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SPORTELLO CENTRO VITTIMOLOGICO

Il Cafisc centro di alta formazione investigativa sicurezza criminologia Associazione Cafisc EJ

Apre lo sportello del centro vittimologico.

Per accogliere donne in difficoltà e minori con il servizio di mediazione culturale per le lingue italiano spagnolo portoghese francese inglese.

Presso la Sede CISL FNP Centro raccolta Inas di Gioia Tauro in via G.D’Annunzio 5/7 Gioia Tauro RC e Sede Calabria Cafisc

Con la presenza di psicologo, avvocato, criminologo, antropologo.

E funzione di accompagnamento presso la questura di Gioia Tauro partner nell’attività. Presso Tribunali e strutture ospedaliere. Con supporto di mediazione e di tipo psicologico criminologico.

Il centro vittimologico andrà ad operare nel seguente modo:

A cura della Dr.ssa PhD Cav. Tallarita Al.

Sportello, per l’accoglienza di tutti i coloro i quali, abbiano necessità di rivolgersi a esperti professionisti, per la risoluzione di eventi traumatici, di tipo violento eo criminoso, privato o sociale; vuole rendersi utile, per la prevenzione, e per la valutazione, di ogni singolo caso, la cura così come la prevenzione, degli aspetti traumatici, fisici e psicologici derivati da eventi di violenza. Procurata verso soggetti terzi, quali primariamente donne, minori, anziani e tutte le persone, che abbiano subito azioni violente fisiche psicologighe o di prevaricazione, bullismo, violenza domestica, intimidazione, trauma.

I cui effetti fisici e pscicologici, richiedono specifiche cure mediche e un attenta analisi criminologica, con un supporto giuridico, ove necessario e richiesto, tramite avvocato.

Lo sportello, vuole essere il primo approdo per una valutazione iniziale, delle conseguenze che il soggetto riporta, a seguito di eventi traumatici.

Vengono svolti dei colloqui con la persona, di tipo clinico, al fine di decidere l’intervento necessario per il soggetto. In base alla sintomatologia riscontrata l’intervento sarà di tipo medico legale.

A supporto, affiancano il soggetto, oltre al criminologo, avvocato, psicologo, enti giudiziari preposti.

Saranno sempre e comunque, privilegiati e rispettati i termini individuali di scelta e di libero arbitrio. Sia per la cura da effettuare, che per eventuali procedimenti giuridici. È garantito l’anonimato per la privacy. E si terrà conto del contesto culturale di provenienza, con un approccio antropologico, del soggetto.

Quello che il centro si propone di fare, è di intraprendere un percorso di cura, fisica e psicologica, un supporto criminologico per prendere coscienza di quanto si sta vivendo o si è vissuto, anche di formazione e prevenzione di reiterazioni.

Per chi ha subito traumi o è sottoposto a qualsiasi forma di violenza.

Lo sportello fa servizio per la mediazione culturale alle donne migranti e minori.

Il centro è aperto nei giorni e orari indicati

martedi e giovedi ore 11,30 – 15,00

e anche su appuntamento.

Email info@cafisc.it

Presso la Sede CISL FNP Centro raccolta Inas di Gioia Tauro in via G.D’Annunzio 5/7 Gioia Tauro RC e Sede Calabria Cafisc

CRIMINI NEL WEB: I SEMINARI DEL CAFISC

In tre giornate di incontri, si sono svolti alla presenza di vari partecipanti,

i SEMINARI del CAFISC

sui CRIMINI NEL WEB.

In cui sono state trattate tre tematiche primarie IL CYBER BULLISMO, IL CYBER CRIME E IL REVENGE PORN.

I seminari si sono svolti seguendo una discussione aperta, che ha coinvolto la platea, seguendo un filo conduttore segnato da alcune presentazioni in power point, trasmesse durante gli incontri. In cui sono stati presentati gli argomenti primari affrontati. Le leggi che sono state emanate, per combattere e far fronte ai vari crimini, aprendo un’ampia discussione su quanto veniva presentato e sostenuto dalla dr.ssa Tallarita, presente in qualità sia di criminologa e antropologa, che di presidente del CAFISC.

Durante gli incontri, svoltosi in tre giornate il 29,30 e 31 maggio, si è dato spazio alle domande che venivano poste dai partecipanti, a cui Anna Luana Tallarita PhD Cav., ha fatto fronte dipanando la materia dei seminari, tra leggi, commenti, costatazioni e analisi sociologiche e antropologiche, su questi terribili fenomeni. Che camminano affianco allo svilupparsi delle tecnologie virtuali.

Sollecitando un dibattito collettivo, incentrato sulla costatazione della necessità, di fare più comunicazione, in particolare nelle scuole e ai ragazzi, su tutti i pericoli che l’uso indiscriminato di internet e in particolare dei social, può comportare. Senza un invito alla responsabilità, alla consapevolezza e alla cautela. Nel momento in cui ci si imbarca in una navigazione indiscriminata e ricca di enormi pericoli.

L’esito generale dell’esperienza seminariale è stata eccellente, fino alla conclusione dei lavori e della consegna degli Attestati di frequenza, ai partecipanti alle tre giornate. Mentre molti altri, sono stati gli uditori, nelle varie giornate.

Nuovi crimini nel web: il corso di formazione criminologica del Cafisc 

con la dr.ssa Al.Tallarita

La Dottoressa Cav. Anna Luana Tallarita, Presidente del Cafisc, promuove un “Corso di formazione gratuito” aperto agli studenti delle scuole superiori e universitari, alle forze dell’ordine, ai professionisti e agli avvocati.

Per affrontare le tematiche criminologiche in ambito web.Il corso tratterà alcuni importati argomenti inerenti:

il Cyber bullismo

le Truffe sul web

il Revenge porn

Il corso si svolgerà in tre sessioni seminariali dal 29 al 31 maggio 2023presso la Sala D’Annunzio, in via G. D’Annunzio n. 7 (Dietro Sala Fallara) Sala riunioni, presso la sede Fnp Cisl via g. D’annunzio 5/7 Gioia Tauro, RC

Le iscrizioni, per tutti coloro che vorranno parteciparesaranno accolte via email: info@cafisc.it

In cui inviare nome, cognome, contatti email e numero di telefono, professione. Le lezioni seminario si svolgeranno il pomeriggio dalle ore 17.00 alle ore 19.00.

Al termine del corso verrà rilasciato un Attestato di frequenza

(In base al numero dei partecipanti che si iscriveranno, si potrà scegliere di organizzare un secondo appuntamento, nei primi di giugno con le stesse modalità, dato che il corso si svolgerà, con un numero minimo di 8 fino a max 20 persone per volta)

www.cafisc.it – www.annaluanatallarita.com

Violenza di genere relazione del Dr.Salvi

Relazione del dott. Giovanni Salvi, Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, tenuta nell’ambito dell’Assemblea generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2021, relativo al fenomeno della violenza di genere.

RELAZIONE-PG-SALVI-2022-estratto-violenza-di-genere (1)

 

Fonte:ovd.unimi.it

Il vittimista e il suo imporre il senso di colpa

Tutti, talvolta, viviamo un po’ in modalità «mai una gioia», con l’impressione che nella nostra vita le cose vadano sempre per il verso sbagliato, tuttavia si tratta di stati passeggeri. Il più delle volte riusciamo a stare bene con noi stessi, assumerci le nostre responsabilità e a trarre il meglio dalle circostanze della vita. Non va affatto così per le persone che riversano costantemente le proprie responsabilità sugli altri. «La sola persona che non può essere aiutata è la persona che getta la colpa sugli altri» – Carl Rogers. Diciamocelo francamente, per alcune persone incolpare gli altri o il fato, è una modalità pervasiva utilizzata in più occasioni quotidiane per allontanare da sé le responsabilità e ottenere attenzioni.

