Segnali che ti trascini ferite emotive del passato

Essere lasciati, perdere una persona molto cara, subire un torto da chi proprio non ci aspettavamo…. sono ferite invisibili che lasciano brutte cicatrici all’anima. Gli effetti di questi ricordi possono presentarsi automaticamente per il resto della vita, anche se inconsciamente. Ogni esperienza vissuta sia positiva che negativa diventa un elemento chiave del nostro mondo interiore, di conseguenza regola le nostre reazioni agli eventi che ci capitano.PubblicitàA volte esperienze passate possono aver avuto un forte impatto su di noi a livello inconsapevole e i ricordi immagazzinati nel nostro cervello, possono saltare fuori all’improvviso, al di fuori del nostro controllo e influenzare così il nostro modo di interpretare la realtà. Molti dei sentimenti e delle azioni che minano la nostra stabilità emotiva sono sintomi derivanti da questo sistema di ricordi che costituisce l’inconscio.Le ferite che ci impediscono di avanzareQuante volte ti sarà capitato di decidere razionalmente domani mi metto a dieta e giunto a domani ti sei abbuffato? Quante volte hai promesso a te stesso di smettere di arrivare in ritardo ai tuoi appuntamenti quotidiani e invece ti ritrovi a correre come un matto per strada? Quante volte ha giurato a te stesso di essere meno accondiscendente e invece puntualmente stai pronto ad accontentare chi non merita nemmeno le tue attenzioni? Una cosa è certa: c’è qualcosa dentro di te che non ti fa sentire pienamente soddisfatto!pubblicitàNon ti senti mai abbastanza, la tua stessa vita non è abbastanza, i tuoi risultati sul lavoro non sono abbastanza e c’è sempre quella sensazione che dovresti lavorare di più, impegnarti più duramente perché è così difficile trovare la vera soddisfazione! Eppure metti cura, cerchi di fare del tuo meglio, ti impegni per essere accettato, accolto, ben voluto.pubblicitàQuesto accade perché le credenze hanno una componente emotiva inconscia. Tradotto vuol dire che la maggior parte dei tuoi comportamenti sono il riflesso diretto delle tue paure, delle percezioni e dei valori generati da esperienze passate. Le tue credenze più profonde, i traumi e i condizionamenti limitanti che si sono fissati nell’inconscio creano la tua quotidianità!Siamo ciò che pensiamo di noi… anche se tutto avviene inconsciamenteC’è chi vuole essere innamorato, ma qualcosa dentro di lui glielo impedisce. C’è chi vuole perdonare, ma qualcosa dentro di lui si oppone al perdono. C’è chi vuole avere successo, ma qualcosa dentro, nel suo mondo interiore, non glielo permette. Le nostre ombre ci dominano, sono i nostri condizionamenti inconsci!PubblicitàQuesti modelli li facciamo inevitabilmente nostri perché sono nel nostro primo campo di esperienza. Pensiamo ad esempio alle idee che abbiamo sulle relazioni sentimentali a fronte di ciò che osserviamo nei nostri genitori e l’idea che abbiamo dei modelli genitoriali che possono essere applicabili, tutto a fronte delle esperienze che abbiamo vissuto e in parte dovuto alla personalità che va a fondersi con essi.I meccanismi principali sono quello di somiglianza e differenzaIo assumo un atteggiamento nei confronti della vita a fronte di una somiglianza o del tentativo di somiglianza rispetto a un modello che ritengo efficace o per differenza. Quest’ultimo significa che mi differenzio rispetto a un modello che invece trovo disfunzionale, per esempio se ho sempre visto nella relazione con i miei genitori un padre padrone quindi un uomo impositivo sulla figura femminile e conscio della sofferenza che questo modello porta con se allora sceglierò, per differenza, di essere un partner molto più presente, attento e protettivo nei confronti delle esigenze e dei bisogni della persona che ho accanto.Cerco quindi di differenziarmi dal modello che ho osservato durante la mia vita. Allo stesso modo posso invece assumere per somiglianza l’atteggiamento forte che mia mamma ha sempre mostrato in casa.Basandoci esclusivamente sulla base di somiglianza e differenza corriamo il rischio di non fare ciò che davvero vogliamo perché lo abbiamo scelto ma appunto per somiglianza o differenza. Le scelte fatte quindi risultano troppo in relazione a quello che ho vissuto per somiglianza o differenza e quindi in relazione all’esperienza diventano disfunzionali. Per esempio quando un genitore decide di essere molto presente nei confronti del figlio perché ha vissuto un’esperienza di lontananza dal genitore. In tal caso diventa disfunzionale quando questo genitore diventa troppo presente.pubblicitàCosa possiamo fare?Per non cadere negli schemi appresi è necessario essere consapevole ed elaborare i meccanismi che utilizzi per rapportarti con il mondo, i meccanismi di somiglianza e differenza chiedendoti se li stai mettendo in atto per scelta o solo per opposizione e se sono funzionali al tuo presente. Per riuscire a fare questo è necessaria molta consapevolezza e necessariamente partire dal chiedersi quali sono gli scenari in cui mi sono composto per somiglianza e quali per differenza.Il potere dell’introspezionePer questa ragione, se vuoi avere pieno controllo delle tue azioni non devi lavorare sulla sfera cosciente, come erroneamente si pensa, ma agire nell’inconscio. E come si fa? Operando lì dove si trovano le tue ombre, il tuo passato cristallizzato. Devi osservare le tue emozioni, i tuoi fastidi, le lamentele, i giudizi, e portarli in superficie.Ciò che si trova nascosto nel tuo mondo interiore ha potere su di te ma solo fino a quando rimane occultato nel buio. Quando invece viene illuminato dall’osservazione e dalla consapevolezza, allora il suo potere inizia a scemare; non sarai più in balìa dei tuoi condizionamenti inconsci. La tua percezione della realtà avrà una nuova dimensione: i tuoi pensieri e il tuo mondo interiore saranno in armonia con ciò che desideri davveroAffinché questo accada, devi avere il coraggio di guardarti dentro con onestà, apprendere a sostare nello spazio scomodo delle scoperte delle tue antiche ferite, e accettarle. Da quest’accettazione nasce una forza nuova, la paura del giudizio altrui lascerà spazio a una verità, autenticità, che solo chi può permettersi di essere se stesso fino in fondo conosce.pubblicitàProva quindi a fare un esercizio, fai un elenco su un foglio delle tue scelte, dei tuoi ruoli e chiediti se ti sei composto per somiglianza o differenza e da chi. Pensa anche se la tua posizione attuale l’hai scelta, se l’hai scelta in funzione del passato o in relazione al presente e come potresti modificarla per riuscire a migliorarlaAssumiti la responsabilità del tuo spazio di azioneAnche se ti sembra che il tuo spazio d’azione sia ridotto, anche se ogni “avrei potuto fare di più” non ha molto senso visto che ogni cosa – alla fine – va come deve andare, noi dobbiamo fare il possibile per andare incontro alla vita vera, per liberarci da ciò che non fa più per noi, per fronteggiare con consapevolezza gli eventi che incontriamo, anche perché se non fossimo in grado di affrontare certi eventi, essi non ci accadrebbero nemmeno.Questo è, a mio avviso, il nostro spazio d’azione: l’impegno quotidiano a vivere pienamente con umiltà e dignità tutto ciò che non possiamo cambiare; l’impegno ad amarci, a rispettarci e ad essere noi stessi, rimanendovi fedeli.Non chiederti perché lui o lei ti ha lasciato, chiediti cosa ti piace tanto e hai smesso di fare… Non chiederti perché i tuoi non ti hanno amato, chiediti come puoi essere il miglior genitore di te stesso….e non chiederti perché capitano tutte a te, chiediti che cosa puoi fare in questo momento per rendere la tua vita il posto in cui vuoi stare.PubblicitàUna lettura preziosa che ti cambierà la vitaOrmai molti già lo conoscono, si tratta del mio libro bestseller: «Riscrivi le Pagine della Tua Vita». E’ il libro che io stessa avrei voluto leggere tantissimi anni fa, prima ancora di diventare uno psicologo. In ogni pagina, ti spiego come ridefinire la tua identità a partire dai tuoi vissuti del passato e dalle emozioni che provi oggi. Potrai finalmente concederti il lusso della politica dei piccoli passi, cioè riuscirai a migliorare la tua vita giorno per giorno, senza pretendere tutto e subito, in ogni capitolo, infatti, ci sono esercizi pratici e nozioni che possono aiutarti fin da subito a migliorare la qualità della tua vita a partire dalla relazione che hai con te stesso e con gli altri. Puoi ripartire ricostruendo quella fiducia perduta. C’è una persona che non dovrebbe deluderti mai: quella persona sei tu! Ricorda: anche tu meriti la tua fetta di felicità in questa vita, abbi il coraggio di allungare la mano per prenderla! È tua, ti spetta di diritto. Il mio libro puoi trovarlo in libreria e a questa pagina Amazon.A cura di Ana Maria Sepe, psicologo e fondatrice della rivista PsicoasvisorAutore del libro Bestseller “Riscrivi le pagine della tua vita” Edito RizzoliSe ti piace quello che scrivo, seguimi sul mio profilo Instagram: @anamaria.sepe.Se ti piacciono i nostri contenuti, seguici sull’account ufficiale IG: @PsicoadvisorPuoi leggere altri miei articoli cliccando su *questa pagina*PubblicitàSEGUICI SUI SOCIALFacebookTwitterInstagramPinterestYouTube ChannelRicerca per:Cerca …LIBRI CONSIGLIATI«Riscrivi le Pagine della Tua Vita» Leggi l’estratto gratuito su Amazon. Un libro che propone un viaggio introspettivo alla scoperta di sé e delle proprie potenzialità. Con esercizi psicologici e strumenti professionali utili a rivendicare il proprio valore di persona completa, ascoltare i propri bisogni e soprattutto farli rispettare.«Quaderno d’esercizi per trasformare la propria collera in energia positiva» Leggi l’estratto gratuito su Amazon. La rabbia ha una cattiva reputazione, è spesso associata a violenza e aggressività ma anche questa emozione può avere risvolti positivi. La rabbia può essere canalizzata per far rispettare i propri diritti e apportare cambiamenti intorno a noi.«Dire basta alla dipendenza affettiva. Imparare a credere in se stessi» Leggi l’estratto gratuito su Amazon. La dipendenza affettiva presenta una terribile limitazione, l’incapacità di essere davvero fe«lice, arginata solo da un rimedio: l’altro.«Ho mangiato abbastanza. Come ho perso 60 kg con la meditazione» Leggi l’estratto gratuito su Amazon. Un libro dedicato a coloro che non riescono a perdere peso, che falliscono qualsiasi dieta. Un libro per cambiare prospettiva e capire che per risolvere il problema dei chili di troppo bisogna cambiare radicalmente il punto di vista su di sé e sul mondo.

