabilisce che il servizio sanitario nazionale assicura appropriate, efficaci ed essenziali prestazioni di prevenzione, diagnosi precoce e cura per le donne detenute e internate, l’assistenza sanitaria della gravidanza e della maternità, nonché l’assistenza pediatrica e i servizi di puericultura per i figli delle recluse. Le “Linee di indirizzo per gli interventi del Servizio Sanitario Nazionale a tutela della salute dei detenuti e degli internati negli istituti penitenziari e dei minorenni sottoposti a provvedimento penale” allegate al D.P.C.M. 1.4.2008 dedicano attenzione alla detenzione femminile: l’allegato A contiene un apposito piano di interventi dedicato alla condizione detentiva femminile.

Pur costituendo una netta minoranza rispetto alla popolazione maschile, alle detenute si riconoscono specifiche e particolari esigenze legate ad una situazione sanitaria preoccupante. Tra le azioni programmatiche, si ricordano in particolare: • il monitoraggio dei bisogni assistenziali delle recluse con particolare riguardo ai controlli di carattere ostetrico-ginecologico • gli interventi di prevenzione e di profilassi delle malattie a trasmissione sessuale e dei tumori dell’apparato genitale femminile • corsi di informazione sulla salute per le detenute e le minorenni sottoposte a provvedimento penale e di formazione per il personale dedicato, che forniscano anche utili indicazioni sui servizi offerti dalla Azienda sanitaria al momento della dismissione dal carcere o dalle comunità (consultori, punti nascita, ambulatori ecc.) • potenziamento delle attività di preparazione al parto svolte dai Consultori familiari • espletamento del parto in ospedale o in altra struttura diversa dal luogo di reclusione • sostegno e accompagnamento al normale processo di sviluppo psico-fisico del neonato Problemi di salute mentale originano per le donne dal loro stato di detenzione e dallo stress per la necessità di essere lontane dai figli e una percentuale non trascurabile degli atti di autolesionismo è compiuta dalle donne.

I rappresentanti dell’Amministrazione che prendono parte al Tavolo di consultazione permanente per la sanità penitenziaria, hanno mandato di promuovere le azioni necessarie per perseguire gli obiettivi di salute previsti nel D.P.C.M.[3] La Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento autorizza negli istituti penitenziari del territorio nazionale lo svolgimento di iniziative di studio e di ricerca condotte soprattutto da Università, ma anche da Enti sanitari, quali l’Istituto Superiore di sanità, riguardanti le patologie presenti in ambito detentivo femminile. Roma, Luglio 2015 Il Direttore dell’Ufficio Roberta Palmisano [1] Adottate dal Primo Congresso delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Delitto ed i l Trattamento dei Delinquenti , svoltosi a Ginevra nel 1955, e approvate dal Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite con le risoluzioni 663C (XXIV)del 31 luglio 1957 e 2076 (LXIl) del 13 maggio 1977. [2] Risoluzione 65/229, United Nations Rules for the Treatment of Women Prisoners and Non-cu stodia) Measures for Women Offenders (the Bangkok Rules). [3]Obiettivi di salute e Livelli essenziali di assistenza In accordo con il Piano sanitario nazionale sono, di seguito, indicati i principali obiettivi di salute che devono essere perseguiti, tenuto conto della specificità della condizione di reclusione e di privazione della libertà, attraverso l’azione complementare e coordinata di tutti i soggetti e le istituzioni che, a vario titolo, concorrono alla tutela della salute della popolazione ristretta negli istituti di pena: • promozione della salute, anche all’interno dei programmi di medicina preventiva e di educazione sanitaria, mirata all’assunzione di responsabilità attiva nei confronti della propria salute • promozione della salubrità degli ambienti e di condizioni di vita salutari, pur in considerazione delle esigenze detentive e limitative della libertà • prevenzione primaria, secondaria e terziaria, con progetti specifici per patologie e target differenziati di popolazione, in rapporto all’età, al genere e alle caratteristiche socio culturali, con riferimento anche alla popolazione degli immigrati • promozione dello sviluppo psico-fisico dei soggetti minorenni sottoposti a provvedimento penale, • riduzione dei suicidi e dei tentativi di suicidio, attraverso l’individuazione dei fattori di rischio Fonte: Ministero della Giustizia di R.Palmisano

La sospensione del processo e messa alla prova nel caso di imputati minorenni

  • D.P.R.448/88 – Artt. 28-29
     
  • D.L.272/89 – Art. 27

  1. I provvedimenti di messa alla prova
    • L’analisi temporale
    • Le sedi processuali
    • Le tipologie di reato
    • Il progetto di messa alla prova
       
  2. I minori messi alla prova
     
  3. L’esito della prova
     
  4. La recidiva

INTRODUZIONE

La sospensione del processo e messa alla prova, ai sensi dell’art. 28 del D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 “Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni”, rappresenta un’innovazione nel processo penale minorile in quanto, contrariamente alle ipotesi di probation applicate in altri Paesi, non presuppone la pronuncia di una sentenza di condanna.