Quali sono le caratteristiche di queste persone?
In psicologia si parla di deresponsabilizzazione, sindrome del deresponsabilizzato o vittimismo patologico. In questo articolo, metterò da parte la teoria per vedere, in termini pratici, quali sono le dinamiche più comuni e le frasi che fanno emergere questa triste tendenza. Alla base della deresponsabilizzazione c’è un forte senso di impotenza e un’indomabile attitudine a colpevolizzare l’altro per scaricare frustrazione e rabbia. Quali sono le caratteristiche del vittimista?

Crede fermamente che tutto ciò che accada sia colpa degli altri.
Tendono a interpretare qualsiasi evento (o tua azione) in termini negativi, senza mai tentare di assumere un’altra prospettiva.
Si appigliano a ogni dettaglio per accusare e condannare l’altro.
Si lamentano senza però tentare qualsiasi strategia risolutiva, senza provare a cambiare la situazione.
Sono indulgenti con se stessi e severi con gli altri. Per esempio, un proprio errore è frutto di circostanze sfavorevoli, un errore commesso da altri è frutto di incapacità o malafede.
Si sentono incompresi, nonostante la tua empatia.
I suoi problemi sono sempre più grandi di quelli degli altri (compresi i tuoi).
Analogamente, i suoi bisogni sono sempre più importanti di quelli degli altri (compresi i tuoi).
Hanno bisogno di molte attenzioni perché riferiscono livelli di sofferenza elevati.
Usano una comunicazione drammatica, affliggente.
Hanno sempre troppe cose da fare, sono costantemente sopraffatti.
Il vittimista miete molte vere vittime. Il motivo? Deve trovare il suo capro espiatorio, il soggetto che dovrà assumersi la responsabilità di tutte le sue insoddisfazioni. Solitamente capro designato è una persona affettivamente vicina come il partner o un amico malcapitato. Ci sono poi anche vittime collaterali, più occasionali. Qualsiasi persona che tenterà di correre in suo aiuto finirà per sentirsi attaccato e incolpato di non essere in grado di capire o aiutare. Questi soccorritori finiscono per sviluppare sentimenti di inadeguatezza e di colpa, possono sentirsi ferite e, a lungo andare, vedere la propria autostima declinarsi inesorabilmente. Qualsiasi cosa facciano per essere di supporto, è sempre e comunque sbagliata.

Frasi tipiche di chi riversa sempre la colpa sugli altri
Chi scarica sempre le proprie responsabilità sull’altro sente l’esigenza di giudicare l’altro per primo, per non essere giudicato. Vede il male negli altri per non dover fare i conti con il proprio, amplifica le mancanze altrui e minimizza le sue. Delegittima sentimenti e azioni altrui, mentre ciò che sente e fa lui/lei è sempre dovuto. Nel delegittimare l’altro, il vittimista si limita a mettere i suoi sentimenti su un piano di superiorità o fare l’offeso quando gli si fa notare una verità indiscutibile.

«Tu non puoi capire, non sai cosa sto passando!»
«Allora credi che io stia mentendo? È questo che pensi di me? Che sono un bugiardo?!»
«Mi aggredisci, calmati un po’» quando in realtà sono loro ad aggredire ed essere alterati.
I vittimisti creano confusione, sono capaci di rimangiarsi la parola mille volte e ritrattare pur di non ammettere un proprio errore. Nelle conversazioni con loro, ci vorrebbe un registratore costantemente sul replay perché nello stesso discorso, se messi alle strette, sono capaci di dire tutto e il contrario di tutto!

«Non era mia intenzione dire questo, mi hai frainteso!»
«Mi vuoi imporre la tua visione ma non è andata così»
«Ciò non contraddice ciò che ho detto, capisci bene!»
«È inutile discutere con te, distorci sempre tutto»
Sono capaci di calcare la mano per ottenere attenzioni e favori. Il loro calcare la mano si traduce nell’impiego di ricatti affettivi e quindi manipolazione psicologica. Frasi come:

«Io non faccio così quando tu…»
«Con tutto quello che faccio per te..»
«Il minimo che tu possa fare…»
«Va bene così, come sempre dovrò arrangiarmi da solo»
Il suo «va bene» non è come un semplice e autentico va bene, è ricco di rabbia, rancore, e sottende una velata minaccia: tu fai pure così, io me lo ricorderò e te la farò scontare. Non sanno chiedere scusa, anche quando sono palesemente in torto, le loro scuse somigliano più a giustificazioni atte a scaricare la colpa del loro comportamento sulle circostanze. Oppure, colpevolizzano te per esserti ferito!

«Questo periodo è molto difficile, sono molto stressato…»
«Per te non ne faccio mai una giusta! Hai sempre da ridire…» (e questo è paradossale!)
«Con tutte le preoccupazioni che ho, ovvio che l’ho dimenticato»
Cosa fare?
Che tu sia un vittimista o una sua vittima, hai bisogno di comprendere una cosa. Per quanto dura possa sembrare, sei tu l’unico artefice della tua felicità. Non puoi affidare agli altri il compiuto di accudirti, rassicurarti e risolverti la vita (facendosi carico dei tuoi conflitti interiori), ciò significa implicitamente che non puoi assumere il gravoso compito di salvare l’altro.

Se credi di essere vittima di un vittimista, hai bisogno di comprendere che si tratta di una persona che assume questo ruolo a prescindere da tuo operato. È importante che tu capisca questo passaggio per non cadere nella trappola dei sensi di colpa e dei ricatti affettivi. L’unica cosa che puoi fare è porre dei limiti invalicabili, lavorare su te stesso per comprendere cosa c’è alla base di questa tua tendenza all’eccessivo accudimento. Chi, da bambino, si è dovuto fare carico delle responsabilità genitoriali (inversione dei ruoli, il figlio che finisce per accudire un genitore fragile, una dura forma di adultizzazione infantile tipica dei bambini che maturano troppo in fretta, bruciando le tappe), può facilmente legare con persone così.

Spesso, nella storia del vittimista possono emergere vissuti di violenza fisica, abusi psicologici o ambienti familiari estremamente trascuranti. Il vittimismo diviene l’espressione di un apprendimento che recita a gran voce: nessuno potrà mai aiutarmi. Queste persone, infatti, non sono mai state aiutate veramente da qualcuno, non hanno mai conosciuto la genuina disponibilità genitoriale. Anche se la loro infanzia ha una facciata di felicità e provano nostalgia, nella realtà dei fatti sono cresciuti in un ambiente ambivalente e pericoloso.

Impara a esprimere i tuoi bisogni
Gli adulti di riferimento erano abusanti, ambigui e inaffidabili. Crescendo in questo ambiente, il vittimista ha sviluppato la convinzione che nessuno possa o voglia davvero aiutarlo e che tutti, in fondo, se ne freghino. Crescendo in un ambiente così, quel bambino non ha mai imparato a esprimere in modo diretto i suoi bisogni e quindi ha imparato a manifestarli in modo indiretto ed esasperato nel disperato tentativo di farsi ascoltare. In un certo senso, è ciò che fai anche oggi: nel tentativo disperato di farti notare e accudire, esasperi e abbracci ogni disavventura. Hai molta rabbia dentro di te, per ciò che ti è stato negato da bambino. Un percorso introspettivo di consentirà di risolvere il tuo passato.