Ana Maria SepeDottoressa in psicologia, esperta e ricercatrice in psicoanalisi. Scrittrice e fondatore di Psicoadvisorsepeannamaria@gmail.com

Complesso di Erostrato: l’arte dell’apparenza

personalità dotata di scarsa autostima, che cerca di apparire diversamente.

Spesso più si vuole apparire, più si è insicuri. Proprio tale dinamica spiega il complesso di Erostrato, fenomeno sempre più diffuso, in cui il classico vanto nasconde in realtà una personalità dotata di scarsa autostima, che cerca di apparire diversamente.

Complesso di Erostrato: l'arte dell'apparenza

Siamo tutti testimoni del complesso di Erostrato. Lo vediamo in quelle persone che fanno dell’arte dell’apparenza il proprio stile di vita. C’è chi parla di “posare”, chi di esibizionismo sociale. Questi individui sono cacciatori di Mi piace sui social network, personalità che fanno dell’apparenza una sofisticata maschera dietro cui nascondere il proprio complesso di inferiorità.

Alcuni pensano che in questa nuova tappa della cultura tecnologica siamo diventati un po’ tutti più vanitosi. A molti di noi, perché no, piace mettere in mostra alcuni aspetti della nostra vita sulla bacheca di Facebook o sulle stories di Instagram. Non c’è niente di male a farlo di tanto in tanto, assolutamente no. Ma avere bisogno tutti giorni di ricevere Mi piace e quell’approvazione continua deriva sicuramente da realtà patologiche più gravi di quello che potrebbe sembrare.

Ebbene, il complesso di Erostrato non si limita al solo universo cibernetico. Possiamo riconoscerlo nella posa assunta da quella conoscente che monopolizza la comunicazione tra i membri di un gruppo, ma anche in quel collega “fantasma” che fa di tutto per apparire vincente e in tantissime persone (e personaggi) che caratterizzano il panorama sociale, invadendolo con il loro culto dell’Io.

Chi vive di apparenze non solo finisce per condurre un’esistenza vuota e infelice, al di là dell’aspetto aneddotico, c’è un dettaglio che non possiamo trascurare: l’erostratismo può indurre molte persone a mettere in atto condotte nocive e logoranti allo scopo di acquisire notorietà.

Se la fama arriva solo dopo la morte, non ho fretta di conseguirla.

-Marco Aurelio-

Raffigurazione del complesso di Erostrato.

Il complesso di Erostrato: l’uomo che distrusse una delle sette meraviglie per diventare famoso

Gli storici raccontano che la notte del 21 luglio del 365 a.C. avvenne un evento infausto che sarebbe passato alla storia. Il protagonista di questo atto fu Erostrato, un giovane pastore di Efeso. Sin da bambino egli aveva manifestato la convinzione ossessiva di essere stato scelto dagli dei per compiere un’impresa straordinaria che gli avrebbe dato  la fama.

Aspirava a diventare sacerdote di Artemide, ma non avendo un padre legittimo, gli era stata negata questa possibilità. Acciecato dalla sete di fama, ebbe un’idea, un piano che mise in atto la notte del 21 luglio. Si recò al tempio di Artemide, una delle sette meraviglie del mondo e, dopo aver baciato la statua della dea, vi diede fuoco.

A seguito di quel disastro, Artaserse, re di Persia, ordinò che venisse torturato per sapere cosa lo avesse spinto a commettere una tale offesa. Erostrato allora dichiarò le sue motivazioni: passare alla storia come l’uomo che aveva dato alle fiamme il bellissimo tempio di Artemide.

Dopo aver udito le sue parole, il monarca lo condanno all’ostracismo e vietò -pena la morte- che venisse registrato il suo nome e associato alla distruzione del tempio. Tale condanna, tuttavia, non servì a nulla.

Lo storico greco Teopompo recensì l’incendio e registrò il nome di Erostrato, tanto che oggi siamo a conoscenza di questi fatti. La psicologia, inoltre, scelse proprio questa figura per definire per le persone capaci di fare quasi qualunque cosa per emergere, per acquisire fama e popolarità.

Uomo serio.

Ricerca della popolarità, bassa autostima e atti criminali

Alfred Adler, noto terapeuta austriaco dei primi del XX secolo, condusse uno studio molto interessante, dando una spiegazione della possibile causa di un sentimento latente di inferiorità. Molti di questi profili adottano uno stesso schema che, in qualche modo, era già presente nello stesso Erostrato di Efeso.