Con il provvedimento di messa alla prova il processo è sospeso e il minore è affidato ai Servizi della Giustizia Minorile che, anche in collaborazione con i Servizi degli Enti locali, svolgono nei suoi confronti attività di osservazione, sostegno e controllo.
L’applicabilità della misura non è compromessa né dall’eventuale esistenza di precedenti penali né dalla tipologia di reato né da precedenti applicazioni; molto importanti sono, invece, le caratteristiche di personalità del ragazzo che inducono a ritenere possibile il suo recupero; in una personalità in crescita, quale è quella del minorenne, il singolo atto trasgressivo non può, infatti, essere considerato indicativo di una scelta di vita deviante.

I Servizi sociali elaborano il progetto di messa alla prova sulla base delle risorse personali, familiari e ambientali del ragazzo ed è fondamentale che il ragazzo accetti e condivida il contenuto del progetto.

In caso di esito positivo della prova il giudice con sentenza «dichiara estinto il reato»; l’esito negativo comporta invece la prosecuzione del procedimento (art.29 DPR 448/88).

Proprio per l’importanza e la specificità di questo provvedimento, l’allora Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile, oggi Dipartimento per la Giustizia Minorile, avviò nell’ottobre del 1991 un monitoraggio ad hoc sulla sua applicazione, attraverso schede nominative compilate per ciascun provvedimento emesso nei confronti dei minori in carico agli Uffici di servizio sociale per i minorenni; la rilevazione cartacea è stata effettuata fino a tutto l’anno 2011.

A partire dall’anno 2012 i dati sono acquisiti dal Sistema Informativo dei Servizi Minorili (SISM), che gestisce i dati di tutti i minori che costituiscono l’utenza dei Servizi minorili. I dati analizzati sono riferiti alla situazione dell’archivio alla data dell’elaborazione, ovvero a conclusione delle attività di convalida da parte dei Centri per la Giustizia Minorile.

A partire dall’anno 2016 i dati si riferiscono anche ai provvedimenti di messa alla prova relativi ai minori seguiti dall’ente locale.

L’analisi statistica di seguito presentata si articola in tre parti in cui sono considerati i dati rispettivamente dei provvedimenti, dei minori messi alla prova e degli esiti.

Roma, 9 marzo 2022

Fonte: Giustizia.it Ministero della Giustizia

Minorenni e giovani adulti in carico ai Servizi della Giustizia Minorile

L’analisi statistica di seguito presentata riguarda i minorenni e giovani adulti dell’area penale in carico ai Servizi della Giustizia Minorile ospitati nelle strutture residenziali (Centri di prima accoglienza (CPA), Istituti penali per i minorenni (IPM) e Comunità) e in area penale esterna, in carico agli Uffici di servizio sociale per i minorenni (USSM).

Il lavoro riguarda in particolare l’utenza straniera dei Servizi minorili ed è sviluppata sui dati dell’anno 2020; contiene inoltre un’analisi storica basata sui dati ottenuti dalle rilevazioni statistiche cartacee in uso fino all’anno 2009 e sui dati del Sistema Informativo dei Servizi Minorili (SISM) a partire dal 2010.

Le principali aree geografiche di provenienza dei minorenni e giovani adulti stranieri che costituiscono l’utenza dei Servizi della Giustizia Minorile continuano ad essere l’Est europeo e il Nord Africa. Tra le provenienze comunitarie prevalgono la Romania e la Croazia, mentre tra le altre nazionalità si distinguono l’Albania, maggiormente nell’area penale esterna, la Bosnia Erzegovina, la Serbia. Tra le provenienze africane, invece, prevalgono i minorenni e i giovani adulti del Marocco, dell’Egitto, della Tunisia e si osserva un aumento negli ultimi anni degli utenti provenienti dal Gambia e dal Senegal.

Dall’analisi dei dati si evince, inoltre, come alle nazionalità tipiche della criminalità minorile ormai da anni si siano affiancate altre provenienze, singolarmente poco rilevanti in termini numerici, ma che hanno contribuito a rendere multietnico e più complesso il quadro complessivo dell’utenza.

La presenza degli stranieri è maggiormente evidente nei Servizi residenziali; in particolare, dai dati dell’anno 2020 si osserva che sono dovuti a soggetti stranieri:

• il 23% dell’utenza degli USSM (4.348 su 19.019) soggetti complessivamente in carico nell’anno, compresi quelli già in carico da periodi precedenti).

• il 43% degli ingressi nei CPA (257 ingressi su un totale di 599);

• il 34% dei collocamenti nelle Comunità (506 collocamenti su un totale di 1.486) e il 30% della presenza media giornaliera nelle stesse (294 su 992 soggetti mediamente presenti ogni giorno dell’anno);

• il 50% degli ingressi negli IPM (358 su un totale di 713) ed il 45% della presenza media giornaliera negli stessi (144 su 320 minorenni e giovani adulti mediamente presenti ogni giorno dell’anno);

Roma, 9 aprile 2021

Fonte: Giustizia.it Ministero della Giustizia