Frasi tipiche di chi vuole riversare le colpe su di te
Fonte: A.De Simone , Psicologia Sociale

L’IDENTIKIT DEL VITTIMISTA PATOLOGICO

Nota anche come Sindrome di Calimero, quella del vittimista patologico è una modalità immatura di vivere la relazione e di affrontare la realtà, che si innesca quando il soggetto percepisce come non paritario il confronto con l’altro e quindi ricorre ad una “stampella” per reggere il confronto. Il vittimista patologico non si presenta mai come tale, bensì come vittima. Ma attenzione, esiste una differenza sostanziale tra una vittima e un vittimista: entrambi possono aver subìto disgrazie o ingiustizie più o meno gravi, ma il modo di reagire alle stesse è diametralmente opposto. La vittima può avere consapevolezza dell’ingiustizia che vive e la gestisce con se stessa, il vittimista non è interessato alla risoluzione del suo problema (laddove questo esista realmente) bensì alla sua strumentalizzazione. Questo gli consente di detenere una posizione di potere sull’altro, che alimenta infondendo sensi di colpa, strumentalizzando cose e/o persone che l’altro ha a cuore e toccando i suoi nervi scoperti e le sue parti deboli. E può tenerlo sotto scacco anche per tutta la vita. Il tutto senza applicare coercizione fisica, ma tessendo una invisibile tela che la vittima non percepisce immediatamente, ma solo quando sente di non potersene più liberare. Questa tipologia di autori di violenza può tranquillamente definirsi manipolatrice ed ha alcuni aspetti in comune col narcisista patologico.

QUAL É L’INTENTO DEL VITTIMISTA PATOLOGICO?

La messa in atto di comportamenti subdoli, finalizzati a non farsi scoprire e quindi a non rendersi attaccabili, ha il preciso intento di tenere in pugno le persone che manipolano (senza dargli la reale percezione che questo stia avvenendo) al fine di piegarle al proprio “progetto”. Diventano così tiranni relazionali perchè, facendo leva sul compatimento o sul senso di colpa dell’interlocutore, gli viene facile ottenere ciò che desiderano. Inoltre, il vittimista patologico vive ed alimenta condizioni di sofferenza fino a farle diventare il proprio habitat naturale, una barriera difensiva patologica senza la quale non sarebbe più in grado di andare avanti: generando senso di colpa e compatimento nell’altro e strumentalizzando problemi reali o fantasmagorici, attira verso di sè tutta l’attenzione. Non è un caso che, quasi sempre, la controparte sia una persona fortemente empatica. E non è un caso nemmeno il fatto che, nel momento in cui la vittima cerca di divincolarsi dai tentacoli di quella piovra, questa – nel terrore di vedere sgretolare quel malsano equilibrio sul quale ha costruito la sua intera esistenza – diventa aggressiva oltremodo e oltre ogni misura. Ed ecco il motivo per cui, in dinamiche di questo tipo, il primo nemico che la vittima deve combattere è se stessa, se non vuole consentire o prolungare la presenza di parassiti che si cibano della sua vita per sopravvivere. Come il parassitismo è una forma di simbiosi in cui il parassita trae vantaggio a danno dell’ospite, allo stesso modo la relazione tossica è una forma di simbiosi in cui l’autore di violenza psicologica trae vantaggio a spese di chi la subisce. Perché il parassita sopravvive là dove l’organismo che lo ospita è disposto a morire

Identikit del vittimista patologico: una bestia silente. Fonte:scirokko.it

Stress lavorativo e malattia professionale

come gestire le risorse umane

Ferdinando Pellegrino (U.O. Salute Mentale ASL Salerno 1, Costa D’Amalfi)

Patrizia Orsucci (Prato)

Da tempo lo stress lavorativo è, a vario titolo, al centro dell’attenzione di molti operatori sanitari. Ci si è accorti che là dove le risorse umane  non sono ben gestite, i danni, sia per gli operatori stessi che per gli utenti, sono talvolta ingenti e onerosi sotto l’aspetto emotivo per l’operatore e da un punto di vista economico per l’azienda di cui fa parte. Gestire al meglio le risorse professionali diventa quindi un impegno importante e necessario soprattutto in quelle attività professionali, quelle attinenti all’aiuto, dove il carico emotivo è considerevole. Lo stress che deriva da un’attività svolta  sotto pressioni varie ha tutt’altro che un effetto stimolante e motivante come si credeva fino a qualche tempo fa al fine di produrre sempre di più, ma ha un effetto dannoso perché lo stress che ne consegue è insidioso, riduce le performance e può paralizzare un’attività creativa per la massiccia quantità di aggressività che smobilita; alla lunga una situazione lavorativa pesante demotiva, esaspera e suscita difese sterili e ciniche degli operatori sia nei confronti degli utenti che dei colleghi.

Che il più forte la vince è ormai un’utopia perché spesso difese rigide sono motivo di involuzione e di crollo.

Accanto ad abilità tecniche, saper fare, sempre più specifiche e specialistiche, non possono mancare abilità psicologiche legate alla persona e al saper essere,  conoscersi e relazionarsi.

Quando lo stress lavorativo irrompe diventa causa di burnout e le sue conseguenze si ripercuotono  a più livelli con segni clinici che l’ormai ben noto test B.M.I. della Maslach consente di quantificare nelle sue componenti precipue di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e derealizzazione personale di coloro che lo vivono. Le persone che si trovano a sperimentare su se stesse gli effetti di un sovraccarico di stress  passano da una sensazione di inaridimento, di  esaurimento, di disaffezione al proprio lavoro caratterizzata da una risposta fredda ed impersonale nei confronti degli altri; sensazioni vissute come forti frustrazioni  che, la dove non sono riconosciute, trovano espressione anche con la comparsa di somatizzazioni e slatentizzazioni con veri e propri  scompensi soprattutto dove vi siano già patologie in atto. Burnout quindi come sintomo o come malattia e cosa fare per trattarlo e soprattutto prevenirlo? Certamente il malessere  sperimentato può essere un sintomo ma quando il suo perdurare nel tempo cronicizza situazioni e vissuti logoranti diventa una vera e propria malattia che compromette seriamente il benessere dell’individuo rendendolo vulnerabile sotto molti aspetti sia fisici che relazionali.

Ad un entusiasmo idealistico che si colloca, in genere, all’inizio della carriera lavorativa (Edelwich e Brodsky, 1980) e che di solito coincide con la tendenza a sottovalutare le difficoltà e a nutrire solo aspettative ottimistiche rispetto agli obiettivi del proprio intervento può far seguito una fase di stagnazione; se il divario fra competenze e richieste è sproporzionato e nell’impatto con la realtà l’operatore si accorge che i suoi bisogni non trovano la soddisfazione attesa ciò diventa motivo di frustrazione che può alimentare e ingenerare una situazione di logoramento sia fisico che psichico.

L’individuo che si viene a trovare imbrigliato in questa fase sperimenta delle modalità d’uscita dal disagio che, se non ben gestite, lo avviluppano sempre di più ad una fase di esaurimento per arginare il quale scivola in modalità svariate di fuga che innescano un pericoloso circolo vizioso che viene a ritorcersi contro. Nel tentativo di uscire dalla dissonanza emotiva percepita e di liberarsi dalla frustrazione, intesa come modalità intrapsichica di difesa, viene sperimentata una forte apatia che induce un condizionamento dell’attività cognitiva e che travolge la persona con percezioni, atteggiamenti e mete  severamente disfunzionali. Non si tratta di un semplice stato di tensione ma di una vera e propria modificazione cognitiva che condiziona l’assetto emotivo affettivo del soggetto verso la propria attività e che, una volta verificatosi, necessita di un intervento terapeutico che consenta l’instaurarsi o il ripristino di un’adeguatezza del pensiero e del comportamento che lo aiutino a “ridefinire” la situazione penosa sperimentata. A tal fine, parafrasando Grazia Attili (1993), bisogna lavorare per reinterpretare i modelli mentali di attaccamento che, operando al di fuori della consapevolezza ed essendo di difficile accesso alla coscienza,  richiedono un forte impegno per essere ristrutturati. 

Ma quanto dipende dall’organizzazione e quanto dalla struttura di personalità? A questo proposito emerge una stretta correlazione fra i fattori predisponenti dell’individuo, innati o appresi, che colludono con il sistema fino ad agire come fattori scatenanti: bassa autostima, passività, mancanza di assertività, scarsa identità professionale, perfezionismo, idealismo, valori personali incongrui con la reale situazione di vita sono punti di vulnerabilità. E’ anche su questi fattori che bisogna focalizzare l’attenzione per gestire in modo ottimale le risorse umane e professionali in un clima organizzativo disposto a favorire e facilitare un sano ambiente lavorativo.