Tendono a tracciare un piano di vita colmo di ideali che difficilmente riescono a realizzare. Oltre a ciò, manifestano uno sconfinato desiderio di spiccare, proiettando persino un atteggiamento sprezzante nei confronti di tutti coloro che li circondano. In molti casi, desiderare disperatamente di essere al centro dell’attenzione senza però riuscirci li porta a nutrire una crescente ostilità.

In alcuni casi ciò può essere molto pericoloso, poiché l’individuo può spingersi oltre e commettere un crimine. Lo stesso Erostrato ne commise uno il 21 luglio 265 a.C., bruciando il tempo di Artemide. David Chapman fece altrettanto l’8 dicembre del 1980, quando uccise John Lennon, e John Hinckley attentò alla vita di Ronald Reagan il 30 marzo 1981.

Donna vanitosa.

Il rifiuto interiore che induce alla violenza

Tutti questi personaggi hanno manifestato comportamenti chiaramente patologici nel tentativo di diventare famosi. Non hanno esitato, dunque, ad attentare alla vita di figure-simbolo e guadagnarsi così un posto nella storia. Di fatto, ci sono riusciti.

Non possiamo dunque banalizzare o assumere come aneddotici i comportamenti di chi vive solo per apparire, di chi ha il bisogno costante di essere al centro dell’attenzione e idealizzare così il suo Io, sminuendo gli altri.

Ogni forma di apparenza è il riflesso di una serie di carenze. Si tratta di personalità frustrate, che rifiutano se stesse e che cercano di aggrapparsi a un’immagine inventata, che fanno fatica a consolidare davanti a un pubblico.

Poiché non sempre ci riescono, optano per azioni estreme, come affondare professionalmente gli altri, mettere in giro pettegolezzi infondati e non avere scrupoli in quel sottile confine tra ciò che è etico e morale e ciò che non lo è.

Il complesso di Erostrato non solo limita le nostre possibilità di essere felici, ma molto spesso può indurre l’essere umano a mostrare il suo lato più oscuro. Teniamolo a mente.

fonte: lamenteemeravigliosa.it

Catfishing : ‘pesce gatto’ vittime ed effetti psicologici

Diverse ricerche hanno esplorato gli effetti psicologici sulle vittime di catfishing, soprattutto nell’ultimo anno in cui le relazioni digitali, per via del Covid, hanno preso il sopravvento.

cos’è il catfishing significato e conseguenze

Su Netflix c’è un reality, The Circle, che racconta bene cosa vuol dire sfruttare la propria identità digitale per piacere al prossimo. Questi ragazzi chiusi ognuno nella propria stanza e monitorati costantemente dalle telecamere possono inventarsi di sana pianta un’immagine di sé per conquistare gli altri del gruppo, oppure scegliere di essere semplicemente chi sono. Nel primo caso, voilà, siamo già nella prima fase di un catfishing ben congeniato.

Hai presente il catfishing, no? Questa parola è entrata nell’uso comune in Italia anche grazie al documentario con Nev Schulman del 2010 e a programmi cult come Catfish – false identità su MTV e identifica relazioni nate principalmente online in cui uno dei due partner finge di essere qualcun altro, non si mostra mai realmente per quello che è, in certi casi fa finta di essere donna anziché uomo (o viceversa). Complice la distanza fisica e la fiducia che le vittime di catfishing rimpongono in queste persone, bugiardi seriali di questo tipo vanno avanti finché si crea una vera e propria co-dipendenza. E sbam, il danno (per chi ne è vittima) è fatto.Related StoryCome smascherare un wokefish al primo appuntamentoNella mente del catfisher, perché si mente sulla propria identitàMa c’è di più. Nell’anno del Covid, nel quale le relazioni si sono giocate principalmente online con parecchie conseguenze sulla libido e sul benessere mentale, finire nella rete di chi mente sapendo di mentire, per tanti, è stato facilissimo. Con parecchie conseguenze sul cervello, sul modo in cui si vive l’amore e si dà fiducia al prossimo. Il significato del catfishing in psicologia, sulla base di diversi studi portati avanti recentemente, sta tutto in queste tre sfere. Nello studio pubblicato su Sexual and Relationship Therapy che si chiama “Adult attachment and online dating deception: a theory modernized” nel 2020, ad esempio si è cercato di capire chi sono le vittime perfette del catfishing. Attenzione: non è una questione di stupidità. Fidarsi di qualcuno, innamorarsene in certi casi, non lo è mai.

Si tratta di fiducia da un lato e di grande capacità manipolatoria dall’altra. L’identikit di chi cade nella rete di queste persone è quello di una donna (in media) che ha anxiety issues, ovvero problemi di ansia. E che tende ad appoggiarsi al partner per trovare sollievo.Related StoryUn anno di terapia mi ha salvata dall’ansiaIn una inchiesta di The Conversation, che ha intervistato dei catfisher seriali, si è invece cercato di capire perché queste persone sono spinte ad approfittare degli altri, mentendo su chi sono, spesso per soldi. Solitudine, tristezza, incapacità diffusa di gestire le relazioni sono le motivazioni di chi diventa catfisher. Non per giustificarli, ma a livello psicologico spesso la sfera mentale di chi viene ingannato e di chi inganna è simile, almeno nelle premesse.catfishing, cos’è e quali sono le conseguenze su relazioni e benessere mentaleFidarsi degli altri a volte è un gran casino.

Nello studio “Managing Impressions Online: Self-Presentation Processes in the Online Dating Environment” si è cercato di capire perché, a volte, mettiamo filtri sulla nostra personalità. Sì, la parola filtro non è casuale soprattutto se la applichi al mondo di Instagram e dei social di oggi, nei quali si possono cambiare i connotati con una facilità disarmante, creando un gap tra ciò che si mostra e come si è realmente. In questo caso, secondo gli esperti, i catfished sono persone (a volte, milioni e milioni) che credono di conoscere una persona in base a come si presenta. In generale però quando ci presentiamo sulle app di dating oppure parliamo con qualcuno conosciuto online, puntiamo a mettere al centro il nostro ideal self. Il modo in cui vorremmo essere, insomma. In certi casi, quella che è tendenza umana e comprensibile diventa patologia. E serialità.Le conseguenze del catfishingIn un approfondimento di Bustle, il neuropsicologo Dr. Sanam Hafeez ha detto che quando capiamo di essere stati manipolati la testa va in tilt per lo stress. Non solo: in quel momento il cervello impara a reagire a certe situazioni che somigliano a quella vissuta, anche se magari prenderanno tutta un’altra strada. Ed ecco che fidarsi degli altri diventa un’impresa.

Lovebombing, cos’è e come riconoscerlo

Gli studi sulle vittime di catfishing – che sono tante, molte di più di quelle che credi – persone che sono state manipolate da una persona a cui avevano dato tutto (dal cuore alla password del conto in banca) confermano che per guarire ci vuole un aiuto esterno, ad esempio un psicoterapeuta. E che è normale sentirsi stupidi, ma non è necessario che questa sensazione duri per sempre. Può evolvere, nel tempo, in qualcosa di positivo. E il cervello può essere allenato a non inserire ogni relazione nella casella “Alert: pericolo”. Conoscere e capire questo tipo di manipolatori è il primo passo per riuscirci.