Produrre un bene di consumo è diverso dal produrre un servizio. Un cliente è diverso da un paziente ma mentre in un caso c’è in gioco la fornitura di un prodotto, con la sua qualità di materiali e di manifattura, nel secondo caso c’è in gioco qualcosa di più importante come lo è la salute e, se l’efficacia dell’operatore è compromessa, il danno è di gran lunga superiore. Come un chirurgo non può operare bene con un bisturi non affilato (Balint), così un professionista che non sia in buona forma è esposto al rischio di non fornire un buon intervento terapeutico. Nelle professioni d’aiuto, lo stress si connette con la presenza di maggiori errori medici, sia di diagnosi che di terapia e con difficoltà nella relazione con il paziente, poiché l’empatia e la sensibilità ridotte condizionano il rapporto fino alla comparsa di modalità ciniche di relazione fino anche ad a situazioni limite di colpevolizzazione del paziente se non si hanno i risultati desiderati. Gli operatori  coinvolti in queste dinamiche, là dove perdurano oltre i sei mesi, sperimentano la comparsa di tensione, ansia e depressione e rischiano una cronicizzazione del disagio seguito talvolta da un allargamento della conflittualità anche nell’ambiente familiare con punte di escalation di aggressività che possono individuare uno spazio di espressione anche dentro la soglia di casa. Una ricerca della Makno in Italia, su 300 medici e 300 paramedici ha quantificato quanto sopra in percentuali verificabili.

Parlare e attuare la prevenzione è indispensabile; dovrebbe essere un imperativo morale di ogni organizzazione ma spesso la promozione di benessere non è sufficiente soprattutto dove la gestione delle risorse umane viene identificata e confusa con l’amministrazione del personale che è invece ben altra cosa. Prevenire il burnout significa occuparsi della gestione libidico-emotiva degli operatori, dei fattori personali, di quelli ambientali, familiari e sociali; dove non c’è un clima armonico, uno spazio d’appartenenza  e dove la gestione delle conflittualità è lasciata al caso o rimossa, anziché impiegata nell’ottica di un confronto costruttivo, senza falsi ottimismi, è difficile evitare situazioni dannose.

L’obiettivo prioritario di ogni Azienda, compresa l’Azienda Sanità, ha da tener conto di una gestione del personale che abbia in considerazione l’evitare i danni da mal funzionamento in una prospettiva che valorizzi gli individui nella loro interezza sia per le competenze professionali ma anche per il benessere personale; fra l’Azienda e l’individuo c’è da considerare l’importanza dell’attivazione di una collaborazione congiunta che  abbia un obiettivo dichiarato ed evidente da perseguire e che contempli una partecipazione  in cui lo sparare alle spalle non serva veramente a nessuno. Ciò è da intendersi non come una delega implicita al professionista di potere decisionale ma come una partecipazione attiva con un potere contrattuale che consenta un lavoro di squadra. Spesso le situazioni di burnout sono più frequenti in quei sistemi lavorativi dove c’è una leadership forte, presa e mantenuta, da dirigenti che tengono insieme  con  la forza qualcosa che non è saputo mantenere con altre qualità: in realtà in queste situazioni  il grosso problema è quello di una vera e propria mancanza di leadership.

E se è pur vero che il potere logora chi non ce l’ha, risposta scontata ad atteggiamenti invidiosi, è altrettanto vero che chi lo gestisce male si espone a sua volta a subire il feedback che deriva dal proprio operato e alla lunga non dà risultati edificanti per nessuno.

Nell’ambito di un progetto preventivo dei danni da stress  le modalità di intervento sono quindi da indirizzarsi su due direzioni principali: verso la struttura organizzativa da un lato e verso l’operatore dall’altro. Fra i requisiti fondamentali della struttura ci deve essere il rispetto per l’operatore e per la sua professionalità, il rispetto delle norme contrattuali, un ambiente confortevole, ma soprattutto la capacità e la volontà di chiarire i propri obiettivi, di coinvolgere tutte le figure professionali nel rispetto dei ruoli, salvaguardando la salute psicofisica dei propri dipendenti e indirettamente dei propri utenti. Gli interventi nei confronti degli operatori sono più difficili da gestire; i tempi sono spesso più lunghi perché ci si confronta con diverse strutture di personalità. In questo ambito sono essenziali le strategie di supervisione permanente e gli interventi sulla motivazione e sull’autostima. A questo scopo uno dei metodi collaudati e più efficaci è il lavoro fatto con i Gruppi Balint. Là dove questa metodologia di lavoro  trova spazio d’accoglienza con serietà e costanza, il rapporto medico-paziente e di conseguenza la compliance, ovvero l’adesione dei pazienti alle terapie indicate, risulta più seguita e maggiori sono i risultati terapeutici.

Quando l’Azienda e il professionista riescono a stringere un rapporto di fedeltà basato sulla trasparenza, tale da generare uno scambio di fiducia reciproca finalizzato al raggiungimento degli obiettivi attraverso la collaborazione, si può finalmente dire di avere un obiettivo comune e ciò, come in ogni rapporto che voglia vivere e crescere, è l’elemento costitutivo..

Riferendoci all’iceberg organizzativo che suggerisce il Dr. Anton Obholzer della Tavistoch Clinic di Londra, dobbiamo considerare che anche nel lavoro con le Aziende abbiamo a che fare con le componenti conscia ed una inconscia di un sistema e che ai meccanismi operativi si affiancano e si intersecano gli atteggiamenti e l’ideologia delle persone. 

Spesso, ma molto meno di qualche anno fa, i giochi di triangolazioni che hanno luogo in certi posti di lavoro anziché assumere una valenza confermante ne assumono una disconfermante sia verso i colleghi  professionisti che verso i pazienti.

Dove non è riconosciuta l’importanza di un linguaggio comune né della necessità di comunicare, ma ha la meglio solo il  bisogno di prevalere sull’altro si riattivano, spesso in maniera collusiva con la patologia o con la situazione trattata, relazioni che portano a mancare l’obiettivo salute e ad innescare escalation distruttive che invece dobbiamo imparare a decodificare.

E così sono molti i personaggi in cerca di spazio e di tempo anche nell’Azienda Sanità che potrebbero trarre beneficio da occasioni di incontro e di discussioni chiarificatrici dove poter esprimere, contenere ed elaborare eventuali difficoltà sul piano della relazione e occasione per trovare un  apprendimento emotivo utile per un diverso approccio. Lo scollamento fra pensare ed agire, se non viene elaborato, anziché produrre  benessere alimenta frustrazioni incongrue ed insoddisfazioni  incompatibili con un buon funzionamento. Nella sanità non si tratta di far diventare i medici o i paramedici degli psicologi, né di inserirli o di sottoporli ad analisi di gruppo, ma  si tratta di dare la possibilità per acquisire quelle conoscenze emotive, di cui la formazione universitaria è carente e che per dirla con Balint, possa consentire al medico di essere lui stesso medicina. Accanto alle competenze mediche e specialistiche  riuscire a collocare una capacità di ascolto di tipo empatico verso chi gli si rivolge con fiducia può essere un elemento posologico e diagnostico in più. Troppo spesso il pregiudizio che il medico deve rimanere lontano e distaccato è solo un giudizio a priori di chi temendo di mal gestire una relazione d’aiuto o non si dà o si dà troppo. Nel lavorare per acquisire competenze emotive partendo dalla discussione in gruppo di un caso clinico è possibile acquisire, nel qui ed ora del racconto di una relazione, competenza emotiva che permetta una nuova modalità di porsi nel rapporto con il paziente, non in maniera teorica sulle relazioni o sulla loro idealizzazione di “come dovrebbero essere” ma riconoscendo il vissuto emotivo sottostante. E’ possibile imparare a capire perché una certa persona è vissuta come “pesante” e cosa c’è dietro al malessere che un’altra continua a lamentare facendo sentire un forte senso d’impotenza, di rabbia, di noia fino a sentimenti molto più complessi di rabbia verso qualcuno. Il paziente più difficile spesso non è quello più grave ma quello con cui non si riesce ad instaurare una relazione. Tutto ciò se viene approfondito ed elaborato in un contesto attento e disponibile al confronto, che consenta anche una restituzione, permette di gran lunga la crescita e l’efficacia professionale.