Cosmopolitan di G. GALLO

I 6 tratti principali della personalità sociopatica rivelati da un esperto dei disturbi del comportamento

Come riconoscere un sociopatico? David J. Lieberman, ricercatore nel campo comportamentale e autore di un nuovo libro sull’argomento, ha spiegato quali sono le caratteristiche più comuni e come gestire il disturbo antisociale della personalità in una relazione

Riconoscere un individuo che soffre di sociopatia, termine che indica il disturbo antisociale di personalità, può essere molto più complicato che riconoscere uno psicopatico. Lo sostiene lo psicoterapeuta David J. Lieberman, ricercatore nel campo comportamentale e delle relazioni interpersonali e autore del libro Mindreader: The New Science of Deciphering What People Really Think, What They Really Want, and Who They Really Are, che affronta l’argomento in un articolo pubblicato su CNBC.

Secondo Lieberman, che non solo ha trascorso gran parte della sua carriera studiando i disturbi della personalità, ma ha anche addestrato il personale delle forze armate statunitensi, nell’FBI e nella CIA, i sociopatici possono distruggere la vita di una persona e sono molto più difficili da individuare rispetto a uno psicopatico. Perché, mentre quest’ultimo tende a essere più manipolatore e riduce al minimo il rischio nelle attività criminali, il sociopatico è in genere più irregolare e incline alla rabbia e, di conseguenza, più pericoloso.

Sono sei, in particolare, i tratti caratteriali più comuni che, a detta di Lieberman, definiscono un sociopatico.

difficoltà a calibrare la sua gestione delle impressioni che si danno.Come gestire il disturbo antisociale della personalità in una relazioneRiconoscere un soggetto con disturbo antisociale di personalità è complicato.

Gli indicatori di cui sopra possono essere utili, ma difficilmente sono definitivi. Se ci si trova in ​​una relazione con un sociopatico, Lieberman suggerisce alcuni comportamenti che possono rivelarsi utili per gestire in linea generale la situazione, ricordando tuttavia l’importanza di prendere le distanze. Non sempre possiamo cambiare il comportamento di qualcuno, ma è possibile trovare il modo per stabilire dei confini e farcela, poiché il nostro benessere emotivo è indissolubilmente legato alla qualità delle nostre relazioni. Ecco quindi i tre passi fondamentali da adottare se si vive una relazione con una persona affetta da disturbo antisociale della personalità:

1.Evita di essere in disaccordo con lui pubblicamente: il senso di umiliazione e qualsiasi parola o azione che possa farli vergognare incide molto in profondità e può innescare reazioni pericolose.

2.Non accusarlo direttamente di essere sociopatico: lavora lentamente per disimpegnarti dalla relazione.

3.Avere un sociopatico nella propria vita può essere molto impegnativo e alienante, una buona soluzione è vedere un terapeuta o unirsi a un gruppo di supporto. Avere qualcuno con cui parlare può essere molto utile.

fonte:vanityfair.it, A Politi

Bullismo e violenza di gruppo

Spesso aggrediscono per il gusto di far male, di umiliare, per rimarcare una superiorità. Sottrarre un oggetto non è tanto una rapina fine a sé stessa, ma un modo per punire, spogliando la vittima dei suoi beni.

Le ragazzine sono talvolta più violente dei coetanei maschi perché hanno un modo di attaccare sofisticato, usano l’arma psicologica, puntano a colpire il lato fragile». Andreana Pettrone è una psicologa specializzata in psicoterapia sistemica relazionale. Fa parte del pool di medici che partecipano al progetto Informa a Napoli: con un camper fanno la spola davanti a tre istituti tecnici di Napoli che abbracciano una vasta area urbana.

«È un errore pensare che la violenza sia solo nei ceti più disagiati, che si sviluppi in famiglie che vivono in condizioni di marginalità sociale. L’aggressività unita alla spavalderia la troviamo anche tra i ragazzi benestanti». Pettrone dice che il fenomeno più dilagante è quello delle gang rosa: «Sono gruppetti di adolescenti che iniziano con piccoli atti di bullismo e poi in un crescendo di violenza, organizzano veri e propri raid contro loro coetanee.

Di solito agiscono in branchi tutti al femminile. I pretesti sono i più disparati: da ritorsioni sentimentali, alla punizione per una presunta maldicenza o semplicemente il gusto di umiliare chi è isolata, chi non riconoscono come una loro pari».

Secondo la psicologa vale molto l’omologazione fisica: «Chi non condivide un look, un atteggiamento dominante, è esclusa e bullizzata». Le frasi che ricorrono spesso a spiegare gli attacchi violenti – «non risparmiano alla vittima calci, pugni, graffi, sputi» – sono: «Meritava solo di essere picchiata» e «se l’è andata a cercare». Ma se poi viene chiesto loro di dare una spiegazione ulteriore, «non sanno cosa dire, c’è un vuoto linguistico disarmante», spiega Pettrone.

A differenza dei coetanei maschi, le ragazze usano con compiacimento narcisistico i video che mettono sulle reti sociali. «Si compiacciono non solo di aver umiliato la vittima, ma anche di avere un riconoscimento pubblico, tramite i like, delle loro bravate. Cercano spesso una platea maschile come a dimostrare di essere più dure degli uomini. Il piacere maggiore lo traggono dal consenso dei coetanei maschi. Si scambiano tra loro nelle chat i commenti e li rilanciano alla ricerca di una approvazione più ampia possibile».

Le modalità di aggressione, dice la psicologa, sono ripetitive. «Circondano la vittima, che di solito ha l’apparenza debole. L’aggrediscono e la filmano. L’obiettivo è totalizzare più like possibili sui social. La loro speranza è che i video diventino virali». Talvolta si formano gang miste. «Le ragazzine vengono accettate perché fidanzate di uno del branco, c’è una sorta di iniziazione sessuale. Ma una volta entrate nel gruppo tendono in breve tempo a uscirne per creare una loro gang. Mentre tra i maschi la gerarchia è più marcata, tra le femmine è sfumata, sono quasi tutte sullo stesso piano, non ci sono leader.

Sono sfacciate, audaci e la maggior parte abituate alla violenza in famiglia, per loro l’aggressività è naturale. Quelle che vengono da famiglie benestanti, spesso emulano i video». E la reazione dei ragazzi? Pettrone commenta che «tendono a minimizzare gli atteggiamenti violenti delle coetanee, a sminuirne il valore perché si sentono in competizione e in un certo senso le temono. Talvolta sono divertiti dalla tipologia delle ragazze cattive e questo non fa che accrescere il loro compiacimento.

Si sentono al centro dell’attenzione maschile e la loro smania di protagonismo è soddisfatta.Fanno a gara sul social Tiktok per le bravate. Acquisiscono una parità distorta nella violenza. Imitano molto le eroine dei film che hanno tratti mascolini e ostentano forza e aggressività». Pettrone, raccogliendo le esperienze dei ragazzi, ha rilevato che ci sono videogiochi e film diventati modelli «cult» di violenza. Come il Gta, in cui vince chi ruba e violenta le donne.

È vietato ai minori ma dilaga proprio tra di loro. «Lo spaccio di droga, lo sfruttamento della prostituzione e l’incitamento alla violenza non dovrebbero costituire la principale trama di un videogioco per adolescenti. Eppure alcuni di questi videogiochi che si basano proprio su una serie di attività criminali finalizzate a conseguire i punti sono molto vendute tra i giovani», spiega la psicologa.

Più si spara, più si uccide e più si sale nella graduatoria. La classifica si scala facilmente se tra le vittime ci sono i poliziotti. In ragazzi già predisposti all’aggressività, film e giochi forniscono modelli, lanciano messaggi negativi che trovano terreno fertile tra le baby gang». Nel camper del progetto Informa arrivano anche i genitori. Pettrone sottolinea che tali fenomeni di violenza di gruppo sono radicati soprattutto lì dove le famiglie sono assenti: «I genitori non sanno più mettere un limite, stabilire regole.

Il che consente di scrollarsi di dosso le responsabilità. C’è la cultura dell’adolescente che deve essere libero. Così accade che difendono i figli anche di fronte ad atti gravi. Cercano di addossare la colpa all’esterno, agli insegnanti, agli amici».

Fonte: L.D.P. per “la Verità”

Disturbi dell’Umore

La depressione altro non è che uno stato in cui l’individuo vive in totale assenza di speranza, speranza per sé e per il futuro, segnato dall’ineluttabile amarezza della vita. Già, perché la sofferenza è vissuta come qualcosa di ineluttabile, inevitabile, quasi come una caratteristica intrinseca della vita. Questo stato si verifica quando anche l’ultimo baluardo di fiducia viene a mancare.

Con questa introduzione, oggi non voglio parlare di depressione maggiore, cioè di quell’etichetta clinica che è accompagnata da determinati criteri diagnostici. Oggi mi preme parlare di un tipo di depressione nascosta, silente, che accompagna molti di noi e che, purtroppo, non avendo alcuna definizione diagnostica, troppo spesso passa inosservata.

Il risultato? La persona si trascina senza vivere con pienezza la sua vita, senza mai conoscere fiducia e comprensione. In effetti se ci si soffermiamo a rifletterci, come potrebbero essere compresi nella loro sofferenza se nessuno ne parla? Se nessuno dà una spiegazione a quel dolore. Ecco che quelle persone finiranno per convincersi di essere loro inadatte alla vita. Niente di più sbagliato.Imparare a soffrire, un insegnamento difficile da dimenticare.

Alcune persone si muovono nella vita già sconfitte, come se avessero bisogno solo di sofferenza, abbandono e quanto di peggio possano provare. Questo accade perché, nella loro storia personale, non hanno mai conosciuto una reale spensieratezza. Sulle loro spalle, fin dall’infanzia, è sempre gravato un peso enorme: la responsabilità di una persona cara e/o la vergogna o la colpa per un torto subito di cui non hanno alcuna responsabilità. Queste persone non tentano neanche di conquistarsi la loro fetta di felicità perché ormai, è già andata! È stata perduta tanti anni prima e, come premesso, manca la speranza. Osservandole da lontano, non sembrano davvero depresse: si alzano, vanno a lavoro, sono efficienti, propongono soluzioni, si confrontano… Non scaricano la loro frustrazione sugli altri e all’apparenza sembrano forti o insensibili, tutto questo solo perché hanno imparato precocemente a mettere un tappo a certe manifestazioni.Il dolore ha un potere pazzesco. Quando una persona, anzi, un bambino, deve fare i conti con la sofferenza per lungo tempo, senza alcuna consapevolezza e supporto concreto, quel bambino finirà per normalizzare la sofferenza, finirà per renderla parte del suo presente, sempre. Stare male diventa una costante naturale della vita. Chi non ha conosciuto la leggerezza dell’infanzia, solo difficilmente da adulto potrà costruirsi il suo benessere: nessuno gli ha mostrato come si fa. La verità è che, da adulti, tendiamo a ricostruirci una realtà che in qualche modo possa restituirci le emozioni vissute durante l’infanzia.

Beh, se quelle emozioni appesantiscono il cuore e parlano di assenze, omissioni, promesse infrante e fiducia tradita, è chiaro che la speranza inizierà ad affievolirsi fino a sparire.Quella fiducia perdutaSul dizionario «Oxford Language», la speranza è definita come «l’attesa fiduciosa di un evento gradito o favorevole». Alcune persone non hanno mai ricevuto un feedback positivo dall’ambiente esterno. Sono cresciute costantemente frustrate, puntualmente tradite nelle speranze e nei bisogni. Non bisogna aver vissuto traumi eclatanti per sviluppare questa forma depressiva di sottofondo. Modelli genitoriali inadeguati possono arrecare, inconsapevolmente, molti danni allo sviluppo psicoaffettivo del bambino, fino a distruggere quella che in psicologia è definita fiducia epistemica primaria.Nelle relazioni primarie (cioè nei primi legami che stringiamo da bambini con le figure genitoriale) impariamo se possiamo fidarci o meno del prossimo, impariamo a valutare l’altro come una spalla sulla quale poter contare o come qualcuno da cui difendersi. In modo riduzionistico, se i nostri bisogni di accettazione, di vicinanza, di benevolenza e di supporto sono stati soddisfatti in modo opportuno, vedremo nell’altro una risorsa. Al contrario, perderemo ogni speranza, l’apprendimento implicito e precoce è un secco: «nessuno può aiutarmi, devo (e dovrò!) arrangiarmi sempre da solo!» Oppure: «sono un peso! Sono talmente inaccettabile che neanche chi dovrebbe amarmi di più al mondo vuole prendersi cura di me!».

In termini pratici, se un giorno un bambino è spaventato dall’abbaiare di un cane e, nel genitore, non trova un rifugio sicuro ma trova parole sprezzanti del tipo: «smettila di frignare come una femminuccia! È solo un cane!». Quello seguente, il bambino piange perché si è sbucciato il ginocchio e invece di trovare rassicurazioni il genitore parte con un «te l’ho detto che non dovevi correre! Sei stupido, tu non mi ascolti!». Poi ancora, se fa i capricci, parte subito un «Se continui la mamma si arrabbia»… Un modello genitoriale svilente, che invalida costantemente tutte le manifestazioni emotive del bambino, giorno dopo giorno, eliminerà ogni forma di speranza. Il bambino non imparerà che, se ha paura, può contare sull’altro, anzi, imparerà che l’altro può essere altrettanto spaventoso. Non capirà che, se si fa male, può guarire e rialzarsi, anzi, apprenderà che non può, anzi, non deve sbagliare mai! Imparerà che le emozioni non vanno espresse perché queste innescano reazioni avverse.

Alla base di quella malinconia di sottofondo.

Alla base di tutta quella malinconia di sottofondo che ci portiamo dentro, c’è la fiducia violata di un bambino spaventato che non voleva altro che essere rassicurato. I bambini sono esseri emotivi, non razionali, hanno bisogno di rassicurazioni, attenzioni, ascolto empatico e vicinanza affettiva, non hanno bisogno di giocattoli costosi contornati da prediche e offese!

Abbiamo detto che chi sperimenta questa malinconia di sottofondo, talvolta appare molto forte, quasi invincibile. Allora come fare per capire queste persone? Vediamo insieme alcune frasi che possono essere un indicatore di un vissuto difficile, di una sofferenza di sottofondo.

Frasi tipiche delle persone depresse che non sembrano depresse.

Vediamo quali sono le frasi tipiche delle persone senza speranza e ti darò anche qualche suggerimento per rispondere. Se quella persona che ha perso ogni briciolo di fiducia sei tu, sappi che puoi ripetertele da solo. È vero, ognuno di noi ha bisogno di comprensione dall’esterno ma spesso e volentieri, la vera vicinanza di cui abbiamo bisogno è la nostra! Dobbiamo imparare a entrare in contatto con noi stessi e ascoltarci davvero. La sofferenza che ci portiamo dentro ci sta raccontando una storia che riguarda il nostro passato, oggi tocca a noi scrivere il nostro

«Tutte le storie sono destinate a finire»

Come rispondere a una persona cara: «ma perché, tu le hai provate davvero tutto? Le conosci tutte?»Come rispondere a se stessi: «penso questo solo a causa delle mie esperienze drammatiche, questo mio pensiero è legato più a vissuti emotivi che non a un processi riflessivi. Da oggi, voglio riflettere di più su me stesso e su come mi stanno condizionando i miei vissuti del passato.»«Tanto, tutto è inutile»Come rispondere a una persona cara: «io credo che ce la farai, so che tutto ti sembra nero, ma le cose belle accadono».