Chi, come, quando, che cosa è opportuno che intervenga nella gestione delle risorse umane? Una leadership e un team  equilibrati sono quanto di più auspicabile per dar luogo ad un coaching ed ad un empowerment efficaci ed efficienti che abbiano garanzie di saper gestire i conflitti e sappiano negoziare in un’ottica che sappia dosare l’egocentrismo esibizionista di molti moderatori che guardano più ad essere accettati per la loro tolleranza che per le reali capacità dialettiche e dialogiche della gestione. Capacità che consentano di esprimere e far esprimere il potere contrattuale del singolo per finalità e obiettivi condivisi, pianificati e predisposti in un ordine di priorità.

Là dove tutto questo manca o è volutamente sottovalutato ha luogo un grande tradimento.

Gli amanti (1928), l’opera di Renè Magritte, artista surrealista che gioca con gli spostamenti del senso, utilizzando sia accostamenti inconsueti sia deformazioni irreali, si presta bene a rendere l’idea di quanto poco senso ci sia in certe relazioni.

La distanza che separa la realtà dalla sua rappresentazione, una costante nella pittura di questo artista belga, fra certe situazioni reali e come queste vengono rappresentate, offre la possibilità di cogliere l’analogia fra alcune realtà di vita e lavorative  con l’immagine dei due protagonisti dal volto coperto. Alcuni professionisti possono suscitare una grande malinconia per la crudeltà imposta da certe situazioni lavorative, proprio come ai due personaggi dal volto coperto nel quadro di Magritte ai quali viene negata la potenzialità del gesto compiuto proprio mentre stanno compiendo un importante gesto affettivo come il baciarsi.

Ed il tradimento, pur essendo una dinamica di sviluppo e di crescita importantissima là dove è attuato con la consapevolezza di lasciar soli per dare l’opportunità di capire da un possibile errore, se mal gestito, travolge e trascina dietro sé situazioni e persone e può divenire, implicitamente, causa di burnout a vari livelli fra cui quello lavorativo.

Si tratta sempre e comunque  di un cambiamento di rotta sia che riguardi i rapporti sentimentali, affettivi, amicali che quelli lavorativi. Un cambiamento di direzione che talvolta è incomprensibile per il cambiamento che comporta alle norme stabilite e ai valori riconosciuti; non comprensibile al di fuori, ma che ha sempre una coerenza interna che se non riconosciuta ed elaborata può fare molti danni. Coerenza che risulta essere composta da ingredienti vari, alcuni di prima qualità, altri volutamente scadenti o avariati fra i quali, da un lato, un giusto desiderio di riuscire e di far bene e dall’altro la paura, la noia, la vulnerabilità ad illudersi, le ambivalenze e il protagonismo. L’importante è, nel tradire, “essere fedeli a se stessi”; spesso una conflittualità interna fra bisogni e desideri consci e quelli inconsci di chi tradisce fa invece seguire un percorso mentale di fedeltà ai propri valori e alle proprie convinzioni, o a quelle di un sistema,  che porta a fare quello che sembra più giusto, nel momento che sembra più giusto, annullando completamente quello spazio e quel tempo mentale per il formarsi di risposte più congrue. E in un contesto anche lavorativo dove a fare da sfondo ci sono impulsi istintuali ecco che l’ambizione, la vendetta, la leggerezza, il bisogno di verificare la propria identità, sia professionale che talvolta sessuale, trovano il proscenio adatto. Quali gli attori? quali i contesti, le istigazioni, gli agiti di chi e di quale sistema? Questi sono elementi che non possono essere lasciati al caso, né mistificati. 

Spesso il bisogno di arrivare di alcuni, quello di prevalere di altri, la presenza in un professionista di una competizione insana e di insicurezze interne legate al sé e nelle proprie capacità, portano all’attivazione di comportamenti e all’esplicarsi di agiti che non rispettano la reciprocità. Avvalendomi delle considerazioni della Arrigoni Scortecci (1987) che si è occupata di reazioni terapeutiche negative, proponendone una revisione del concetto (in Tradimento e paranoia, G.C.Zapparoli ,Bollati Boringhieri,1992), viene piuttosto da rilevare in molti casi la presenza di una dinamica  simile  a quella che si ripresenta nel trattamento dei pazienti paranoici dove “un intervento basato sull’analisi delle resistenze può far emergere una modalità distruttiva volta ad attaccare il buon rapporto stabilito come espressione di distruttività combinata con una forte componente invidiosa”.

Organizzazioni lavorative che presentano sintomi o malattie riconoscibili dalla presenza di questi segni clinici di tipo psicopatologico sono organizzazioni  che non hanno ancora messo a punto l’utilizzo al meglio delle proprie risorse. Spesso si tratta di riconoscere l’importanza per un medico di saper essere anche manager di se stesso, di concepire la disponibilità  di imparare a porre maggiore attenzione al proprio modo di operare soprattutto rispetto alla presenza di proprie difese versus figure del passato. L’importanza di questo riconoscimento, cosa certo né banale né semplice, evita l’insorgere di una sorta di staffetta, con caratteristiche transferali, ad un contesto di gruppo che riproponga vissuti analoghi. Quando si verifica ciò,  tutto il contesto risente della mancanza di risposte adeguate che anziché favorire la crescita e il sano  sviluppo aziendale e professionale, vanno a sabotare gli obiettivi dell’Azienda stessa per effetto della collusione. Tutto quello che viene fatto è impostato  in maniera tale da non cambiare niente,  fino a sacrificare così, sull’altare dell’orgoglio, o meglio dell’hybris, ogni miglioramento.

Concludendo possiamo dire che il burnout, se riconosciuto, è da intendersi come uno stimolo forte e un segnale importante per definire strategie di difesa dallo stress lavorativo. E’ uno spunto per riflettere sia sul sistema Azienda che sugli individui che ne prendono parte, stando attenti a riconoscere i rischi del mestiere per evitarli grazie ad una conoscenza  delle dinamiche che sottendono alle relazioni e per ottimizzare le risorse disponibili. Il Noi formato da individui impegnati nella stessa attività, anche professionale, può implicare la condivisione di competenze, ritualità, obiettivi, segreti professionali; ci possono essere, come nei rapporti di coppia, lealtà particolari e settoriali (Boszormenyi – Nagy) ma questo non implica la condivisione di valori e sentimenti.

Discernere quali valori escludere, quali stili di vita comuni accettare, quali complicità affettive condividere o quali scelte ideologiche rispettare serve per impostare una collaborazione che non consenta identificazioni patologiche con l’insieme con cui ci si trova ad interagire delimitando, in tal modo, il rischio di dover entrare ed uscire da diversi ruoli rispondendo alle aspettative del gruppo piuttosto che ad un obiettivo. E su questi punti il lavoro di Bion, con l’indagine sulle dinamiche di gruppo e con i suoi assunti di base, diventa supporto indispensabile per un lavoro mirato al raggiungimento di una migliore qualità di vita e professionale. In quei contesti lavorativi dove questo avviene ed è integrato con una modalità operativa come quella proposta da Balint le cose funzionano, per dirla con Winnicott, sufficientemente bene.

I seminari formativi di CAFISC

Cafisc

Idea e promuove” Tre Appuntamenti seminariali

Promossi da CAFISC

Tenuti dalla Dr.sa Al. Tallarita PhD Criminolologa, Antropologa, Scrittrice, Artista. Presidente Cafisc. Direttore PCAPolitical.