Cosa dire a se stessi: «cosa ho provato per cambiare questa situazione? Ho provato davvero tutte le strade o sono prevenuto?

I risultati dipendono solo da me? Io non posso cambiare le condotte altrui ma posso prenderne le distanze, posso costruire la mia isola felice perché la merito».

«Non valgo nulla»Come rispondere a una persona cara: «Beh, io ti voglio bene così come sei»Cosa dire a se stessi: «sento di non valere nulla perché una parte di me mi induce a sentirmi così. Ma «sentirsi» in un certo modo non significa «essere». Le emozioni che provo alterno fortemente le mie percezioni, piuttosto dovrei chiedermi, cosa mi ha fatto sentire così?»

«Ormai» – «Oramai è troppo tardi»

Come rispondere a una persona cara: «Pensaci un po’, se tu iniziassi oggi un corso di cucina tra tre anni potresti anche essere uno chef stellato! Non è mai troppo tardi se si hanno progetti, è la fretta di realizzare che ti tarpa le ali»Cosa dire a se stessi: «Troppo tardi rispetto a cosa? Non sto facendo alcuna competizione! A volte dimentico che sono io il padrone della mia vita, quindi li scandisco io i miei tempi. Posso proseguire a piccoli passi, posso fare pause, perdere tempo, allontanarmi dai miei obiettivi e poi tornarci…! Posso rilassarmi e poi proseguire a piccoli passi.»

«Vorrei tornare quello di prima»Come rispondere a una persona cara: «Va bene, allora cosa possiamo fare oggi per ritornare allo splendore di un tempo? Possiamo farlo insieme!».

Cosa dire a se stessi: «Le mie emozioni mi proiettano al passato, concentrandomi sul presente posso addirittura essere migliore di prima. Ogni giorno voglio dedicare un po’ di tempo a me stesso, cimentandomi in attività che piacciono. Voglio nutrire la mia identità, voglio finalmente prendermi davvero cura di me!». Riscrivi le Pagine della Tua Vita.

Ormai molti già lo conoscono, si tratta del mio libro bestseller: «Riscrivi le Pagine della Tua Vita». Se non lo hai ancora fatto, ti consiglio di leggerlo, lo trovi su amazon e in tutte le librerie. In ogni pagina, ti spiego come ridefinire la tua identità a partire dai tuoi vissuti del passato e dalle emozioni che provi oggi. Potrai finalmente concederti il lusso della politica dei piccoli passi, cioè riuscirai a migliorare la tua vita giorno per giorno, senza pretendere tutto e subito, in ogni capitolo, infatti, ci sono esercizi pratici e nozioni che possono aiutarti fin da subito a migliorare la qualità della tua vita a partire dalla relazione che hai con te stesso e con gli altri. Puoi ripartire ricostruendo quella fiducia perduta. C’è una persona che non dovrebbe deluderti mai: quella persona sei tu! Ricorda: anche tu meriti la tua fetta di felicità in questa vita, abbi il coraggio di allungare la mano per prenderla! È tua, ti spetta di diritto.

A.De Simone, psicologo esperto in neuropsicobiologia

Fonte: Psicoadvisor

Comportamenti tipici dei genitori invadenti

Essere invadenti non ha nulla a che vedere con l’essere premurosi. Un genitore può essere premuroso senza essere invadente. Queste prime due frasi sono doverose perché spesso, i genitori, celano la loro invadenza dietro un eccesso di premura, quasi di preoccupazione spasmodica per il figlio. Diciamolo una volta per tutte: l’invadenza non ha nulla a che fare con la cura, con l’essere premurosi.

So che molti genitori storceranno il naso a leggere queste prime righe ma è così, l’invadenza non è una naturale evoluzione della preoccupazione ma è una chiara mancanza di rispetto, una chiara violazione dei confini psicorelazionali del figlio. Il genitore che vuole gestire la vita di suo figlio.

Più che alla volontà di proteggere il figlio, l’invadenza è meglio associata alla desiderio di voler gestire la vita del figlio. A questo può arrivare un genitore che tratta il figlio come un’estensione di sé, non riconoscendogli una sua identità personale.

Ciò succede quando il genitore proietta nel figlio parti di sé come pure tutte le sue ambizioni mancate, i suoi sogni infranti e le sue ferite. Così il figlio avrà il compito di riscattare la vita del genitore, di prendere in eredità, il carico emotivo del genitore. Lo scotto da pagare? Quel bambino non sarà mai in grado di sviluppare un’identità propria.

Questo andamento lo vediamo spesso in quei genitori che organizzano la vita del figlio, che già gli hanno programmato il percorso di studi, le amicizie da frequentare e le attività extrascolastiche, senza mai interessarsi davvero alle ambizioni del piccolo. Servendosi di sensi di colpa, ricatti emotivi e manipolazione affettiva, alcuni genitori sono capaci di inculcare la propria volontà nel figlio ancora piccolo. Iniziano sostituendo i desideri del bambino, con i propri.

Quel bambino, ben presto, si ritroverà a invalidare se stesso e a negare parti di sé per soddisfare il genitore. Ricordiamoci questo, un bambino vuole giocattoli, vuole dolciumi ma più di tutto vuole vedere nel genitore quel bagliore di fierezza, vuole sentirsi importante ai suoi occhi e, anche se non lo da a vedere apertamente, fa di tutto per riuscirci, anche se questo significa rinunciare a se stesso.

E da adulti?

Se prima, da bambini, era la gestione del tempo, i vestiti da indossare e le attività extra scolastiche, quando i figli sono adulti, quei genitori non smettono e continuano a esercitare la propria invadenza. Ecco che vogliono avere influenza su:

la scelta del partner

la carriera (studio e lavoro)

la stessa relazione genitore-figlio (livello di attaccamento e confini)

Un buon genitore, imperfetto come tutti gli esseri umani ma che riconosce al figlio una sua identità, può provare disappunto verso la scelta del partner esercitata dal figlio, tuttavia riesce ad accettarla. Può fargli presente determinati atteggiamenti del partner ma senza mai rimanere invischiato nelle dinamiche di coppia.

Insomma, riesce a gestire i confini perché, prima di tutto, accette e stima suo figlio.

Un genitore invadente, invece, se il figlio devia dal suo programma e gli presenta un partner non congeniale ai suoi piani, non solo palesa il suo disappunto ma glielo farà pesare. Lo farà a ogni litigio, anzi, non perderà nessuna occasione per sottolineare quanto l’abbia deluso con quella scelta. Già, perché fin da bambino, il genitore ha creato un vincolo. Ha vincolato l’erogazione dell’amore alla condotta del figlio. Un ricatto bruttissimo che i genitori invischianti operano spesso.

La sintesi è questa: se vuoi il mio amore, devi essere ciò che voglio io e negare chi sei veramente. È così che i genitori innescano nei figli, fin da piccoli, il seme dei conflitti interiori. Ancora peggio, gli insegnano l’amore condizionato, cioè un amore senza accettazione, senza stima… cioè un amore che in realtà, non è affatto amore dato che accettazione e stima sono alla base!

Il genitore invadente sfrutta impropriamente il suo potere

Quando un bambino viene al mondo è indifeso e bisognoso di cure. Il genitore si fa carico del figlio e, man mano che egli cresce, innesca un’insana dinamica di potere che suona così:

Io ti ho nutrito

Ti ho cresciuto

Io ti ho mantenuto economicamente

Ho investito le mie energie su di te

Ora tu mi appartieni, sei in debito!

Ovviamente, tale dinamica di potere sarà ben nascosta e mascherata da parole come “sacrificio”, “amore”, “preoccupazione” ma inevitabilmente emergerà mediante frasi quali: «per tutto quello che ho fatto per te», «me lo devi», «non puoi farmi questo», «tu puoi fare quello che vuoi ma poi non contare su di me» (che quindi, significa, puoi fare solo ciò che voglio io, perché il bambino ha solo i genitori su cui contare).

Questa dinamica, innesca una serie di ricatti morali nel figlio che si sentirà obbligato ad accondiscendere ai bisogni genitoriali, in lui emergeranno sensi di colpa, vergogna, sensazione di non essere abbastanza, rabbia repressa, ferita del rifiuto (…). In determinate situazioni, nel figlio emerge una rabbia più esplicita, accompagnata da condotte ribelli.Purtroppo la mentalità gerarchica e priva di amore che ho descritto nei 5 punti elencati in precedenza, è molto più comune di quanto si possa immaginare. Chi decide di mettere al mondo un figlio dovrebbe farlo mosso dal desiderio di donare amore incondizionato. Non è quel bambino che ha chiesto di venire al mondo. È dunque dovere del genitore supportare, nutrire e assicurare al figlio un’istruzione. Nel farlo, non guadagna alcun credito, non dovrebbe maturare alcuna pretesa! E questo non è affatto triste. Sapete perché? Perché un legame solido e ben nutrito, ripaga più di qualsiasi ricatto morale, ripaga più di qualsiasi pretesa.

Quando il genitore non riconosce al figlio il diritto di esistere

Un genitore invadente, non riconosce al figlio il diritto di esistere perché sistematicamente gli nega l’opportunità di pensare con la sua testa. Il figlio finisce per interiorizzare completamente il punto di vista genitoriale oppure per detestarlo. Un figlio che viene costantemente invalidato, in realtà, non ha la consapevolezza di ciò che sta subendo, si sente solo oppresso e non riuscendo a dare un significato a quei sentimenti di oppressione, potrebbe ripercuoterli su tutto (genitori, compagni di scuola…), oppure potrebbe annullare completamente se stesso.In entrambi i casi, un genitore invadente non si rende conto che con le sue pretese nascoste, con i suoi obblighi morali, finirà per: seminare il risentimento a lungo termine fomentare rabbia

creare un attaccamento disfunzionale e precario

negare al figlio autonomia e individuazione

creare un legame del tutto fasullo

Un genitore che riconosce al figlio il diritto di esistere in proprio, senza dipendenza e oppressione, gli consente di sviluppare idee, preferenze, bisogni propri e un pensiero personale che potrebbe anche essere divergente da quello genitoriale. Ci sta!Quando l’invadenza è solo legata alla preoccupazione

Vi sono forme di invadenza più innocenti che possono rimandare alla mera e fisiologica preoccupazione. Queste forme, sono più caratteristiche dei genitori ansiosi. In questo caso, l’invadenza si fa sentire quando il figlio passa molto tempo fuori casa. Il genitore sente il bisogno di rassicurarsi costantemente sullo stato di benessere del figlio e così può essere più pressante con telefonate e dettare regole di rientro più rigide .

Potrebbe capitare che il genitore diviene più presente nella vita del bambino prima e dell’adolescente dopo. In forme più complesse, il genitore potrebbe involontariamente non incoraggiare un’indipendenza adeguata allo sviluppo (la classica mamma chioccia).

Ma in questi casi, mancano tutte le componenti di repressione, obbligo, mancano i ricatti morali (…) e soprattutto, il figlio non è vissuto come uno strumento di realizzazione personale ma solo come un destinatario di amore e cure. Non solo, con la crescita del figlio anche il genitore inizia a sentirsi più sicuro così da superare insieme i timori e le incertezze legate al futuro .

Alla ricerca di uno scopo

Il genitore diviene invadente e bramoso di gestire la vita del figlio quando la sua stessa identità è coinvolta nella realizzazione del figlio. Il successo del figlio fa sentire i genitori migliori, realizzati, come se la loro vita (percepita come priva di senso) avesse finalmente uno scopo, una direzione chiara! Il figlio non è vissuto come una persona a sé ma un mezzo mediante il quale soddisfarsi. Fare il genitore è sicuramente difficile ma talvolta manca proprio l’ABC. In fondo, per essere un buon genitore, basterebbe riconoscere al bambino il suo diritto d’esistere come individuo a sé, degno di stima e di amore.

A.De Simone, psicologo esperto in neuropsicobiologia. Autore del bestseller «Riscrivi le pagine della tua vita» edito Rizzoli

Fonte: psicoadvisor.com

Le strutture d’interazione madre-bambino e le rappresentazioni presimboliche del sé e dell’oggetto

SOMMARIO

Gli autori prendono in esame i modelli d’interazione madre-bambino e la loro rilevanza per le origini presimboliche delle rappresentazioni del sé e dell’oggetto, prestando una particolare attenzione alla rappresentazione dell’interfaccia tra il sé e l’oggetto. Nella prospettiva dei sistemi diadici, secondo la quale il sistema é definito dai processi di autoregolazione e di regolazione interattiva, gli schemi alla base di questo sistema di regolazione danno origine a strutture d’interazione precoci, che costituiscono la base per le rappresentazioni del sé e dell’oggetto. Poiché i partner si influenzano reciprocamente momento per momento, ciò che viene rappresentato presimbolicamente è il processo interattivo e dinamico (l’interscambio). È questo un punto di vista dinamico e processuale delle rappresentazioni “interattive” e “diadiche”. L’idea che strutture d’interazione precoci organizzino l’esperienza si basa su un modello trasformazionale all’interno del quale hanno luogo continue trasformazioni e ristrutturazioni e che identifica sviluppo e riorganizzazione. Allo scopo di definire le abilità sulle quali si basa la capacità di rappresentazione presimbolica, viene proposta una panoramica delle ricerche effettuate negli ultimi dieci anni sulla memoria e la percezione infantile, i cui risultati hanno cambiato radicalmente il nostro concetto di rappresentazione. Attraverso le strutture d’interazione descritte si rileva l’importanza dell’arousal, dell’emozione, dello spazio e del tempo nell’organizzazione precoce dell’esperienza: 1) la trasformazione dello stato: l’aspettativa che l’arousal possa essere modificato attraverso l’influenza esercitata dal partner; 2) l’esperienza del faccia a faccia: l’aspettativa di corrispondenza positiva nello scambio affettivo; 3) la disgiunzione e la riparazione: l’aspettativa di una facile e rapida riparazione interattiva a seguito di un mancato rispecchiamento visivo- facciale; (4) la sequenza “avvicinamento-evitamento”: l’aspettativa di una mancata regolazione e di un disimpegno dell’orientamento spaziale, senza riparazione; (5) la regolazione interpersonale: l’aspettativa di una coincidenza del ritmo vocale.