Ed altri ospiti : avvocato, giornalista, psicologo, esperto di sicurezza.

Tematiche dei tre seminari:

-La situazione femminile nelle carceri

-I giovani e la dipendenza da social

-Cyber bullismo e istigazione al suicidio “

I seminari sono aperti a tutti.

Le date saranno comunicate agli iscritti per email con il link a cui collegarsi per seguirli.

Sezioni di novembre , dicembre , gennaio.

Per informazioni e Iscrizioni scrivere a: info@cafisc.it

Lasciando nome cognome e contatti numero e email Interesse ai tre seminari o a ciascuno.

Verrà rilasciato un attestato di partecipazione per gli usi consentiti dalla legge.

Comportamenti tipici dei genitori invadenti

Essere invadenti non ha nulla a che vedere con l’essere premurosi. Un genitore può essere premuroso senza essere invadente. Queste prime due frasi sono doverose perché spesso, i genitori, celano la loro invadenza dietro un eccesso di premura, quasi di preoccupazione spasmodica per il figlio. Diciamolo una volta per tutte: l’invadenza non ha nulla a che fare con la cura, con l’essere premurosi.

So che molti genitori storceranno il naso a leggere queste prime righe ma è così, l’invadenza non è una naturale evoluzione della preoccupazione ma è una chiara mancanza di rispetto, una chiara violazione dei confini psicorelazionali del figlio. Il genitore che vuole gestire la vita di suo figlio.

Più che alla volontà di proteggere il figlio, l’invadenza è meglio associata alla desiderio di voler gestire la vita del figlio. A questo può arrivare un genitore che tratta il figlio come un’estensione di sé, non riconoscendogli una sua identità personale.

Ciò succede quando il genitore proietta nel figlio parti di sé come pure tutte le sue ambizioni mancate, i suoi sogni infranti e le sue ferite. Così il figlio avrà il compito di riscattare la vita del genitore, di prendere in eredità, il carico emotivo del genitore. Lo scotto da pagare? Quel bambino non sarà mai in grado di sviluppare un’identità propria.

Questo andamento lo vediamo spesso in quei genitori che organizzano la vita del figlio, che già gli hanno programmato il percorso di studi, le amicizie da frequentare e le attività extrascolastiche, senza mai interessarsi davvero alle ambizioni del piccolo. Servendosi di sensi di colpa, ricatti emotivi e manipolazione affettiva, alcuni genitori sono capaci di inculcare la propria volontà nel figlio ancora piccolo. Iniziano sostituendo i desideri del bambino, con i propri.

Quel bambino, ben presto, si ritroverà a invalidare se stesso e a negare parti di sé per soddisfare il genitore. Ricordiamoci questo, un bambino vuole giocattoli, vuole dolciumi ma più di tutto vuole vedere nel genitore quel bagliore di fierezza, vuole sentirsi importante ai suoi occhi e, anche se non lo da a vedere apertamente, fa di tutto per riuscirci, anche se questo significa rinunciare a se stesso.

E da adulti?

Se prima, da bambini, era la gestione del tempo, i vestiti da indossare e le attività extra scolastiche, quando i figli sono adulti, quei genitori non smettono e continuano a esercitare la propria invadenza. Ecco che vogliono avere influenza su:

la scelta del partner

la carriera (studio e lavoro)

la stessa relazione genitore-figlio (livello di attaccamento e confini)

Un buon genitore, imperfetto come tutti gli esseri umani ma che riconosce al figlio una sua identità, può provare disappunto verso la scelta del partner esercitata dal figlio, tuttavia riesce ad accettarla. Può fargli presente determinati atteggiamenti del partner ma senza mai rimanere invischiato nelle dinamiche di coppia.

Insomma, riesce a gestire i confini perché, prima di tutto, accette e stima suo figlio.

Un genitore invadente, invece, se il figlio devia dal suo programma e gli presenta un partner non congeniale ai suoi piani, non solo palesa il suo disappunto ma glielo farà pesare. Lo farà a ogni litigio, anzi, non perderà nessuna occasione per sottolineare quanto l’abbia deluso con quella scelta. Già, perché fin da bambino, il genitore ha creato un vincolo. Ha vincolato l’erogazione dell’amore alla condotta del figlio. Un ricatto bruttissimo che i genitori invischianti operano spesso.

La sintesi è questa: se vuoi il mio amore, devi essere ciò che voglio io e negare chi sei veramente. È così che i genitori innescano nei figli, fin da piccoli, il seme dei conflitti interiori. Ancora peggio, gli insegnano l’amore condizionato, cioè un amore senza accettazione, senza stima… cioè un amore che in realtà, non è affatto amore dato che accettazione e stima sono alla base!

Il genitore invadente sfrutta impropriamente il suo potere

Quando un bambino viene al mondo è indifeso e bisognoso di cure. Il genitore si fa carico del figlio e, man mano che egli cresce, innesca un’insana dinamica di potere che suona così:

Io ti ho nutrito

Ti ho cresciuto

Io ti ho mantenuto economicamente

Ho investito le mie energie su di te

Ora tu mi appartieni, sei in debito!

Ovviamente, tale dinamica di potere sarà ben nascosta e mascherata da parole come “sacrificio”, “amore”, “preoccupazione” ma inevitabilmente emergerà mediante frasi quali: «per tutto quello che ho fatto per te», «me lo devi», «non puoi farmi questo», «tu puoi fare quello che vuoi ma poi non contare su di me» (che quindi, significa, puoi fare solo ciò che voglio io, perché il bambino ha solo i genitori su cui contare).

Questa dinamica, innesca una serie di ricatti morali nel figlio che si sentirà obbligato ad accondiscendere ai bisogni genitoriali, in lui emergeranno sensi di colpa, vergogna, sensazione di non essere abbastanza, rabbia repressa, ferita del rifiuto (…). In determinate situazioni, nel figlio emerge una rabbia più esplicita, accompagnata da condotte ribelli.Purtroppo la mentalità gerarchica e priva di amore che ho descritto nei 5 punti elencati in precedenza, è molto più comune di quanto si possa immaginare. Chi decide di mettere al mondo un figlio dovrebbe farlo mosso dal desiderio di donare amore incondizionato. Non è quel bambino che ha chiesto di venire al mondo. È dunque dovere del genitore supportare, nutrire e assicurare al figlio un’istruzione. Nel farlo, non guadagna alcun credito, non dovrebbe maturare alcuna pretesa! E questo non è affatto triste. Sapete perché? Perché un legame solido e ben nutrito, ripaga più di qualsiasi ricatto morale, ripaga più di qualsiasi pretesa.

Quando il genitore non riconosce al figlio il diritto di esistere

Un genitore invadente, non riconosce al figlio il diritto di esistere perché sistematicamente gli nega l’opportunità di pensare con la sua testa. Il figlio finisce per interiorizzare completamente il punto di vista genitoriale oppure per detestarlo. Un figlio che viene costantemente invalidato, in realtà, non ha la consapevolezza di ciò che sta subendo, si sente solo oppresso e non riuscendo a dare un significato a quei sentimenti di oppressione, potrebbe ripercuoterli su tutto (genitori, compagni di scuola…), oppure potrebbe annullare completamente se stesso.In entrambi i casi, un genitore invadente non si rende conto che con le sue pretese nascoste, con i suoi obblighi morali, finirà per: seminare il risentimento a lungo termine fomentare rabbia

creare un attaccamento disfunzionale e precario

negare al figlio autonomia e individuazione

creare un legame del tutto fasullo

Un genitore che riconosce al figlio il diritto di esistere in proprio, senza dipendenza e oppressione, gli consente di sviluppare idee, preferenze, bisogni propri e un pensiero personale che potrebbe anche essere divergente da quello genitoriale. Ci sta!Quando l’invadenza è solo legata alla preoccupazione

Vi sono forme di invadenza più innocenti che possono rimandare alla mera e fisiologica preoccupazione. Queste forme, sono più caratteristiche dei genitori ansiosi. In questo caso, l’invadenza si fa sentire quando il figlio passa molto tempo fuori casa. Il genitore sente il bisogno di rassicurarsi costantemente sullo stato di benessere del figlio e così può essere più pressante con telefonate e dettare regole di rientro più rigide .

Potrebbe capitare che il genitore diviene più presente nella vita del bambino prima e dell’adolescente dopo. In forme più complesse, il genitore potrebbe involontariamente non incoraggiare un’indipendenza adeguata allo sviluppo (la classica mamma chioccia).

Ma in questi casi, mancano tutte le componenti di repressione, obbligo, mancano i ricatti morali (…) e soprattutto, il figlio non è vissuto come uno strumento di realizzazione personale ma solo come un destinatario di amore e cure. Non solo, con la crescita del figlio anche il genitore inizia a sentirsi più sicuro così da superare insieme i timori e le incertezze legate al futuro .

Alla ricerca di uno scopo

Il genitore diviene invadente e bramoso di gestire la vita del figlio quando la sua stessa identità è coinvolta nella realizzazione del figlio. Il successo del figlio fa sentire i genitori migliori, realizzati, come se la loro vita (percepita come priva di senso) avesse finalmente uno scopo, una direzione chiara! Il figlio non è vissuto come una persona a sé ma un mezzo mediante il quale soddisfarsi. Fare il genitore è sicuramente difficile ma talvolta manca proprio l’ABC. In fondo, per essere un buon genitore, basterebbe riconoscere al bambino il suo diritto d’esistere come individuo a sé, degno di stima e di amore.

A.De Simone, psicologo esperto in neuropsicobiologia. Autore del bestseller «Riscrivi le pagine della tua vita» edito Rizzoli

Fonte: psicoadvisor.com

Tavolo Interistituzionale sul fenomeno della violenza sulle donne

DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA
UFFICIO DEL CAPO DEL DIPARTIMENTO
Ufficio Studi Ricerche Legislazione e Rapporti Internazionali

Abstract – L’Ufficio Studi del Dap ha partecipato ad alcuni tavoli della Task Force interministeriale sulla violenza di genere, coordinata dal Dipartimento per le PP.OO. della PCM, per elaborare il Piano straordinario previsto dalla cd legge sul femminicidio (art. 5 del DL 93/13 convertito nella L. 119/13). Ha contribuito quindi alla elaborazione delle LINEE GUIDA sulla valutazione del rischio ponendo l’attenzione sul modello interdisciplinare di osservazione scientifica della personalità previsto in ambito penitenziario. La enucleazione e la valutazione dei fattori di rischio, da parte degli autori, di commettere violenza verso le donne è un’attività necessaria per individuare le misure penali ed il trattamento più adeguato a prevenire la recidiva e assicurare così una tutela delle vittime davvero efficace e duratura. Le indicazioni proposte dal gruppo di lavoro si rivolgono a tutti gli operatori coinvolti sul territorio (forze di polizia, pronto soccorso, centri antiviolenza e per i maltrattanti, magistrati e servizi penitenziari) che dovranno coordinarsi e mettere in comune dati, saperi ed esperienze maturate sul campo. Si presenta qui un estratto dal documento finale 2014, poi recepito nel DPCM 7 luglio 2015 “Piano straordinario d’azione contro la violenza sessuale e di genere“, in particolare all’Allegato d) sulle Linee Guida.

LA VALUTAZIONE DEL RISCHIO NEL SISTEMA PENITENZIARIO

GRUPPO DI LAVORO PER LA REDAZIONE DELLE:
“LINEE GUIDA PER LA VALUTAZIONE DEI FATTORI DI  RISCHIO”


A fronte dei vincoli normativi riguardo al giudizio sulla capacità di intendere e volere e quindi sull’imputabilità giuridica dell’autore accertato o sospettato, nel sistema penale italiano e l’Ordinamento penitenziario[1]; formano un insieme organico di norme fondate sul principio costituzionale della funzione rieducativa della pena che prevedono, oltre ai diritti e doveri dei detenuti, l’organizzazione degli istituti, un complesso di attività di accertamento e valutazione delle caratteristiche della personalità dei soggetti condannati ed internati. Attività organizzate che coinvolgono la Magistratura di Sorveglianza e l’Amministrazione penitenziaria  (DAP) in due distinti momenti:

  1. per evidenziare uno degli elementi  necessari all’Autorità giudiziaria al fine di stabilire la pericolosità sociale del condannato e internato, deducibile anche dai “motivi a delinquere e dal carattere del reo” (artt. 133-comma 2,n.1  e  203  C.p.),  al fine di decidere sull’applicazione o meno delle misure di sicurezza e la loro eventuale proroga, con il procedimento di riesame della pericolosità a cura della Magistratura di Sorveglianza;
  2. come elemento dell’Osservazione scientifica della personalità (OSP), quale attività tipica condotta dagli operatori penitenziari, per rilevare fin dal primo ingresso i bisogni, le carenze fisiopsichiche e le altre cause di disadattamento sociale che hanno portato alla condotta criminale (art 13 O.p. e 27,28 e 29 R.d’E.) ;  sulla base di questi risultati viene formulato il  programma individualizzato di trattamento, con gli interventi, immediati e in itinere, più adeguati al recupero sociale e quindi alla prevenzione della recidiva e forniti i pareri e le osservazioni a supporto delle decisioni della Magistratura di Sorveglianza per la concessione dei benefici penitenziari (permessi, detenzione domiciliare, affidamento in prova, semilibertà ecc).

Per gli autori dei più gravi reati a sfondo sessuale (fra cui la violenza di gruppo art. 609-octies C.P.) l’O.P. prescrive, fra l’altro, almeno un anno di osservazione anche da parte degli esperti ex art. 80 (psicologi, criminologi) quale condicio sine qua non per poter accedere ai benefici. Se la vittima è minorenne l’autore può inoltre sottoporsi per almeno un anno ad un trattamento psicologico di recupero e sostegno.
L’OSP è condotta in equipe dal Gruppo di osservazione e trattamento (GOT) composta dagli operatori penitenziari (educatori, assistenti sociali, medici, esperti psicologi o criminologi, polizia penitenziaria ed altri che conoscono il detenuto es.  insegnanti, volontari ecc ), sulla base di un contatto diretto col detenuto in una relazione costruttiva. Si procede, ognuno secondo l’area di competenza, con  la raccolta sistematica e l’esame  di tutte le informazioni (giuridiche, familiari, sanitarie, psicologiche, sulla carriera criminale, situazione socio-familiare, lavorativa, istruzione, sul vissuto e le relazioni interpersonali dentro e fuori dal carcere, il comportamento auto lesivo, tossicodipendenza, ecc). Si segue quindi un approccio di tipo multifattoriale per arrivare ad una visione unitaria della persona espressa nella relazione di sintesi redatta dal GOT con la supervisione del direttore del carcere.
Nel sistema penale italiano, storicamente ancorato al fatto, ma attento ai contributi della Scuola positiva sulle tipologie di autore, tale approccio attraverso l’OSP consente, se non una illusoria esatta predizione della condotta criminale, la conoscenza approfondita degli aspetti della vita e della personalità dell’autore rilevanti che hanno influito sulla commissione del reato.
Le complesse dinamiche personologiche che investono i reati legati alla violenza di genere e la gravità della escalation esigono che il sistema penitenziario possa elaborare, recepire , sperimentare e fare affidamento anche  su strumenti e metodiche di assessment per la valutazione del rischio facilmente fruibili dai suoi operatori, in modo che la scelta del tipo di trattamento sia quella più adatta a favorire nel singolo caso gli interventi di recupero,  da intendere come sviluppo degli aspetti positivi della personalità e modifica del comportamento lesivo (consapevolezza del suo agito, auto-responsabilizzazione ed azioni risarcitorie della vittima) con la partecipazione attiva e non meramente utilitaristica dell’autore al progetto educativo.
Gli operatori penitenziari, grazie alla presa in carico e alla conoscenza diretta degli autori entrati nel circuito penale, possono mettere a frutto il tempo della pena e delle misure alternative o di comunità e svolgere quindi, dentro e fuori dal carcere, un ruolo importante nell’ambito del territorio per l’integrazione degli interventi, la condivisione delle informazioni (non ostative sotto il profilo giudiziario e di sicurezza) e dei risultati delle verifiche sul trattamento nella prospettiva di prevenire la ricaduta nel reato da parte del singolo autore. Inoltre, gli studi e le ricerche finora condotte sulla popolazione detenuta italiana con la collaborazione del DAP hanno rappresentato e rappresentano occasioni importanti anche ai fini della maggiore conoscenza del fenomeno,  per la validazione di strumenti scientifici e la sperimentazione di diversi approcci metodologici per la valutazione dei livelli di rischio[2] ; ed il perfezionamento di altri già sperimentati positivamente. 