SUMMARY MOTHER-INFANT INTERACTION STRUCTURES AND PRESYMBOLIC SELF-AND OBJECT REPRESENTATIONS

Using research on the purely social face-to-face exchange, we examine patterns of mother-infant interaction and their relevance for the presymbolic origins of self and object representations, focusing on representation of inter-relatedness between self and object. Based on a dyadic system view in which the system is defined by both self-and interactive-regulation processes, we argue that characteristic patterns of self and interactive regulation form early interaction structures, which provide an important basis for emerging self and object representations. What will be represented, presymbolically, is the dynamic interactive process itself, the interplay, as each partner influences the other from moment to moment. This is a dynamic, process view of “interactive” or “dyadic” representations. The argument that early interaction structures organize experience is based on a transformational model in which there are continuous transformations and restructurings, where development is in a constant state of active reorganization. To define the capacities on which a presymbolic representational capacity is based, we review the last decadès research on infant perception and memory, which has radically changed our concepts of representation. The interaction structures we describe illustrate the salience of arousal, affect, space and time in the early organization of experience: 1) state transforming, the expectation that an arousal state can be transformed through the contribution of the partner; 2) facial mirroring, the expectation of matching and being matched in the direction of affective change; 3) disruption and repair, the expectation of degree of ease and rapidity of interactive repair following facial-visual mismatches; 4) “chase and dodge”, the expectation of the misregulation and derailment of spatial-orientation patterns, without repair; 5) interpersonal timing, the expectation of degree of vocal rhythm matching.

Nel considerare le origini delle rappresentazioni del sé e dell’oggetto, ci basiamo sulla premessa che la madre (o il padre o il caretaker) e il bambino generano le modalità attraverso le quali fanno esperienza l’una dell’altro. Ci interessa comprendere come viene organizzata e rappresentata questa esperienza da parte del bambino. Non ci occuperemo del modo in cui viene rappresentata l’interazione da parte del genitore. Esamineremo la rilevanza degli schemi precoci di interazione propri del primo anno di vita, considerando le rappresentazioni del sé e dell’oggetto dal punto di vista della loro origine presimbolica. Facendo riferimento allo schema evolutivo di Piaget (1954), collochiamo alla fine del primo anno di vita l’emergere del pensiero simbolico, che si riorganizza profondamente nel periodo tra i sedici e i diciotto mesi e si consolida nel corso del terzo anno di vita. La simbolizzazione viene definita come la capacità di rievocare un oggetto fisicamente assente e di riferirsi ad esso secondo una modalità che non è determinata dalla sua configurazione reale, ma attraverso un simbolo convenzionale (linguistico) (Piaget, 1937; Werner e Kaplan, 1963). Affronteremo un aspetto particolare delle origini presimboliche delle rappresentazioni del sé e dell’oggetto, cioè la rappresentazione dell’interconnessione tra il sé e l’oggetto, limitando il discorso allo scambio faccia a faccia di natura squisitamente sociale. Non rientrano, invece, nei fini della nostra trattazione gli studi, per altro importanti, sulla regolazione degli stati di pianto, sull’alternarsi del ritmo sonno-veglia, sulla nutrizione e sugli stati di solitudine, anch’essi alle origini delle rappresentazioni del sé e dell’oggetto (per un’elaborazione di questi temi cfr. Sander, 1977, 1983, 1985). Ciò che sosteniamo è che le strutture precoci di interazione rappresentano un’importante base per l’emersione delle rappresentazioni del sé e dell’oggetto (cfr. Beebe e Stern, 1977; Stern, 1977, 1985, 1989;

Beebe, 1986; Beebe e Lachman, 1988a, 1988b). Le strutture d’interazione sono schemi caratteristici di reciproco influenzamento tra madre e bambino attraverso i quali si manifesta l’interazione. Esse includono sia il modo in cui il bambino regola il suo arousal (autoregolazione) sia la regolazione interattiva. Le strutture d’interazione sono organizzate attraverso le dimensioni del tempo, dello spazio, delle emozioni e dell’arousal, costituendo gli schemi ricorrenti che il bambino impara a riconoscere, prevedere e ricordare. Man mano che si ripetono diventano strutture generalizzate e cominciano ad organizzare l’esperienza del bambino. Poiché i partner si influenzano l’un l’altro momento per momento, ciò che viene rappresentato a livello presimbolico è il processo interattivo e dinamico, l’interfaccia. Definiamo queste rappresentazioni “diadiche” o “interattive”, poiché ciò che viene rappresentato è l’esperienza che il bambino ha della diade. Benché il sé e l’oggetto siano stati ampiamente concettualizzati in psicoanalisi, la diade non ha avuto la stessa sorte. I concetti del sé e dell’oggetto, come entità individuali, discrete e statiche, non riflettono la natura dinamica dell’interazione generata dalla diade (cfr. Modell, 1984, 1992). Abbiamo quindi bisogno di una teoria della diade come sistema all’interno del quale i rapporti tra sé e oggetto possano essere meglio concettualizzati. Molti filosofi concordano ampiamente nel descrivere le interazioni come diadicamente strutturate. Mead (1934), Lashley (1951), Habermas (1979), Bruner (1977) hanno offerto descrizioni in linea con la prospettiva dei sistemi di interazione diadici. Questi autori fanno riferimento ad un sistema di mutualità (un sistema di relazioni reciproche), di mutuo riconoscimento e di regole condivise (cfr. Tronick, 1980). Sander (1977, 1983, 1985) è stato uno dei più autorevoli sostenitori del modello dei sistemi diadici nella ricerca infantile. Egli suggerisce che l’organizzazione del comportamento nell’infanzia dovrebbe essere considerata una proprietà del sistema madre-bambino, piuttosto che una proprietà dell’individuo (cfr. Weiss, 1973). Se l’unità di organizzazione è la diade, e non l’individuo, e se gli individui sono le componenti del sistema, il sistema è definito sia da processi di autoregolazione, sia da processi di regolazione interattiva (cfr. Hofer, 1987). La prospettiva dei sistemi diadici si rifà ad un modello in cui l’informazione è ricevuta ed emessa simultaneamente da entrambi i partner (cfr. Beebe, Jaffe e Lachman, 1992). Nel 1970 ha avuto luogo un’importante svolta nel campo della ricerca infantile: fino allora la maggior parte della ricerca sullo sviluppo del bambino aveva preso in considerazione l’influenza del genitore sul bambino. La ricerca, preceduta da una critica di Bell (1968) e da un’attenzione crescente alle capacità del bambino, ha cominciato ad indirizzarsi verso un modello di mutua influenza (cfr. Lewis e Rosenblum, 1974), in cui entrambi i partner contribuiscono alla regolazione dello scambio, anche se non necessariamente allo stesso modo o nello stesso grado. Negli ultimi vent’anni il punto centrale della ricerca sull’interazione sociale infantile si è incentrato sul modo in cui valutare il sistema diadico e su come provarne statisticamente la bidirezionalità. Gli studi qui riportati utilizzano la prospettiva dei sistemi diadici di comunicazione e descrivono le prove sperimentali della presenza di regolazioni interattive bidirezionali. La tesi che strutture d’interazione precoci organizzino l’esperienza si basa sull’ipotesi che la continuità dello sviluppo si situi al livello degli schemi di relazione, cioè delle strutture d’interazione generalizzate (Zeanah et al., 1990). Riteniamo che la continuità non si basi su un modello lineare di sviluppo (cfr. Reese e Overtorn, 1970), ma su un modello trasformazionale all’interno del quale avvengono continue trasformazioni e ristrutturazioni. Come ha sostenuto Sameroff (Sameroff e Chandler, 1976; Sameroff, 1983), lo sviluppo è caratterizzato da uno stato di costante riorganizzazione attiva. Inoltre, non è possibile fare previsioni se si prende in considerazione solo il bambino o solo l’ambiente: per poter essere predittivi bisogna considerare le transazioni tra il bambino e l’ambiente e la regolarità delle loro ristrutturazioni (Sameroff e Chandler, 1976). A questo proposito riteniamo che, dopo il primo anno, avvengano molteplici trasformazioni e ristrutturazioni dei modelli di relazione…

(continua)

Traduzione dall’americano di Daniela De Robertis e Maria Luisa Tricoli.