Il  ruolo e le risorse professionali  dell’Amministrazione penitenziaria vanno  quindi orientati : 

  • attrezzando i suoi operatori, attraverso la formazione congiunta con gli altri destinatari  di Primo e Secondo Livello, di conoscenze e competenze specifiche sul fenomeno della violenza di genere e sugli strumenti scientifici convalidati e fruibili per la valutazione dei livelli di rischio di condotte violente, aggressive, anche a lungo termine, mettendo a frutto i risultati delle più acclarate ricerche scientifiche, criminologiche e sociologiche riguardo alla prevenzione della violenza di genere e nelle relazioni interpersonali;
  • sviluppando gli interventi sugli autori con la partecipazione anche della comunità esterna, in un approccio integrato con le reti del territorio istituzionali e non, e in particolare con i Centri di recupero per i maltrattanti;
  • favorendo gli studi e le ricerche scientifiche sulla popolazione detenuta dei sex offenders e sulla qualità della valutazione del rischio in collaborazione con le Università, le Forze dell’Ordine, i Servizi sanitari, gli Enti e Istituzioni, Associazioni e Organismi del territorio e la Comunità scientifica internazionale, e la sperimentazione di protocolli e metodiche convalidate, utili e fruibili, sia ai fini delle indagini investigative da parte delle FF.OO.  sia  per mettere a punto specifiche modalità di gestione e trattamento (risk management) ai fini del recupero di tali autori nella comune prospettiva di prevenirne la recidiva e quindi tutelare le vittime reali e potenziali.

Roma, 7 Luglio 2015

Redatto da Antonella Paloscia
   Dirigente Penitenziario

IL DIRETTORE DELL’UFFICIO
Roberta Palmisano

[1] Legge 26 luglio 1975, n. 354 “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” e il suo Regolamento d’Esecuzione (DPR 30 giugno 2000, n. 230). Tali norme, recepiscono le regole minime dell’ ONU e le regole penitenziarie europee sul trattamento dei detenuti

[2]Al riguardo si cita la ricerca S.O.Cr.A.Te.S. dell’Arma dei Carabinieri e del DAP con il prof. Caretti dell’Università di Palermo, sulla validazione in Italia della PCL-R, proseguito poi con i risultati positivi raggiunti in alcuni istituti con il progetto Stalking (prof. A. Baldry Università di Napoli 2) che ha utilizzato, fra gli altri, il metodo S.A.R.A. (per quest’ultimo si rinvia al Report conclusivo inviato al DPO nel 2011). Inoltre il DAP sta valutando, in collaborazione con l’Università di Sassari, l’adozione da parte degli UEPE (Uffici locali di esecuzione penale esterna) di un Modello di valutazione scientifica dei livelli di rischio di tenuta di comportamenti devianti per i soggetti che chiedono di essere ammessi ad una misura o sanzione alternativa alla detenzione o di comunità, in modo da adempiere a quanto previsto dalle Regole europee sul Probation (2010)1 ed uniformarsi alle realtà più avanzate presenti in Europa. Tale modello, comprensivo di item sia di natura sociale che psicologica, è stato elaborato nell’ambito dell’attività internazionale del DAP ispirandosi ampiamente soprattutto all’esperienza maturata da alcuni paesi europei (Regno Unito e Irlanda). Vedi anche alcune esperienze significative di trattamento intensificato per i sex offenders in carcere con la collaborazione del territorio (Carcere di Milano Bollate con il Centro di Mediazione Penale di Milano) anche dopo la scarcerazione. Altri progetti e ricerche condotti dal DAP, fra cui WOLF e For-Wolf sui rei pedofili (vedi a cura di L. Mariotti Culla, G.De Leo “Attendi al lupo”, ed. Giuffrè, Milano 2005), ed interventi specifici sul trattamento dei sex offenders, sono illustrati nella rivista ufficiale del DAP La rassegna penitenziaria e criminologica consultabile sul sito www.rassegnapenitenziaria.it e su www.Giustizia.it

Fonte: Ministero della Giustizia A.Paloscia report 2015

Valutazione del rischio di recidiva dei condannati per reati sessuali e di mafia

DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA UFFICIO DEL CAPO DEL DIPARTIMENTO

Ufficio Studi Ricerche Legislazione e Rapporti Internazionali

Si tratta di un programma di ricerca scientifico-criminologica proposto da un team di professionisti ed accademici (responsabile scientifico: prof. V. Caretti, Università LUMSA di Roma) articolata in due progetti da svolgere in diverse carceri del territorio nazionale, su un campione di detenuti per reati commessi con violenza sulle persone. Finalità: rispondere alle esigenze di valutazione del rischio in ambito giuridico e psichiatrico-forense e formare gli operatori con indicazioni operative per il trattamento penitenziario più efficace a prevenire la recidiva di questi gravi reati. valutare la validità predittiva di uno strumento diagnostico, l’HCR-20 V3, per i crimini sessuali e la possibilità di utilizzarlo nel contesto italiano. Metodologia: indagine documentale, sulla storia personale, interviste professionali, semistrutturate e di autovalutazione (HCR-20 V3, PCL-R adattamento italiano di Caretti et al., 2011 validato in Italia con la ricerca S.O.Cr.A.TE.S, PID-5), con la partecipazione di detenuti condannati per reati a sfondo sessuale, violenti, nonché su affiliati ad organizzazioni a stampo mafioso. Si presenta in questa sezione una sintesi dei DUE PROGETTI 1. La valutazione del rischio della pericolosità sociale e del rischio di recidiva in soggetti detenuti condannati per reati sessuali. Indagine su un campione di sex offenders e su un gruppo di controllo con reati contro la persona presenti nelle carceri di diverse regioni italiane. Seguirà una fase di follow up per verificare la capacità predittiva dell’ HCR-20 V3 e l’uso di tale strumento per valutare il rischio di crimini sessuali anche nel contesto italiano. Obiettivo: individuare i diversi fattori – storici, clinici attuariali e di personalità – che possono differenziare i sex offenders dagli altri autori violenti e restituire i risultati dando agli operatori penitenziari strumenti più adeguati ed efficaci per la valutazione del detenuto ai fini del trattamento. 2. La valutazione del rischio criminologico in soggetti afferenti a organizzazioni mafiose. Indagine sui detenuti per reati di mafia presenti in due carceri (Palermo e Trapani). Obiettivo: approfondire i tratti di personalità diversi dalla psicopatia e l’incidenza del trattamento penitenziario, al fine di individuare gli elementi di rischio criminologico maggiormente presenti nei soggetti appartenenti ad organizzazioni mafioseperfezionare il sistema di valutazione del rischio criminologico e migliorare i protocolli di trattamento rieducativo rivolti ai detenuti per reati di mafia.

Fonte Ministero della Giustizia – A. Paloscia, 2015